1984
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George Orwell

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George Orwell

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È guerra perpetua, nel mondo, tra Oceania, Eurasia ed Estasia. E Londra, capitale europea dell'Oceania, è una città in rovina, stremata dalla dittatura del Grande Fratello e dalla miseria. In questo scenario cupo e desolato, entrato ormai a pieno titolo nel nostro immaginario e nella cultura popolare, Orwell disegna il futuro della società moderna. La tragica ribellione di Winston Smith al Grande Fratello e la storia del suo amore per Julia sono lo specchio in cui Orwell riflette in modo lucido e senza sconti sul destino che potrebbe attendere un'umanità che ha fatto di tutto per eliminare se stessa: libertà personali controllate dall'autorità, storia e memoria riscritte e manipolate, e un linguaggio, unico baluardo di libertà, asservito al potere.
Riproposto in una nuova traduzione, che ne restitui-sce le atmosfere cupe e allucinate e il linguaggio a volte brutale, 1984 è uno dei classici moderni più letti e citati, perché ci ricorda ancora oggi cosa può accadere quando l'esercizio del pensiero viene impedito e dire la verità diventa un atto rivoluzionario.

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Information

Publisher
BUR
Year
2021
ISBN
9788831802864

PARTE SECONDA

I

A metà mattina, Winston si alzò dal suo cubicolo per andare in bagno.
Una persona gli veniva incontro, sola, dall’altra parte del lungo corridoio illuminato a giorno. Era la ragazza dai capelli neri. Quattro giorni erano passati dalla sera in cui se l’era ritrovata davanti all’uscita dal negozietto. Mentre si avvicinava vide che teneva il braccio destro appeso al collo, da lontano non si notava perché la fascia era dello stesso colore della tuta. Forse le si era impigliata una mano mentre girava uno dei grossi caleidoscopi con cui si “sgrossavano” le trame dei romanzi. Era un infortunio comune, nel Reparto Fiction.
Quand’erano a circa quattro metriche uno dall’altra lei inciampò e cadde quasi sulla faccia. Un grido acuto di dolore le uscì come spremuto dalla gola. Doveva essere finita con il peso sul braccio infortunato. Winston si bloccò. La ragazza si era già rimessa in ginocchio. La faccia le era diventata di un giallo lattiginoso su cui le labbra spiccavano più rosse che mai. Aveva gli occhi fissi su di lui e un’espressione attraente, più spaventata che dolorante.
Una strana emozione nacque nel cuore di Winston. Di fronte a lui ecco la nemica che voleva ucciderlo; ma era anche un essere umano dolorante, magari con un osso rotto. Si era già istintivamente avvicinato per aiutarla. Nell’attimo in cui l’aveva vista cadere sul braccio fasciato, aveva quasi sentito il dolore su se stesso.
«Ti sei fatta male?» le chiese.
«No. È il braccio. Passa subito.»
Sembrava avesse la tachicardia. Era davvero pallidissima.
«Niente di rotto?»
«No, tutto a posto. Mi ha fatto male solo lì per lì.»
Gli tese il braccio sano, lui la aiutò ad alzarsi. Aveva ripreso un minimo di colore, sembrava stare davvero molto meglio.
«È tutto a posto» disse di nuovo, rapida. «Ho solo sbattuto un poco il polso. Grazie, compagno!»
E si riavviò vivace, come se fosse davvero tutto a posto. L’intero episodio non poteva essere durato più di trenta secondi. Non lasciar trasparire alcun sentimento era un’abitudine assunta ormai quasi per istinto e in ogni caso si trovavano precisamente davanti a un televideo quando era successo l’incidente. Ma era stato lo stesso difficilissimo per Winston non tradire un lampo di sorpresa, quando nei due o tre secondi in cui l’aveva aiutata ad alzarsi lei gli aveva lasciato scivolare in mano qualcosa. Nessun dubbio che l’avesse fatto apposta. Era piccolo, piatto. Mentre entrava nel bagno se lo mise in tasca e lo tastò con i polpastrelli. Si trattava di un pezzo di carta ripiegato a quadratino.
Davanti all’orinatoio, smanettando ancora un po’, riuscì ad aprirlo, sempre tenendolo in tasca. Era chiaramente un bigliettino. Per un attimo Winston ebbe la tentazione di entrare in uno dei gabinetti e leggerlo immediatamente. Ma sarebbe stata una follia inaudita, lo sapeva bene. In nessun altro luogo i televideo ricevevano tanta attenzione come lì dentro.
Tornò nel suo cubicolo, si sedette, buttò casualmente il bigliettino sulla scrivania, inforcò gli occhiali e tirò il parlascrivi a sé. Cinque minuti, si disse. Cinque minuti come minimo! Il cuore gli batteva in petto con forza impressionante. Per fortuna in quel momento eseguiva un lavoro di routine, doveva solo rettificare lunghe colonne di cifre, non bisognava metterci la testa.
Qualsiasi cosa dicesse, il bigliettino aveva certo un significato politico. Al momento, riusciva a immaginare due possibilità. Una, la più probabile, era che la ragazza fosse un’agente della Polizia Mentale, proprio come temeva. Non sapeva perché la Polizia Mentale mandasse messaggi in quella maniera, ma avrà avuto le sue ragioni. Il biglietto poteva essere una minaccia, un ordine di comparizione, un’ingiunzione al suicidio, una trappola di qualche tipo. Ma esisteva anche un’altra possibilità, folle e sfrenata, che gli tornava in mente di continuo benché provasse invano a togliersela dalla testa. Ed era che il messaggio non c’entrasse niente con la Polizia Mentale ma venisse da un’organizzazione clandestina. Forse la Fratellanza esisteva! Forse la ragazza ne era un membro! Senza alcun dubbio un’idea insensata, ma gli era balenata in testa non appena aveva sentito nella mano il pezzo di carta. Soltanto dopo un paio di minuti aveva pensato all’altra spiegazione, la più probabile. E anche ora, benché la ragione gli dicesse che in quel biglietto c’era quasi sicuramente la sua morte… non ci credeva davvero e l’irragionevole speranza non se ne andava, il suo cuore infuriava, era difficile impedire alla voce di tremare mentre sussurrava cifre al parlascrivi.
Una volta terminata quell’incombenza, arrotolò il risultato in un involto che affidò alla posta pneumatica. Erano passati otto minuti. Si risistemò gli occhiali sul naso, sospirò e avvicinò a sé le carte per il lavoro successivo, con il biglietto sopra. Lo dispiegò. Ecco quel che c’era scritto sopra, con grafia larga e anonima.
Ti amo.
Per diversi secondi Winston rimase troppo stupefatto anche solo per buttare nel buco mnemonico il pezzo di carta incriminato. Quando finalmente lo fece, anche se sapeva benissimo quanto fosse pericoloso mostrarsi troppo interessati a qualcosa, non riuscì a non leggerlo di nuovo solo per assicurarsi che contenesse davvero quelle due parole.
Per il resto della mattinata, lavorare fu difficilissimo. Non era solo doversi concentrare su una serie di incombenze fastidiose, ma soprattutto nascondere l’agitazione davanti al televideo. Si sentiva lo stomaco in fiamme. Il pranzo in mensa, calda, affollata, rumorosa, fu una tortura. Aveva sperato di pranzare da solo ma sfortuna volle che quell’imbecille di Parsons gli si lasciasse cadere al fianco, con il suo fetore che quasi copriva l’odore ferrigno dell’umido, senza mai smettere un secondo di raccontargli i preparativi per il Settegiorni d’Odio. Era entusiasta soprattutto di una riproduzione in cartapesta del testone del Grande Fratello, larga due metriche e preparata apposta per l’occasione dalla banda di Spie di sua figlia. Il brutto era che in quel frastuono Winston quasi non sentiva niente e doveva chiedere di continuo a Parsons di ripetere le sue frasi inutili. Solo una volta aveva scorto la ragazza in un lampo, seduta con altre due dalla parte opposta della sala. Non sembrava averlo visto, né Winston volse più lo sguardo da quel lato.
Nel pomeriggio andò meglio. Subito dopo pranzo gli arrivò un lavoro difficile e delicato, per finirlo ci sarebbero volute ore e Winston lasciò da parte tutto il resto. Si trattava di contraffare una serie di resoconti sulla produzione di due anni prima, in modo da screditare un importante membro del Partito Interno, oggi in disgrazia. Era il tipo di incombenza che gli veniva bene, e per più di due ore riuscì a dimenticare del tutto la ragazza. Ma poi gli tornò in mente il suo volto e con esso un furibondo, insopportabile desiderio di solitudine. Finché non fosse rimasto solo era impossibile riflettere sui nuovi sviluppi della vicenda. Quel giorno aveva una serata al Centro Comunitario. Ingollò l’ennesimo pasto insapore a mensa, scappò al Centro, partecipò alla solenne buffonata di un “gruppo di studio”, giocò due partite a ping-pong, buttò giù diverse dosi di gin e si sorbì un indottrinamento di mezz’ora dal titolo L’INGSOC e il gioco degli scacchi. Aveva lo spirito accartocciato dalla noia ma per una volta non sentiva alcun bisogno di marinare il Centro. Da quando aveva letto le parole Ti amo, un desiderio di sopravvivenza gli si era gonfiato in petto e correre rischi secondari gli sembrava improvvisamente idiota. Soltanto alle ventitré zero zero, già in casa e a letto – al buio, al sicuro anche dal televideo, finché restava in silenzio – riuscì a pensare con un minimo di costrutto.
C’era da risolvere un problema pratico: entrare in contatto con la ragazza e combinare un appuntamento. Winston non prendeva più in considerazione la possibilità che gli avesse teso una trappola. Non era così, lo diceva la sua evidente agitazione nel passargli il bigliettino. Era chiaramente fuori di sé dal terrore, e ne aveva ben donde. Né gli passò per la testa di respingere il suo approccio. Soltanto cinque sere prima aveva contemplato l’idea di spaccarle il cranio a sassate, ma che c’entrava? Pensò al suo giovane corpo nudo come l’aveva visto in sogno. Credeva che lei fosse un’idiota come gli altri, con la testa piena di odio e di menzogne, le viscere di ghiaccio. Una specie di febbre lo colse al pensiero di poterla perdere, che quel giovane pallido corpo potesse scivolare fuori dalla sua portata! La sua paura più grande era che lei cambiasse semplicemente idea, se non la avvicinava in fretta. Ma fisicamente le difficoltà di un incontro erano incommensurabili. Quasi come spostare un pezzo quando sei sotto scacco. Da qualsiasi parte ti voltavi c’era un televideo. In realtà, tutti i possibili modi di comunicare con lei gli erano già venuti in mente cinque minuti dopo aver letto il suo biglietto; ma adesso che aveva tempo di riflettere li ripassò a uno a uno, quasi allineasse attrezzi sopra un tavolo.
Un abboccamento come quel mattino, era chiaro, non si poteva ripetere. Se la ragazza avesse lavorato nel Reparto Aggiornamenti sarebbe stato anche facile, ma Winston aveva solo un’idea vaga di dove si trovasse il Reparto Fiction e nessun pretesto per andarci. Se avesse saputo dove abitava e a che ora staccava, avrebbe potuto escogitare una maniera per avvicinarla sulla via di casa; ma seguirla dopo l’orario di lavoro era pericoloso, significava gironzolare all’uscita del Ministero, con il rischio di farsi notare. Quanto a mandarle una lettera attraverso la posta normale, era fuori discussione. Per una pratica nemmeno tanto segreta, tutte le lettere in transito venivano aperte. Infatti quasi nessuno ne scriveva, ormai. Per i brevi messaggi occasionali esistevano cartoline prestampate con lunghe colonne di frasi, da cui bastava barrare quelle che non servivano. E comunque non sapeva come si chiamava la ragazza, per non parlare del suo indirizzo. Alla fine, decise che il luogo meno pericoloso era la mensa. Se riusciva a trovarla a un tavolo da sola, magari in mezzo alla sala, non troppo vicino ai televideo e con intorno un brusio abbastanza intenso… Se tutte queste condizioni si fossero verificate diciamo anche solo per trenta secondi, forse sarebbero riusciti a scambiare due parole.
Per una settimana dopo quell’episodio, la vita di Winston assomigliò a un sogno esagitato. Il giorno dopo lei comparve in mensa solo quando lui stava per uscire e i televideo già avevano fischiato. Dovevano averle cambiato il turno. Si incrociarono senza scambiare uno sguardo. Il giorno dopo la ragazza era in mensa alla solita ora ma stava con altre tre o quattro, proprio sotto un televideo. Poi, per tre giorni atroci, non si fece proprio vedere. Winston si sentiva la mente e il corpo mostruosamente ipersensibili, quasi trasparenti: ogni movimento, ogni suono, ogni contatto, ogni parola detta o ascoltata era un’agonia. Perfino nel sonno non riusciva a sottrarsi all’immagine di lei. In quei giorni non aprì mai il diario. L’unico sollievo era nel lavoro, in cui di tanto in tanto riusciva a perdersi per dieci minuti. Non aveva idea di cosa potesse esserle successo. Né poteva indagare con nessuno. Magari era stata vaporizzata, o si era suicidata, oppure l’avevano trasferita all’altro capo d’Oceania; peggio ancora, e più probabilmente, aveva solo cambiato idea e lo stava evitando.
Il giorno successivo ricomparve. Non aveva più il braccio al collo, soltanto un cerotto intorno al polso. Il sollievo nel rivederla fu così enorme che per diversi secondi Winston non riuscì a non tenere lo sguardo su di lei. Il giorno successivo ancora, quasi riuscì a parlarle. Al momento di entrare a mensa la vide seduta a un tavolo ben distanziato dai muri, sola soletta. Era presto, il luogo non molto affollato. La coda avanzava pian pianino, toccava quasi a Winston, ma perse ancora un paio di minuti per via delle lamentele di uno davanti a lui che non aveva ricevuto la sua tavoletta di saccarina. La ragazza era ancora sola quando Winston afferrò finalmente il suo vassoio e fece per avvicinarsi a lei. Camminava come se niente fosse verso di lei, lo sguardo alla ricerca di un posto oltre il suo tavolo. Erano forse a tre metriche di distanza. Due secondi ed era fatta. A quel punto una voce alle sue spalle lo chiamò: «Smith!». Finse di non sentire. «Smith!» chiamò di nuovo la voce, più forte. Inutile. Si girò. Un ragazzotto biondo dall’espressione stupida, di nome Wilsher, lo invitava con un sorriso a sedersi in un posto vuoto accanto a lui. Era pericoloso rifiutare. Una volta riconosciuto, non poteva andare a sedersi con una ragazza non accompagnata. Troppo evidente. Si accomodò vicino all’altro con un sorriso amichevole. Venne accolto con gioia da quella faccia bionda e istupidita. In un’allucinazione momentanea, Winston si vide piantarci un piccone proprio in mezzo. Pochi minuti dopo, anche il tavolo della ragazza si era riempito.
Lei però doveva averlo visto avvicinarsi e forse avrebbe capito. Il giorno dopo Winston si preoccupò di scendere sul presto. E infatti eccola lì, seduta a un tavolo più o meno nella stessa zona, di nuovo sola. La persona in fila subito davanti a Winston era un omuncolo sgattaiolante e scarafaggesco, con faccia piatta e due occhietti sospettosi. Nell’attimo in cui lasciava il bancone con il vassoio pieno, Winston vide l’omuncolo dirigersi dritto verso il tavolo della ragazza. Le sue speranze crollarono di nuovo. C’era un posto vuoto a un tavolo un po’ oltre, ma qualcosa nell’atteggiamento dell’omuncolo lasciava pensare che avrebbe preferito il tavolo meno affollato così da stare più comodo. Winston lo seguiva con cuore raggelato. Se c’era qualcun altro al tavolo della ragazza, era tutto inutile. In quell’istante si sentì un botto tremendo. L’omuncolo era finito lungo per terra, il suo vassoio era volato via e sul pavimento colavano due rivoli di zuppa e di caffè. Si rialzò subito con uno sguardo cattivo verso Winston, evidentemente sospettandolo di averlo sgambettato. Pazienza. Cinque secondi dopo, con il cuore a mille, Winston era seduto al tavolo della ragazza.
Non la guardava. Scaricò il vassoio sul tavolo e cominciò a mangiare. Era importantissimo iniziare subito a parlare, prima dell’arrivo di altre persone, ma Winston era in preda a un terrore sacro. Il primo approccio della ragazza in corridoio risaliva ormai alla settimana scorsa. Poteva aver cambiato idea, doveva aver cambiato idea! Impossibile che quella storia finisse bene: certe cose non succedono nella vita reale. Probabilmente Winston alla fine non avrebbe aperto bocca, ma in quel momento intravide Ampleforth, il poeta dalle orecchie pelose, aggirarsi mollemente per la sala con un vassoio in mano, alla ricerca di un posto. Nel suo stile distratto, Ampleforth era legato a Winston e sarebbe sicuramente andato da lui se lo avesse visto. Avevano un minuto al massimo. Lui e la ragazza continuavano a mangiare senza interruzione. Quel giorno c’erano cannellini in umido ma non avevano alcuna consistenza, sembravano più una zuppa. Winston attaccò discorso in un sussurro. Nessuno dei due alzava gli occhi dal piatto; continuavano a infilarsi in bocca quella roba acquosa a cucchiaiate, e tra l’una e l’altra si scambiavano con voce piatta le parole necessarie.
«A che ora stacchi?»
«Diciotto trenta.»
«Dove ci vediamo?»
«A piazza Vittoria, sotto il monumento.»
«Ma è pieno di televideo.»
«Non importa, basta che c’è folla.»
«Ci facciamo un segno?»
«No. Non mi avvicinare finché non mi vedi in mezzo a tante persone. E non guardarmi mai. Mettiti solo vicino a me.»
«Alle…?»
«Verso le diciannove zero zero.»
«Va bene.»
Ampleforth non si accorse di Winston e andò a sedersi a un altro tavolo. Non si dissero altro e per quanto possibile, pur stando seduti uno di fronte all’altra, non si scambiarono nemmeno un’occhiata. Lei finì in fretta di mangiare e si alzò, Winston rimase a fumare una sigaretta.
Arrivò a piazza Vittoria prima del tempo. Girellò intorno alla base dell’enorme colonna scanalata in cima alla quale la statua del Grande Fratello guardava verso i cieli meridionali, dove aveva sconfitto l’aviazione eurasiatica (estasiatica, fino a pochi anni prima) nella battaglia di Airstrip One. Sulla strada lì davanti c’era una statua equestre che avrebbe dovuto rappresentare Oliver Cromwell. Cinque minuti dopo l’ora fissata, la ragazza non si vedeva ancora. Winston fu di nuovo colto dal terrore. Non sarebbe venuta, aveva cambiato idea! Si mosse piano verso il lato nord della piazza, dove si riconfortò un poco alla vista della chiesa di san Martino, le cui campane, quando c’erano, avevano rintoccato “Mi devi un quartino”. Poi la vide, era alla base del monumento e leggeva, o fingeva di leggere, un manifesto che risaliva sulla colonna a spirale. Avvicinarla era pericoloso, fin quando non si fosse formata un po’ di folla. Tutto intorno al piedistallo era pieno di televideo. In quel momento si sentì un’esplosione di grida e una vibrazione da sinistra, come di mezzi pesanti in avvicinamento. Di colpo, la gente si mise a correre attraverso la piazza. La ragazza balzò agile intorno ai leoni sotto il monumento e si unì alla r...

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