Ecce homo
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Ecce homo

Friedrich W. Nietzsche, Sossio Giametta

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Ecce homo

Friedrich W. Nietzsche, Sossio Giametta

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Stanco di non essere riconosciuto e di essere mal interpretato, stanco di sussurrare a orecchie che non volevano sentire, Nietzsche, sul filo dell'estrema sanità mentale, "monta sulle nuvole per parlare con tuoni e fulmini": si mette in piazza, si autointerpreta, si teatralizza. Con il suo carattere drammatico, i suoi fulgori poetici e le lampeggianti profondità del suo pensiero Ecce homo rappresenta il libro conclusivo di Nietzsche. È l'interpretazione ultima, autentica, unica e precisa di un autore che, nella sua totalità, non sarà più capito neanche dai suoi più grandi interpreti. Di fatto, Ecce homo è ed è stato sempre uno dei testi più dibattuti di Nietzsche, e di esso sono state proposte le definizioni più discordanti: proclama cosmico? documento psicopatologico? autoritratto? pamphlet antitedesco?
A completare la bibliografia delle opere di Nietzsche nel catalogo BUR entra quindi un unicum di tutta la produzione del filosofo, l'opera con cui deve necessariamente confrontarsi chiunque intenda avvicinarsi a Nietzsche.

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Information

Publisher
BUR
Year
2020
ISBN
9788831800044

PERCHÉ SONO COSÌ ACCORTO

1

Perché ne so un po’ di più? Perché sono in genere così accorto? Non ho mai pensato su problemi che non lo sono – non mi sono sprecato. Per esempio non conosco per esperienza vere e proprie difficoltà religiose. Mi sfugge totalmente in che senso sarei “peccatore”. Mi manca parimenti un criterio attendibile per stabilire che cosa sia il rimorso. A sentire quello che se ne dice, il rimorso non mi sembra niente di rispettabile… Non vorrei piantare in asso un’azione dopo averla compiuta, preferirei tenere, in linea di massima, il suo cattivo esito, le sue conseguenze, al di fuori della questione del suo valore.1 Quando una cosa va male è fin troppo facile perdere la giusta visione di quel che si è fatto. Il rimorso mi sembra una specie di “malocchio”. Tenere in onore per sé qualcosa che fallisce, e tanto più perché fallisce – è piuttosto questo che fa parte della mia morale. “Dio”, “immortalità dell’anima”, “redenzione”, “aldilà”, sono tutti concetti a cui non ho dedicato né attenzione né tempo, neanche da bambino, forse perché non sono mai stato abbastanza bambino per ciò? Non conosco assolutamente l’ateismo come risultato e ancor meno come avvenimento: in me esso s’intende istintivamente. Io sono troppo curioso, troppo problematico, troppo protervo, per accontentarmi di una risposta grossolana.2 Dio è una risposta grossolana, una indelicatezza verso noi pensatori – in fondo addirittura un semplice, grossolano divieto che ci viene fatto: non pensate!… Ben altrimenti mi interessa un problema da cui dipende, più che da una curiosità di teologi, la “salvezza dell’umanità”: il problema dell’alimentazione. Lo si può per comodità formulare così: “Come ti devi alimentare precisamente tu, per raggiungere il tuo massimo di forza, di virtù stile Rinascimento, di virtù libera da moralina?”.3 Le mie esperienze sono al riguardo le peggiori possibili. Sono meravigliato di aver sentito questa domanda così tardi, di avere appreso così tardi da queste esperienze la “ragione”. Solo la perfetta nullità dell’attuale cultura tedesca – il suo “idealismo” – mi fa capire in qualche modo perché proprio in questa cosa io sia rimasto arretrato fino alla santità. Questa “cultura” che insegna fin dapprincipio a perdere di vista le realtà, per correre dietro a scopi assolutamente problematici e cosiddetti “ideali”, per esempio alla “cultura classica” – come se non fosse fin dapprincipio impresa vana coniugare in un solo concetto “classico” e “tedesco”! Anzi ciò ha un effetto esilarante – si provi a immaginare un cittadino di Lipsia corredato di “cultura classica”! In realtà fino alla piena maturità io ho mangiato sempre e solo male, – in termini morali, in modo “impersonale”, “disinteressato”, “altruistico”, per la salvezza dei cuochi e altri compagni in Cristo. Quando per esempio presi a studiare Schopenhauer (1865), mi misi in testa di negare con tutta serietà la mia “volontà di vivere” per mezzo della cucina di Lipsia. Allo scopo di un’alimentazione insufficiente rovinarsi anche lo stomaco – mi sembrò che la suddetta cucina risolvesse questo problema a meraviglia (si dice che nel 1866 ci sia stata una svolta).4 Ma la cucina tedesca in genere – cosa non ha sulla coscienza! La minestra prima del pranzo (detta “alla tedesca” già nei libri di cucina veneziani del XVI secolo); le carni scotte, le verdure fatte grasse e farinose, la degenerazione del dolce in fermacarte! Se a ciò si aggiunge per soprammercato il bisogno addirittura bestiale dei Tedeschi anziani, e certamente non solo anziani, di mettersi a bere dopo aver mangiato, si capisce anche la provenienza dello spirito tedesco – dall’intestino disturbato… Lo spirito tedesco è un’indigestione, non assimila niente. Ma anche la dieta inglese, che a paragone di quella tedesca e finanche di quella francese è una specie di “ritorno alla natura”, cioè al cannibalismo, va in tutto e per tutto contro il mio istinto; mi sembra che dia allo spirito piedi pesanti,5 i piedi delle donne inglesi… La migliore cucina è quella del Piemonte. Gli alcolici mi fanno male; un bicchiere di vino o di birra al giorno basta perfettamente a fare della vita una “valle di lacrime”, – a Monaco vivono i miei antipodi. È vero che questo l’ho capito un po’ tardi, ma in realtà l’ho vissuto fin dall’infanzia. Da ragazzo credevo che bere vino fosse, come fumare tabacco, all’inizio solo una vanitas di giovanotti, ma in seguito una cattiva abitudine. Forse anche il vino di Naumburg6 è in parte responsabile per questo aspro giudizio. Per credere che il vino rallegri, dovrei essere cristiano, voglio dire credere proprio a quella che per me è un’assurdità. Abbastanza stranamente, mentre piccole dosi molto diluite di alcol possono provocarmi un estremo malumore, divento quasi un marinaio quando si tratta di dosi forti. Già da ragazzo ebbi a dar prova in ciò del mio valore. Scrivere in una notte una lunga dissertazione in latino, e poi ancora ricopiarla, con l’ambizione nella penna di imitare in rigore e stringatezza il mio modello Sallustio,7 innaffiando il mio latino con del grog di massimo calibro, ciò non era affatto in contrasto, quando frequentavo la veneranda scuola di Pforta,8 con la mia fisiologia e forse neanche con quella di Sallustio – e però lo era senz’altro con la veneranda scuola di Pforta… In seguito, verso la metà della mia vita, mi decisi certo con sempre maggior rigore contro qualunque bevanda “spiritosa”: io, avversario per esperienza del vegetarianesimo, in tutto come Richard Wagner, che mi ha convertito, non posso consigliare abbastanza seriamente a tutte le nature più spirituali la più completa astensione da tutti gli alcolici. Basta l’acqua… Prediligo i luoghi in cui si ha dappertutto occasione di attingere da sorgenti vive (Nizza, Torino, Sils); un bicchierino mi segue come un cane. In vino veritas: sembra che anche in ciò io sia di nuovo in disaccordo con tutti sul concetto di “verità – per me lo spirito si libra sull’acqua9 Ancora un paio di accenni alla mia morale. Un pasto copioso è più facile da digerire di uno troppo piccolo. Il primo presupposto di una buona digestione è che vi partecipi tutto lo stomaco. Bisogna conoscere la capacità del proprio stomaco. Per la stessa ragione sono sconsigliabili quei pasti che si prolungano, e che io chiamo feste sacrificali interrotte, i pasti alla table d’ôte. Niente spuntini fra i pasti, niente caffè: il caffè incupisce. Il va bene solo la mattina. Poco ma energico. Il tè fa molto male e ammorba tutta la giornata, se è troppo debole anche solo di un grado. In ciò ognuno ha la sua misura, spesso tra i confini più stretti e delicati. In un clima molto eccitante, il tè come inizio è sconsigliabile. Bisogna cominciare un’ora prima con una tazza di cacao spesso e sgrassato. Star seduti il meno possibile; non dar credito a nessun pensiero che non è nato all’aperto e dal libero movimento, – in cui non celebrino una festa anche i muscoli. Tutti i pregiudizi vengono dalle viscere. Il sedere di pietra – l’ho già detto una volta – è il vero peccato contro lo spirito santo…10

2

Col problema dell’alimentazione è strettamente intrecciato il problema del luogo e del clima. Nessuno è libero di vivere dappertutto; e chi ha grandi compiti da assolvere, che fanno appello a tutta la sua energia, ha qui addirittura una scelta ridottissima. L’influsso del clima sul metabolismo, il suo rallentamento e la sua accelerazione, giungono al punto che uno sbaglio in fatto di luogo e di clima può non solo estraniare qualcuno al suo compito, ma addirittura defraudarnelo: egli non arriverà mai a scorgerlo. In lui il vigor animale non diventerà mai abbastanza grande perché egli possa raggiungere quella libertà traboccante fin nell’estrema spiritualità in cui riconosce: questo posso farlo solo io… Una pigrizia dell’intestino per quanto piccola, divenuta cattiva abitudine, è più che sufficiente a fare di un genio qualcosa di mediocre, qualcosa di “tedesco”; il clima tedesco basta da solo a scoraggiare intestini forti e anche fatti per l’eroismo. Il ritmo del metabolismo sta in un preciso rapporto colla mobilità o paralisi dei piedi dello spirito; lo “spirito” stesso, in effetti, è solo una forma di questo metabolismo. Si passino in rassegna i luoghi dove ci sono e ci sono stati uomini geniali, dove l’arguzia, la raffinatezza, la malizia facevano parte della felicità, dove il genio diventava quasi necessariamente di casa: essi hanno tutti un’aria particolarmente asciutta. Parigi, la Provenza, Firenze, Gerusalemme, Atene – questi nomi stanno a dimostrare qualcosa: il genio è condizionato dall’aria asciutta, dal cielo puro, – cioè da un metabolismo rapido, dalla possibilità di addurre a sé sempre di nuovo grandi, perfino enormi quantità di forza. Ho davanti agli occhi il caso di uno spirito significativo e di libere disposizioni che, per la semplice mancanza di un’istintiva finezza in fatto di clima, è diventato angusto, rattrappito, specialista e musone. E io stesso sarei potuto diventare alla fine un caso del genere, qualora non fossi stato costretto dalla malattia a ragionare, a riflettere sulla ragione nella realtà. Adesso che, dopo un lungo esercizio, leggo in me, come su uno strumento quanto mai sensibile e attendibile, gli effetti del clima e della meteorologia, e già in un breve viaggio, per esempio da Torino a Milano, posso calcolare fisiologicamente in me le variazioni di grado dell’umidità atmosferica, penso con terrore al fatto sinistro che, fino a questi ultimi dieci anni, anni di pericolo mortale, la mia vita si è svolta sempre e solo in luoghi sbagliati e per me addirittura proibiti. Naumburg, Pforta, la Turingia in genere, Lipsia, Basilea – altrettanti luoghi esiziali per la mia fisiologia. Se in genere di tutta la mia fanciullezza e gioventù non ho ricordi lieti, sarebbe una follia schiccherare per ciò delle cause cosiddette “morali”, – per esempio l’indiscutibile mancanza di una compagnia adeguata, giacché questa mancanza c’è oggi come c’è stata sempre, senza impedirmi di essere sereno e coraggioso. È invece l’ignoranza in physiologicis – il maledetto “idealismo” – la vera fatalità della mia vita, ciò che in essa è superfluo e stupido, qualcosa da cui non è venuto niente di buono e per cui non c’è nessuna compensazione, nessuna contropartita. In base alle conseguenze di questo “idealismo”, io mi spiego tutti gli sbagli, tutte le grandi aberrazioni dell’istinto e tutte le “modestie” così estranee al compito della mia vita, per esempio il fatto che io sia divenuto filologo – perché almeno non medico o qualche altra cosa che mi avesse aperto gli occhi? Nel mio periodo basileese tutta la mia dieta spirituale, compresa la distribuzione della giornata, era uno spreco assolutamente insensato di forze straordinarie, senza un afflusso di forze che in qualche modo coprisse il consumo,11 e senza che neanche io riflettessi su consumo e afflusso. Mi mancava ogni più fine egoità, ogni difesa di un istinto imperativo, era un mettersi-alla-pari con tutti, un “disinteresse”, un oblio della propria distanza, – qualcosa che non mi perdonerò mai. Quando ero quasi allo stremo, per il fatto che ero allo stremo, cominciai a riflettere su questa fondamentale irragionevolezza della mia vita – l’“idealismo”. Soltanto la malattia mi riportò alla ragione.

3

La scelta dell’alimentazione; la scelta del clima e del luogo; – la terza cosa in cui a nessun costo ci si può permettere di sbagliare è la scelta del proprio modo di ricrearsi. Anche qui, a seconda del grado in cui uno spirito è sui generis, i limiti di ciò che gli è consentito, vale a dire utile, si restringono sempre più. Nel mio caso t...

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