Omaggio alla Catalogna
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Omaggio alla Catalogna

George Orwell

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Omaggio alla Catalogna

George Orwell

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Nel dicembre del 1936 Orwell giunge a Barcellona per difendere, come molti altri combattenti europei, la rivoluzione socialista. Ma quando ritorna in città dopo sei mesi al fronte aragonese con le milizie anarchiche del POUM, il Partito operaio di unificazione marxista, scopre che gli ideali della rivoluzione sono stati traditi e annacquati: gli scontri di strada tra anarchici e comunisti sono solo il primo passo verso un futuro sempre più cupo. Congedato a causa di una ferita da pallottola e rientrato a Barcellona, sarà proprio l'etichetta di "anarchico" a renderlo oggetto della persecuzione stalinista, a cui sfuggirà mettendosi in salvo in Francia con la moglie. Scritto pochi mesi dopo i fatti narrati, Omaggio alla Catalogna - qui presentato in una nuova traduzione - è un punto di svolta nella vita e nel lavoro di Orwell, e il primo tentativo di rispondere alla domanda su come difendersi dai totalitarismi, che troverà la sua massima espressione in 1984 e nella Fattoria degli animali. In queste pagine di diario cariche di vitalità e speranza, e permeate dall'urgenza di riscattare i suoi anni al servizio dell'imperialismo britannico in Birmania, troviamo un manifesto più che mai attuale sui rischi di ogni uso liberticida dell'informazione.

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Information

Publisher
BUR
Year
2021
ISBN
9788831805728

OMAGGIO ALLA CATALOGNA

Capitolo 1

Il giorno prima di arruolarmi nella milizia, alla caserma Lenin di Barcellona ho visto un combattente italiano in piedi davanti al tavolo degli ufficiali.1
Era un ragazzone sui venticinque o ventisei anni, biondo rossastro e con due spalle così. Si era calcato con ferocia sopra un occhio la visiera del berretto di cuoio. Stava di profilo rispetto a me, mento sul petto, perplesso e concentrato sopra una cartina che un ufficiale aveva spiegato sul tavolo. La sua faccia, chissà perché, mi ha commosso nel profondo. Sembrava quella di uno capace di ammazzare o di rovinarsi la vita per un amico – la tipica faccia anarchica, anche se poi magari invece era un comunista. Una faccia di un’innocenza feroce; e colma del penoso rispetto dell’ignorante nei confronti di chi immagina gli sia superiore. Chiaro che della cartina non capiva un’acca; chiaro che decifrare una cartina era un’impresa intellettuale mostruosa, ai suoi occhi. Davvero non me lo spiego, ma di rado ho incontrato qualcuno – un uomo, intendo – che mi sia piaciuto tanto d’immediato. Nella discussione intorno al tavolo, a un certo punto qualcuno ha commentato sul fatto che ero straniero. L’italiano ha alzato la testa e ha chiesto subito:
«Italiano
«No, inglés. Y tú
«Italiano
Prima di uscire, attraversò la stanza e mi strinse forte la mano. Buffo quanto ci si possa a sentire vicini a uno sconosciuto! Come se nell’animo fossimo riusciti a superare il baratro delle lingue e delle culture e a toccarci nell’intimo. Speravo di avergli fatto la stessa ottima impressione. Ma sapevo anche di non doverlo vedere più, se volevo conservarla; inutile dirlo, non ci siamo mai rivisti. In Spagna era un continuo di incontri del genere.
Se parlo del combattente italiano è perché mi è rimasto molto impresso. Per me, con quell’uniforme stracciata e quella faccia penosamente feroce, rappresenta la tipica, specifica atmosfera del periodo. A lui si legano tutti i miei ricordi di guerra: Barcellona piena di bandiere rosse, i treni spettrali zeppi di soldati stracciati che arrancavano verso il fronte, le grigie cittadine colpite dai combattimenti più su lungo i binari, le trincee fangose e gelide in mezzo alle montagne.
Era dicembre del 1936, meno di sette mesi fa, eppure adesso, mentre scrivo, ha l’aria di un periodo lontanissimo. Gli eventi successivi lo hanno cancellato in modo molto più completo che non il 1935, o il 1905 per quel che vale. Ero andato in Spagna con la vaga idea di scrivere reportage per i giornali, ma mi sono arruolato volontario nelle milizie repubblicane quasi d’immediato, sarebbe stato inconcepibile altrimenti, allora e con quella atmosfera. Gli anarchici in pratica governavano la Catalogna, la rivoluzione era ancora nel pieno. Chi c’era fin dall’inizio forse già a dicembre e gennaio sentiva scemare la spinta rivoluzionaria; ma arrivando dritto dritto dall’Inghilterra Barcellona ti travolgeva con il suo aspetto sbalorditivo. Per la prima volta in vita mia mi trovavo in una città con gli operai al comando.
Qualsiasi palazzo grande o piccolo era virtualmente in mano loro, addobbato di bandiere rosse o di quelle rossonere degli anarchici; su ogni muro era scarabocchiata una falce e martello con accanto le sigle dei partiti rivoluzionari; quasi ogni chiesa era stata sventrata e le sue immagini bruciate. Qua e là, bande di operai le demolivano in modo sistematico. Davanti a ogni bar e ogni negozio vedevi una scritta che ne indicava la collettivizzazione; perfino i lustrascarpe erano stati collettivizzati, e avevano le cassette dipinte di rossonero. I camerieri e i commessi ti guardavano in faccia trattandoti da pari a pari. Forme di trattamento servili o anche solo di cortesia erano al bando, in quel periodo. Nessuno diceva «señor», «don» e nemmeno «usted»; ti chiamavano tutti «compagno», ti davano del tu e ti salutavano dicendo «salud!» anziché «buenos días». Una delle mie primissime esperienze è stata beccarmi un predicozzo dal direttore di un albergo perché avevo provato a dare la mancia all’omino dell’ascensore. Auto private non ce n’erano essendo state requisite dall’esercito, tram, tassì e gran parte degli altri mezzi di trasporto erano dipinti in rossonero. I muri erano tappezzati di manifesti rivoluzionari di un rossoblu fiammante che rendeva le poche pubblicità sopravvissute simili a croste di fango. Lungo le Ramblas, il gran viale centrale della città dove fiumi di gente fanno su e giù di continuo, gli altoparlanti sparavano tutto il giorno canzoni rivoluzionarie, fino a notte fonda. Ma la cosa più strana era l’aspetto delle persone. A prima vista Barcellona era una città dove le classi abbienti ormai non esistevano. A parte una manciata di donne e di stranieri, nessuno era “vestito bene”. Praticamente tutti indossavano abiti da operaio, oppure avevano direttamente la tuta blu, o ancora qualche variante dell’uniforme miliziana. Era stranissimo, e commovente. Un sacco di roba non la capivo, altra nemmeno mi piaceva, ma mi è sembrato fin da subito uno stato di cose per cui valeva la pena combattere. Credevo anche a tutto quanto vedevo, mi sembrava davvero di essere arrivato in uno Stato operaio da cui la borghesia era scappata in massa, o era stata uccisa, oppure si era schierata di propria volontà con gli operai; non mi rendevo conto che tantissimi grassi borghesi mantenevano un profilo basso mascherandosi da proletari, almeno per il momento.
Al contempo, aleggiava qualcosa dell’atmosfera malsana della guerra. La città aveva un aspetto povero e sporco, strade e palazzi erano in pessime condizioni, di notte c’era poca luce per paura delle incursioni aeree e i negozi in genere erano miseri, mezzi vuoti. La carne scarseggiava e il latte era pressoché introvabile, mancavano carbone, zucchero e benzina, la scarsità di pane poi era spaventosa. Già allora le code per il pane spesso erano lunghe centinaia di metri. Eppure, da quanto si poteva giudicare, la gente era contenta, speranzosa. Nessuno era disoccupato, il costo della vita per il momento restava bassissimo; si vedevano poche persone palesemente indigenti e nessun mendicante a parte gli zingari. Ma soprattutto si sentiva la fiducia nella rivoluzione, nel futuro, si aveva la sensazione di essere approdati in un’epoca di uguaglianza e libertà. Gli umani provavano a comportarsi umanamente, anziché da ingranaggi della macchina capitalista. Dai barbieri si trovavano volantini anarchici (la maggioranza dei barbieri è anarchica) in cui si spiegava con grande serietà come la loro categoria avesse smesso di essere schiava. Per strada c’erano manifesti a colori in cui si incitavano le prostitute a non esercitare la professione. A noi cinici, sardonici rappresentanti della civiltà di lingua inglese, il modo in cui questi idealisti ispanici prendevano alla lettera i triti slogan rivoluzionari aveva un che di imbarazzante. In quei giorni ballate rivoluzionarie di un’ingenuità pazzesca, tutte fraternità proletaria e perfidia mussoliniana, si vendevano per pochi centesimi di peseta a ogni angolo di strada. Ho visto spesso un miliziano semianalfabeta comprarne una, faticare a compitarne il testo e poi, una volta afferratone l’andamento, cantarla su un’aria adeguata.
In quei giorni mi trovavo alla caserma Lenin, teoricamente per essere addestrato al combattimento. Quando mi ero arruolato mi avevano detto che sarei partito per il fronte l’indomani, ma in realtà ho dovuto aspettare che fosse pronta una nuova centuria. Le milizie operaie erano state messe in piedi in fretta e furia dai sindacati all’inizio della guerra e non erano ancora organizzate su base militare classica. Le unità erano la “sezione”, una trentina di uomini; la centuria, di un centinaio d’uomini; e la “colonna”, che in pratica indicava un qualsiasi raggruppamento grande. La caserma Lenin era un insieme di splendidi edifici in pietra con un maneggio e immensi piazzali acciottolati; era stata la caserma della cavalleria, conquistata durante i combattimenti di luglio. La mia centuria dormiva in una stalla, sotto mangiatoie in pietra con ancora incisi i nomi dei destrieri. Tutti i cavalli erano stati requisiti per il fronte, ma c’era ancora puzza di pipì di bestia e avena ammuffita. Ci sono rimasto circa una settimana. Mi ricordo soprattutto le varie puzze equine, gli squilli di tromba tremebondi (i nostri trombettieri erano tutti dilettanti – ho imparato i segnali militari spagnoli solo quando li ho sentiti dalle linee dei fascisti al fronte), il batti batti degli scarponi chiodati nel piazzale grande, le lunghe sfilate mattutine sotto il sole invernale, le folli partite a pallone in cinquanta contro cinquanta sulla sabbia grossa del maneggio. In caserma saremo stati un migliaio d’uomini e una ventina di donne, oltre alle mogli dei miliziani, che cucinavano. C’erano ancora miliziane, anche se poche. Durante i primi scontri avevano combattuto fianco a fianco con gli uomini, in modo assolutamente naturale. Nelle rivoluzioni è così. Ma la mentalità stava già cambiando. Durante l’addestramento femminile bisognava tenere i miliziani fuori dal maneggio, altrimenti le umiliavano e le prendevano in giro. Pochi mesi prima nessuno avrebbe trovato niente da ridire su una donna con un fucile in mano.
L’intera caserma era lurida e nel caos più assoluto, ridotta come ogni altro edificio occupato dai miliziani, il che a quanto pare è un sottoprodotto di ogni rivoluzione. In qualsiasi anfratto si inciampava su cataste di mobili sfondati, selle rotte, elmetti da cavalleria in ottone, foderi di sciabola vuoti e cibo andato a male. C’era uno spreco di cibo mostruoso, soprattutto di pane. Solo nella mia camerata se ne buttava un’intera gerla a pasto: una cosa vergognosa, vista la scarsità di pane tra i civili. Le tavole poggiavano su cavalletti, noi mangiavamo in gavette perennemente unte e bevevamo da una roba orrenda detta porrón. Un porrón è una specie di bottiglia di vetro con un beccuccio da cui sprizza fuori il vino ogni volta che la inclini; quindi ci si può bere senza poggiarci le labbra, e passarsela di mano in mano. Appena ho visto come si usava il porrón ho fatto sciopero per avere una tazza. Ai miei occhi quel coso era troppo simile a un pappagallo da ospedale, se poi il vino era bianco non parliamone proprio.
A mano a mano, le reclute venivano rifornite di uniformi, ma siccome si era in Spagna ce le elargivano un pezzo alla volta, perciò non si capiva mai a chi era stato dato cosa e diversi accessori indispensabili, tipo cinturoni e cartucciere, non sono stati distribuiti fino all’ultimo istante, con il treno lì pronto per portarci al fronte. Ho detto “uniforme” e probabilmente ho dato l’impressione sbagliata. Non era propriamente un’uniforme. “Multiforme” sarebbe più appropriato. Eravamo tutti vestiti grosso modo alla stessa maniera, ma tra noi non ce n’erano due uguali. Avevamo praticamente tutti pantaloni alla zuava di velluto, ma lì le somiglianze finivano. Dal ginocchio in giù chi portava le fasce, chi gambali di velluto, chi copristivali o stivaloni di cuoio. Tutti indossavamo una giacca con la chiusura lampo, ma alcuni ce l’avevano di pelle e altri di lana, di ogni colore possibile e immaginabile. I modelli di berretto erano praticamente tanti quante le teste. Di solito lo abbellivi con una spilletta con lo stemma di un partito, e in più quasi ogni uomo portava al collo un fazzoletto rosso o rossonero. In quel periodo una colonna della milizia era un’accozzaglia spaventosa a guardarsi. Fatto sta che i vestiti venivano distribuiti a mano a mano che le varie fabbriche li producevano, il più in fretta possibile, e considerate le circostanze non era un abbigliamento poi tanto pessimo. Camicie e calzini invece erano una roba di cotone triste, abbastanza inutili contro il freddo. Non voglio pensare a quello che i miliziani devono aver passato nei primissimi tempi, quando ancora non erano riusciti a organizzarsi. Ricordo di aver trovato un giornale solo di un paio di mesi prima in cui uno dei dirigenti del POUM dichiarava, dopo essere stato al fronte, di voler provare a fare in modo che «ogni miliziano avesse una coperta». Una frase da brividi, se hai mai dormito dentro una trincea.
Al mio secondo giorno in caserma è cominciata una cosa a cui davano l’esilarante nome di “istruzione”. All’inizio ne risultavano scene di caos spaventose. Le reclute erano soprattutto ragazzi di sedici o diciassette anni dei vicoli di Barcellona, colmi di rivoluzionario ardore ma completamente ignari di cosa vuol dire andare in guerra. Impossibile convincerli a stare anche soltanto in riga. La disciplina era inesistente; se a uno non piaceva un ordine, usciva dai ranghi e si metteva a sbraitare con il superiore. Il tenente da cui siamo stati istruiti era un ragazzone dalla faccia pulita, un ex ufficiale dell’esercito regolare che ancora lo sembrava, con il suo elegante portamento e l’uniforme fiammante. Strano a dirsi, era un socialista fervido e sincero. Insisteva addirittura più della truppa sull’assoluta parità sociale tra i ranghi. Ricordo la sua espressione stupefatta e dolente di fronte a una recluta sprovveduta che lo aveva chiamato «señor». «Ma come señor?! Perché mi chiamate señor? Non siamo tutti compagni?» Chissà se la cosa gli facilitava il lavoro. Intanto, le reclute inesperte non ricevevano nessun addestramento militare di una qualche utilità. Gli stranieri, mi era stato detto, erano dispensati dall’“istruzione”» (gli spagnoli, ho notato, hanno l’imbarazzante convinzione che qualunque straniero capisca di faccende militari più di loro) ma ovviamente io ci andavo insieme agli altri. Ero ansiosissimo di imparare a usare la mitragliatrice; non avevo mai avuto modo di maneggiarne una. Per la mia disperazione, ho scoperto che sulle armi non ci insegnavano niente. La cosiddetta istruzione consisteva in semplici esercitazioni formali del tipo più idiota e antiquato: fianco destr, fianco sinistr, dietro front, marcia sull’attenti in fila per tre e tutto il corredo di inutili assurdità che avevo imparato già a quindici anni. Una modalità di addestramento davvero straordinaria per un esercito da guerriglia. È ovvio, se hai pochi giorni per addestrare un soldato devi spiegargli i concetti base: organizzare la copertura, avanzare in campo aperto, montare la guardia, costruire uno sbarramento... soprattutto, usare le armi. Ma a questa masnada di bambini entusiasti, destinati nel giro di pochi giorni a essere scaraventati in prima linea, non veniva insegnato nemmeno come sparare col fucile o tirare la spoletta di una bomba a mano. In quel momento non avevo ancora afferrato che il motivo era l’assoluta mancanza di equipaggiamento. Nella milizia del POUM i fucili scarseggiavano in modo così disperato che le truppe fresche dovevano rilevarli da quelle a cui andavano a dare il cambio al fronte. Nella caserma Lenin non penso ci fossero altri fucili oltre a quelli delle sentinelle.
Pochi giorni dopo, pure se di regola restavamo un’accozzaglia, ci hanno considerati pronti per esibirci in pubblico e di mattina andavamo a marciare fuori, fino ai giardinetti di plaça d’Espanya. Era il terreno di addestramento comune alle milizie di tutti i partiti, ai Carabineros e ai primi contingenti del neonato Ejército popular. Lassù ai giardini lo spettacolo era bizzarro ed edificante. Per ogni viale e sentiero, in mezzo ad aiuole ordinatissime, squadre e compagnie d’uomini marciavano rigidi avanti e indietro, col petto in fuori, nel tentativo disperato di sembrare dei soldati veri. Nessuno era armato né in uniforme completa, sebbene su moltissimi di loro l’uniforme della milizia facesse già capolino qua e là. La procedura non cambiava praticamente mai. Per tre ore andavamo su e giù tutti impettiti (la marcia spagnola ha il passo cortissimo e svelto) dopodiché ci davano l’alt, rompevamo le righe e ci assembravamo assetati davanti a un piccolo alimentari a mezza collina, il cui proprietario faceva affari d’oro vendendo un vinaccio da due soldi. Erano tutti molto simpatici con me. In quanto inglese ero una specie di fenomeno, gli ufficiali dei Carabineros mi portavano in palmo di mano e mi offrivano da bere. Io intanto, appena riuscivo a bloccare il tenente sbraitavo di voler essere istruito sull’uso della mitragliatrice. Cavavo di tasca il mio dizionarietto Hugo e attaccavo nel mio pessimo spagnolo:
«Yo sé manejar fusil. No sé manejar ametralladora. Quiero apprender ametralladora. Cuándo vamos apprender ametralladora?»
Per tutta risposta ricevevo un sorriso esasperato e la promessa di istruirmi all’uso della mitragliatrice mañana. Inutile dirlo, mañana non arrivava mai. Passavano i giorni, le reclute imparavano a tenere il passo e a scattare sull’attenti in modo quasi elegante, ma se sapevano da che parte di un fucile veniva fuori il proiettile era grasso che colava. Un giorno un Carabinero armato ci si è avvicinato dopo il nostro alt e ci ha lasciato guardare il suo fucile. In tutta la mia sezione, è venuto fuori, nessuno a parte me sapeva nemmeno come caricarlo, figuriamoci prendere la mira.
Nel frattempo portavo avanti il mio corpo a corpo con la lingua spagnola. Oltre a me, in caserma c’era solo un altro inglese e nessuno, nemmeno tra gli ufficiali, spiccicava una parola di francese. Le cose erano peggiorate dal fatto che i miei compagni tra di loro parlavano essenzialmente in catalano. L’unico modo per sopravvivere era portarmi sempre dietro il dizionarietto e cavarlo di tasca nei momenti di crisi. Comunque, meglio essere straniero in Spagna che altrove. Fare amicizia con uno spagnolo è facilissimo! Dopo un paio di giorni una quantità di miliziani già mi chiamava per nome, mi insegnava trucchi e mi subissava della sua ospitalità. Questo non è un pamphlet di propaganda né ho intenzione di idealizzare la milizia del POUM. L’intero sistema delle milizie repubblicane aveva difetti tremendi e gli uomini erano quantomeno eterogenei, perché a quel punto il reclutamento volontario già scemava e i migliori stavano al fronte, oppure erano morti. Una buona percentuale di noi non era di alcuna utilità. Ragazzini di quindici anni portati ad arruolarsi dai genitori soprattutto, e senza farne mistero, per via del soldo di dieci pesetas al giorno; e poi anche per il pane, distribuito con generosità tra i miliziani i quali potevano perciò portarlo a casa di straforo. Ma sfido chiunque a finire scaraventato come me in mezzo al proletariato spagnolo – o forse dovrei dire catalano, perché a parte pochi aragonesi e andalusi ho avuto contatti solo con i catalani – senza restare colpito da quanto sia fondamentalmente composto di gran brave persone: schiette e generose, soprattutto. La generosità degli spagnoli, nel senso proprio del termine, rischia di diventare addirittura imbarazzante. Chiedi una sigaretta e ti ritrovi costretto ad accettare il pacchetto intero. E poi esiste una generosità profonda, una vera e propria larghezza d’animo, in cui mi sono imbattuto di continuo nelle circostanze più improbabili. Alcuni giornalisti e altri stranieri che hanno attraversato la Spagna durante la guerra sostengono che sotto sotto gli spagnoli sono invidiosi degli aiuti venuti dall’estero. Posso rispondere solo che io non me ne sono mai accorto. Pochi giorni prima della nostra partenza dalla caserma, ricordo, un gruppo d’uomini è arrivato in licenza dal fronte. Parlavano tutti esaltati delle loro esperienze ed erano entusiasti di alcune truppe francesi con cui avevano combattuto fianco a fianco a Huesca. I francesi erano coraggiosissimi, secondo loro, e aggiungevano eccitati: «Más valientes que nosotros», «più coraggiosi di noi!». Ho sollevato ovvie obiezioni e allora mi hanno spiegato la miglior conoscenza dei francesi quanto all’arte della guerra: erano più esperti di bombe, mitragliatrici, e così via. Con tutto ciò, il commento resta significativo. Un inglese si farebbe tagliare una mano, prima di dire una cosa del genere.
Ogni straniero arruolato nella milizia passava le prime settimane a innamorarsi degli spagnoli e insieme a disperarsi per certe loro caratteristiche. Al fronte mi sono addirittura imbestialito, a volte. Gli spagnoli sono fantastici in un sacco di cose, ma non a fare la guerra. Ogni straniero, senza eccezioni di sorta, resta scioccato dalla loro inefficienza e soprattutto dai ritardi, che sono da impazzire. L’unica parola impossibile da non imparare in Spagna è mañana: domani (letteralmente «mattina»). Ogni volta che è anche solo lontanamente pensabile, le incombenze del giorno vengono rimandate a mañana. È talmente risaputo che perfino gli spagnoli ci scherzano su. In Spagna niente, da un pasto a un combattimento, avviene mai all’ora fissata. In generale tutto è sempre in ritardo, ma giusto ogni tanto – giusto perché non ti ci abitui – qualcosa capita in anticipo. Un treno il cui orario di partenza viene fissato alle otto partirà più o meno tra le nove e le dieci, tranne quell’unica volta a settimana in cui magari, grazie a un personalissimo ghiribizzo del macchinista, lascerà la stazione alle sette e mezza. Certe cose ti lasciano un po’ provato. In teoria ammiro gli spagnoli per il fatto che non condividono la nordica isteria della puntualità – peccato che ...

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