Processo al Pi Greco
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Processo al Pi Greco

Equivoci, disastri e altri errori matematici

Matt Parker

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Processo al Pi Greco

Equivoci, disastri e altri errori matematici

Matt Parker

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Incendi causati dalle pareti a specchio dei grattacieli, impianti radar in tilt, edifici che tremano perché al dodicesimo piano qualcuno fa esercizio sulle note di The Power, ponti che oscillano più del dovuto, sistemi informatici destinati a fermarsi il 19 gennaio 2038, atleti di tiro a segno che non si presentano alle Olimpiadi, jet militari offerti in regalo a un trentesimo del loro valore… con i punti della Pepsi. Cosa può causare tutto ciò, scatenando disastri o andandoci quantomeno molto vicino? Semplice: degli errori matematici.
Anche se per natura abbiamo una certa comprensione della matematica basilare, ci riscopriamo parecchio stupidi quando si tratta di quella formale, sviluppata a partire dalle nostre conoscenze intuitive. Non veniamo al mondo con la capacità innata di gestire frazioni, numeri negativi o logaritmi; a scuola impariamo - lentamente e a fatica - a superare questi limiti, ma appena smettiamo di usare certi concetti il nostro cervello torna alle «impostazioni di fabbrica». Il problema è che il mondo moderno è interamente costruito sulla matematica: ingegneria, informatica, finanza, medicina… le nostre esistenze scorrono immerse nei numeri e nelle loro applicazioni. Di solito non ce ne accorgiamo, perché tutto fila alla perfezione e la matematica fa egregiamente il suo lavoro dietro le quinte della nostra quotidianità. Talvolta, però, un intoppo più o meno grave ci ricorda che le nostre vite possono cambiare in modo drastico per un banale errore di calcolo.
Spaziando con sagacia e ironia dagli antichi egizi a Bill Gates, dalla birra agli iPhone, Matt Parker ci mostra come sviste in apparenza innocue possono avere effetti bizzarri o catastrofici. Tra sfide logiche, battute sul codice binario e storie dall'indiscutibile fascino, l'autore ci insegna a imparare dalle insidie della matematica, per ricordarci sempre di che potente alleato essa sia.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2020
ISBN
9788858699850
1

Perdere la cognizione del tempo

Il 14 settembre 2004, circa ottocento aerei stavano volando nei cieli della California meridionale quando un errore matematico mise a rischio le vite delle decine di migliaia di persone a bordo. Senza alcun preavviso, il centro di controllo del traffico aereo di Los Angeles perse il contatto radio con tutti gli aerei, scatenando il panico.
Le radio rimasero mute per circa tre ore, durante le quali i controllori usarono i loro cellulari per contattare gli altri centri di controllo e chiedere agli aerei di risintonizzare le comunicazioni. Non ci furono incidenti ma, nel caos, dieci aeroplani si avvicinarono tra di loro più di quanto fosse consentito dal regolamento: 9,25 chilometri in orizzontale o 600 metri in verticale. In due casi, i velivoli passarono a meno di 3 chilometri l’uno dall’altro. A terra, quattrocento voli subirono un ritardo e altri seicento furono cancellati. Il tutto per colpa di un errore matematico.
I rapporti ufficiali non dicono molto sulla natura del problema, ma sappiamo che fu dovuto a un errore nel conteggio del tempo da parte dei computer del centro di controllo. A quanto pare, il sistema che vigila sul traffico aereo teneva il conto del tempo partendo da 4.294.967.295 e procedendo all’indietro di una unità ogni millisecondo; ciò significa che, per arrivare a 0 occorrevano 49 giorni, 17 ore, 2 minuti e 47,296 secondi.
In genere, la macchina veniva fatta ripartire prima che arrivasse a 0, e il conto alla rovescia ricominciava da 4.294.967.295. Per quanto ne so, alcune persone erano consapevoli dei possibili rischi, motivo per cui il sistema doveva essere riavviato almeno una volta ogni trenta giorni. In questo modo, però, ci si limitava ad aggirare il problema senza fare nulla per correggere l’errore matematico alla sua base: ovvero che nessuno si era preso la briga di controllare quanti millisecondi di autonomia avrebbe avuto il funzionamento del sistema. Per una dimenticanza, nel 2004 le macchine rimasero accese per quasi cinquanta giorni di fila, il loro conteggio arrivò a zero e si spensero: in sostanza, ottocento aerei che volavano sopra una delle più grandi città del mondo vennero messi a rischio perché qualcuno aveva scelto un numero che non era abbastanza grande.
Si diede subito la colpa a un aggiornamento dei sistemi informatici finalizzato a far girare una variazione di Windows. Alcune delle prime versioni di Windows, in particolare Windows 95, presentavano questo stesso problema: ogni volta che si avviava il sistema operativo, Windows iniziava a contare i millisecondi per dare il «tempo di sistema» agli altri programmi. Quando il tempo di sistema di Windows raggiungeva i 4.294.967.295 millisecondi, ripartiva da zero; alcuni programmi – come i driver, che consentono al sistema operativo di interagire con i dispositivi esterni – non sapevano come comportarsi di fronte a un tempo che andava all’improvviso all’indietro. Questi driver devono tenere il conto del tempo per assicurarsi che i dispositivi rispondano normalmente e non restino bloccati troppo a lungo; quando Windows diceva loro che il tempo, all’improvviso, aveva iniziato ad andare all’indietro, si bloccavano mandando in tilt l’intero sistema.
Non è chiaro se la colpa dell’incidente del 2004 sia stata direttamente di Windows oppure di una nuova sequenza del codice informatico inserita nel sistema centrale di controllo, in ogni caso sappiamo che il numero in questione era 4.294.967.295. Un numero non abbastanza grande per i computer domestici degli anni Novanta né tantomeno per il controllo del traffico aereo nei primi anni Duemila. Così come non lo era per il Boeing 787 Dreamliner nel 2015.
Il problema del Boeing 787 stava nel sistema di controllo dei generatori della corrente elettrica; a quanto pare, questi tenevano il conteggio del tempo usando un contatore che aumentava di una unità ogni 10 millisecondi (ossia, cento volte al secondo) e che aveva il proprio limite superiore a 2.147.483.647. Un numero che, cosa alquanto sospetta, è molto vicino alla metà di 4.294.967.295. Ciò significa che il Boeing 787 avrebbe potuto perdere l’energia elettrica se fosse rimasto acceso per 248 giorni, 13 ore, 13 minuti e 56,47 secondi consecutivi; un intervallo di tempo abbastanza lungo da permettere alla maggior parte degli aerei di essere riavviati prima dell’emergere di un problema, ma non così lungo da evitare che un velivolo potesse di fatto ritrovarsi privo di corrente. La Federal Aviation Administration descrisse la situazione in questi termini:
Il software integrato nelle unità di controllo del generatore (GCU) che si occupa del conteggio del tempo raggiungerà il proprio limite dopo 248 giorni di funzionamento ininterrotto, e a quel punto farà entrare la GCU in modalità di sicurezza. Ora, se le quattro GCU principali associate ai generatori montati sui motori sono state avviate nello stesso momento, dopo 248 giorni di funzionamento continuo entreranno tutte insieme in modalità di sicurezza, così che l’aereo rimarrà totalmente privo di corrente elettrica alternata, in qualunque fase di volo si trovi.
Immagino che l’espressione «in qualunque fase di volo si trovi» sia il gergo ufficiale della FAA per dire «Potrebbe succedere anche nel bel mezzo di una trasvolata». La loro politica ufficiale sulla navigabilità era quella di richiedere che venissero eseguiti «ripetuti interventi di manutenzione per la disattivazione dell’energia elettrica»; in altre parole, chiunque gestisse un Boeing 787 doveva ricordarsi di spegnerlo e riaccenderlo. Cosa che, del resto, è la soluzione classica in informatica. In seguito, la Boeing ha aggiornato il proprio programma per correggere questo problema, e oggi per preparare l’aereo al decollo non è più necessario eseguire il riavvio dei sistemi.

Quando 4,3 miliardi di millisecondi non sono sufficienti

Perché, allora, la Microsoft, il centro di controllo del traffico aereo di Los Angeles e la Boeing hanno deciso, al momento di tenere il conteggio del tempo, di limitarsi al numero apparentemente arbitrario di circa 4,3 miliardi (o alla sua metà)? Sembra essere un problema decisamente diffuso. Un forte indizio riguardo alle ragioni emerge se proviamo a tradurre 4.294.967.295 in formato binario: scritto negli 1 e negli 0 del codice dei computer, diventa 11111111111111111111111111111111, ossia una sequenza di trentadue 1 consecutivi.
La maggior parte delle persone non ha bisogno di vedere da vicino i circuiti elettronici o il codice binario su cui si basano i computer: quello di cui devono preoccuparsi sono i programmi e le app che girano sui loro dispositivi o, al massimo, il sistema operativo (come Windows o iOS) che li fa girare; e sia i programmi sia il sistema operativo usano le normali cifre del sistema decimale, da 0 a 9, quelle che tutti conosciamo e amiamo.
Alla base di ogni cosa c’è però il codice binario. Quando usiamo Windows su un computer o iOS su un telefono, ci limitiamo a interagire con l’interfaccia utente di tipo grafico, o GUI («graphical user interface»); ma è al di sotto della GUI che le cose si fanno davvero complesse, con strati di codice informatico che convertono i click del mouse e il tocco dello schermo in quella serie di 1 e 0 che costituisce il linguaggio nativo dei computer.
Se su un foglio di carta avessimo spazio per inserire soltanto cinque cifre, il numero più grande che potremmo scrivere – riempiendo ogni casella con la cifra più alta possibile – sarebbe 99.999. Ora, ad accomunare la Microsoft, il centro di controllo del traffico aereo e la compagnia Boeing era il fatto che si trattava, in tutti e tre i casi, di sistemi di numeri binari a 32 bit. Ciò significa che per default il numero più grande che potevano scrivere era una sequenza di trentadue 1 in codice binario, pari a 4.294.967.295 nel sistema numerico decimale.
Le cose andavano peggio in quei sistemi che volevano riservare l’uso di uno dei trentadue posti per qualcos’altro. Tornando al foglio con cinque spazi, se volessimo usarlo per scrivere un numero negativo dovremmo lasciare la prima casella libera per un segno «+» o «–», di conseguenza potremmo scrivere soltanto i numeri interi compresi tra –9999 e +9999. A quanto pare il sistema della Boeing faceva uso di questo genere di «numeri segnati»; pertanto, tolto il primo posto,1 restava spazio per un massimo di trentun 1, che in base 10 corrispondono a 2.147.483.647. Contando i centesimi di secondo anziché i millisecondi avevano guadagnato un po’ di tempo, ma non abbastanza.
Per fortuna, questo problema oggi può essere considerato irrilevante. I moderni computer usano in genere un sistema a 64 bit, che consente di default di usare numeri molto più grandi. Il massimo valore possibile resta comunque finito e quindi in linea di principio ogni sistema informatico dovrà essere prima o poi riavviato. Tuttavia, se un sistema a 64 bit conta in millisecondi, dovranno passare 584,9 milioni di anni prima di arrivare al limite, cosa che ci permette di stare un po’ più tranquilli: in fin dei conti, saremo costretti a riavviare il computer solo due volte ogni miliardo di anni.

Calendari

Uno dei vantaggi dei metodi analogici che tengono il conto del tempo di cui ci servivamo prima dell’invenzione dei computer era che, perlomeno, lì lo spazio non finiva mai: le lancette di un orologio possono continuare a girare e ai calendari possiamo sempre aggiungere nuove pagine con il passare degli anni. Lasciate perdere i millisecondi: pensando soltanto ai cari, vecchi giorni e anni non rischieremo mai di farci rovinare la giornata da qualche errore matematico.
O questo era ciò che pensava la squadra di tiro a segno russa quando arrivò a Londra per le Olimpiadi del 1908 qualche giorno prima dell’inizio delle gare internazionali di tiro al bersaglio, previsto per il 10 luglio. Se però guardate i risultati delle gare di tiro nelle Olimpiadi di quell’anno, vedrete tutti gli altri Paesi tranne la Russia; perché i russi usavano un calendario diverso e quello che per loro era il 10 luglio per il Regno Unito (e per la maggior parte del resto del mondo) era il 23.
Sembra strano che una cosa semplice come un calendario possa portare a errori di questo genere, con una squadra di atleti di livello internazionale che si presenta ai giochi olimpici con quasi due settimane di ritardo. Tuttavia, i calendari sono molto più complessi di quanto possiamo pensare: dividere l’anno in un numero prevedibile di giorni non è affatto facile ed esistono diversi modi di risolvere gli stessi problemi.
L’universo ci ha dato solo due unità di tempo, l’anno e il giorno; tutto il resto è una creazione introdotta dall’essere umano per semplificare la vita. Quando la materia del disco protoplanetario si conglomerò e si separò per formare i pianeti come li conosciamo, la Terra fu fatta con una quantità di momento angolare tale da orbitare intorno al Sole e al contempo ruotare su se stessa; la durata dell’orbita in cui è venuta ad assestarsi ci ha dato la lunghezza dell’anno, mentre dalla velocità della rotazione terrestre abbiamo preso la lunghezza del giorno.
Il problema, però, è che questi due valori non sono esattamente uno multiplo dell’altro. E perché mai dovrebbero esserlo, del resto? Tutto dipende da come si sono disposti, miliardi di anni fa, gli ammassi di roccia di quel disco protoplanetario. Oggi l’orbita annuale della Terra attorno al Sole si compie in 365 giorni, 6 ore, 9 minuti e 10 secondi; per semplicità, possiamo arrotondare questo valore a 365 giorni e un quarto.
Ciò significa che, se festeggiate la mezzanotte di Capodanno dopo un anno di 365 giorni, alla Terra mancherà ancora un quarto di giorno di movimento prima di arrivare al punto esatto in cui si trovava alla mezzanotte del Capodanno precedente. Dato che la Terra orbita attorno al Sole a una velocità di circa 30 chilometri al secondo, alla mezzanotte di Capodanno vi troverete a più di 650.000 chilometri di distanza da dove eravate l’anno scorso; pertanto, se il vostro proposito per il nuovo anno era quello di essere puntuali con le cose, be’, siete già partiti con il piede sbagliato.
Questo piccolo inconveniente si trasforma in un grosso problema perché dal periodo orbitale della Terra dipendono le stagioni. Nell’emisfero boreale, l’estate comincia ogni anno più o meno allo stesso punto dell’orbita terrestre, perché è lì che l’inclinazione della Terra è allineata con la posizione del Sole. Al termine di ciascun anno della durata di 365 giorni, tra l’anno civile – quello del calendario – e le stagioni si determina uno scostamento di un quarto di giorno; ciò significa che ogni quattro anni l’estate sarebbe iniziata un giorno dopo e che – se consideriamo la durata di una civiltà – in meno di quattro secoli le stagioni sarebbero risultate spostate di tre mesi e dopo ottocento anni l’estate e l’inverno si sarebbero scambiati completamente di posto.
Per risolvere questo problema, era necessario apportare delle correzioni al calendario così che avesse il medesimo numero di giorni del periodo orbitale. In qualche modo, cioè, dovevamo rinunciare ad avere lo stesso numero di giorni all’anno, evitando però di ritrovarci con una frazione di giorno: l’idea di dover ricominciare la giornata a un’ora diversa dalla mezzanotte sarebbe stata sconvolgente. In altre parole, dovevamo trovare un modo per collegare l’anno civile all’orbita terrestre senza però spezzare la corrispondenza tra il giorno e il periodo di rotazione della Terra.
La soluzione adottata dalla maggior parte delle civiltà è stata quella di variare il numero dei giorni presenti in un dato anno in modo tale che, in media, per ogni anno ci sia un numero frazionario di giorni. Lo scopo può però essere raggiunto in differenti modi, ragion per cui ancora oggi esistono più calendari tra loro in competizione (che partono tutti da punti diversi della storia). Se vi capita di avere tra le mani il cellulare di un amico, entrate nelle impostazioni e cambiate il calendario in quello buddhista: si ritroverà a vivere più o meno nel 2560. Provate poi a convincerlo che si è appena risvegliato da un coma.
Il calendario oggi più diffuso discende da quello della Repubblica romana. Per i Romani in un anno c’erano soltanto 355 giorni, parecchi di meno del necessario; di conseguenza, veniva aggiunto un intero mese tra febbraio e marzo che dava all’anno ventidue o ventitré giorni extra. In teoria, questo aggiustamento poteva essere usato per far sì che il calendario rimanesse in linea con l’anno solare, in pratica erano i politici a decidere quando inserire il mese aggiuntivo; e dato che tale decisione significava allungare il loro anno di governo o abbreviare quello di un loro avversario, la motivazione non era sempre quella di tenere allineato il calendario.
È raro che da un comitato politico possa arrivare una buona soluzione per un problema matematico; e infatti gli anni precedenti al 46 a.C. diventarono noti come gli «anni della confusione», dal momento che i mesi aggiuntivi andavano e venivano senza che questo avesse molto a che fare con le reali necessità. La mancanza di preavvisi significava inoltre che chi si allontanava da Roma non avesse idea di quale fosse la data al momento del suo ritorno.
Nel 46 a.C., Giulio Cesare decise di sistemare le cose introducendo un nuovo calendario prevedibile. Ciascun anno avrebbe avuto 365 giorni – il numero intero più vicino al valore reale – e ogni quattro anni sarebbe stato inserito un giorno in più per compensare il quarto di giorno perso ciascun anno; fu così che nacque l’anno bisestile.
Per riallinearsi, fu necessario inserire nel 46 a.C. 445 giorni, sancendo un probabile record mondiale: oltre al mese extra tra febbraio e marzo, ne vennero aggiunti altri due tra novembre e dicembre. Poi, dal 45 a.C., gli anni bisestili vennero inseriti ogni quattro anni per tenere sincronizzato il calendario.
O quasi. All’inizio, a causa di un errore di trascrizione, l’ultimo anno in un periodo quadriennale veniva contato due volte come il primo anno del periodo successivo, così che di fatto gli anni bisestili venivano inseriti ogni tre anni. Questo errore fu però individuato e corretto e, a partire dal 3 d.C., la situazione si era nor...

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