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Cosa è successo

Giuseppe Genna

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Cosa è successo

Giuseppe Genna

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L'inimmaginabile accade. Da Oriente a Occidente l'epidemia di Covid-19 dilaga come una peste destinata a cambiare la vita umana sul pianeta Terra. Le metropoli si spengono. I supermercati si svuotano. Le strutture del sistema collassano. Metà della popolazione mondiale è reclusa in regime di quarantena. Giuseppe Genna scivola tra le maglie del lockdown per riempire di parole l'orrore impronunciabile, restituito a malapena dalla numerologia dei morti, opaco agli sguardi che spiano il mondo desolato. Sfida la notte blindata nelle strade di Milano, Wuhan d'Europa, per indagare i giorni della pestilenza. Accede a luoghi interdetti, penetra nei reparti infetti, nei cimiteri sull'orlo delle fosse comuni, nelle case dove giacciono - insepolte - le salme. Si incunea nelle stanze del potere e nelle carceri in rivolta, nei poli logistici e nelle residenze per anziani decimate dal virus. Interroga le immagini spettacolari, e indimenticabili, dell'apocalisse: il sonno di un'infermiera che dorme per la stanchezza e il dolore, il procedere lento del convoglio militare che trasporta le bare via da Bergamo, lo sconvolgente rito celebrato dal Papa in una piazza San Pietro deserta. Attraversa l'età del disastro globale, i gironi di un inferno fisico e spirituale fino a riveder la luce di una speranza incerta. Reality narra ciò che è successo e, come nella Chernobyl di Svjatlana Aleksievi?, coglie l'essenza malata di questo tempo. È resoconto di universi che crollano, tragedia classica in epoca contemporanea, diario della contaminazione, coro del disastro. E della salvezza.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2020
ISBN
9788831801157

Reality

In memoria di Mario Benedetti
(Udine, 9 novembre 1955 – Piadena, 27 marzo 2020)
Se le vite si ritraggono ognuna
nel suo continuare o nel rimembrarsi
avremo sempre le parole in posa.
Mario Benedetti, Questo inizio di noi
Giriamo la notte divorati dal fuoco, consumati dalla vita e dall’ansia di non essere più noi giriamo e giriamo, per la città concentrica giriamo e facciamo questo: guardiamo.
Siamo attoniti.
Guardiamo l’uomo, vediamo dio, che è oggettivo. Sono i giorni della piaga, della piaga celeste e terrestre. Non sappiamo più cosa sia la terra, il cielo è basso la notte quando giriamo per le strade camionali deserte, spettrali sotto i grandi lampioni a led che creano una polvere di luce arancione e fredda, sembriamo alieni lungo i Navigli che a raggiera escono dal perimetro e irrorano le campagne chimiche. I Navigli di Leonardo da Vinci fumano nella notte gelida e svuotata, la loro acqua è pesante e nera, a gorghi lenti in superficie, e sugli argini corrono i grandi ratti oscuri dalla vita misteriosa. La nebbia confonde le nostre solitudini in questo hinterland in vetrocemento, nei prati di erba gelata tra i tronconi delle tangenziali.
Abbiamo in vista la città Milano, la città divina, è una raggiera, un sistema circolare, adagiata su un piano infossato che contribuisce all’insalubrità dell’aria e vive da sempre le sue celebri epidemie dimenticandole, chiusa nelle mura a cerchio, mura medioevali in cotto annerite dallo smog di tutto il Novecento, infiniti lazzaretti e cimiteri a fosse comuni, secoli di morti per pestilenze mai debellate, corpi infetti a migliaia murati nella calce sottoterra, ossa degli appestati ad adornare le pareti delle chiese in centro, obliati i comitati di salute pubblica, muti nei secoli i cardinali che hanno tuonato dal Duomo – la cattedrale al centro delle cerchie concentriche ci acceca – e l’idea stessa dell’epidemia solo da poco fatta fashion, fatta food, fatta design, in un tempo recente e friabile. Una metropoli che si è glitterata nell’ultimo decennio, una pandemia del consumo veloce, il piombo reso oro atomicamente instabile. La capitale immorale della nazione Italia, ma priva delle dolcezze italiane, disattenta e attrattiva, dieci milioni di turisti l’anno. Produce. Produce e produce. Le sfilate sotto i fari numinosi sulle passerelle, le top lunari nella luce assoluta dei défilé, gli chef master che si affacciano dalle tv, è la capitale delle tv private, patria dei premier più contestati e ambigui. Milano a ondate elettriche si accende e la guardano le metropoli del pianeta.
E adesso è buia.
Lo scrittore va e vede, lo scrittore sono io. Chino sul serbatoio della Vespa male in arnese, lungo la pista del viale a tre corsie dall’aeroporto civile punto al centro di quest’urbe indecente che non si illumina, io sono l’unico mezzo circolante, anche in direzione contraria non c’è nessuno, vado a penetrare le mura della città dal passaggio a sudest detto “I tre ponti”, provenendo dallo scalo cittadino di Linate all’undicesima settimana dell’anno, al ventesimo giorno del contagio, ora che tutto è chiuso, ora che tutto è rivelato. Ogni giorno della pandemia illumina i precedenti, distorce le percezioni che avevamo del contagio, ne ridevamo, erano i cinesi all’inizio, abbiamo dimenticato ogni cosa, ogni data. Viviamo solo adesso. Viviamo in attesa che il premier e le infinite autorità preposte ci parlino, dai social, dai vecchi televisori al plasma, ci chiudano ancora un poco di più, un poco di più, ci sottraggano qualche grammo ancora di libertà. È dolce e senza memoria perdere le libertà un poco alla volta.
Sui tabelloni elettronici delle autostrade mentre punto verso il centro pulsano le scritte arancione freddo NON VIAGGIATE.
Sono uscito verso le tangenziali per apprezzare il profumo dei tubi di scappamento che non c’erano, per credere nell’invisibile, fosse dio o fossero le molecole di virus poco importa, qualunque invisibile mi va bene, sono uscito per vedere sospesi sopra l’erba medica e la veccia gli stracci dei sacchetti in cellophane lacerati nelle zone di mezzo tra statale e tangenziale, gonfiati dall’aria primaverile, che gela di colpo. Voglio vedere tutto. Vedo tutti: non c’è nessuno.
Ho il muco nei polmoni, io, tossisco respirando con lo spasmo, l’asma mi prende, a volte uso il Ventolin, fumo come non mai, inalo i batteri che tossisco nel casco integrale, c’è un odore batterico dell’alito, non sono andato a fare il tampone, potrei avercelo addosso. Tossisco da tre mesi senza febbre e di giorno in giorno mi vedono nei soprassalti della raucedine, ho gli accessi, nessuno mi badava a inizio marzo, ma ora si allontanano spaventati, adesso stanno iniziando a biasimarmi. La tosse è una colpa…
Raggiungo i massimi chilometri orari verso Milano la collassata. È un infarto della città vetrina. Gli Airbnb non sono andati in crisi: non esistono più. Le economie circolari non sono più un’esigenza. I contagi dei prossimi giorni sono l’effetto delle incubazioni dei giorni scorsi. La crisi ecologica pare dimenticata, la catastrofe futura è mutata nell’apocalisse del presente. L’aria è radioattiva di virus, l’ambiente non è più da salvare. L’ambiente non salva più. L’ambiente è il figlio di puttana, un capriccio della morte, un elemento selenico e antagonista, il cardiogramma piatto di una natura acuta perché insidiosa, subdola, del tutto inorganica.
Soltanto qualche mese fa, a fine novembre, l’adunanza più vistosa a Milano. Decine di migliaia di ragazzi in manifestazione per le vie di Milano la severa, che conosce il rigore ma non il pudore che esso implica. Milano ecologica appare un paradosso, in Brianza c’è la zona più inquinata d’Europa. I ragazzi non rumoreggiavano, erano ordinati, comprensibili, carezzabili, seguivano le parole di Greta. Quel suo volto lappone mi ispirava una sensazione di qualche sindrome, era eroica e azzerava la distanza tra noi e i potenti, diventando potente, diventando un potere. I giovani avevano scosso il centrocittà, lo avevano inondato, detestavo i loro slogan a meme, questi figli del tempo digitale erano conterranei miei, contemporanei miei?
Tossisco i batteri, il catarro crocchia nelle basse vie aeree, accelero entrando nel territorio pericoloso. Milano è pericolosa. E l’altro giorno sono tornati, gli adulti li hanno tollerati sorridendo con pietà, i ragazzi di Greta – colpevoli gli adulti e colpevoli i ragazzi, ma nel rispetto delle disposizioni sul coronavirus hanno disdetto la manifestazione di massa, a cui nessuno avrebbe comunque partecipato, e gli organizzatori hanno percorso in bicicletta e skateboard la direttrice della Stazione Centrale. Erano in dieci o quindici, si sono vestiti con tute anticontaminazione verdi, con un lenzuolo a bandiera e sopra c’era scritto SYSTEM CHANGE NOT CLIMATE CHANGE: rivolgono la domanda al sistema, che cambi. Mai vista un’ingenuità così portentosa. Eppure erano, quei ragazzi, i primi a parlare, e non a mezza bocca, della pandemia come rischio globale: avevano ragione!, e forse per questo li detesto, non tollero i loro lineamenti più lisci che freschi, il calvinismo dei loro tratti caratteriali, la loro acne curata con aspersione delle creme più efficaci, le loro capigliature tutte uguali, l’inoffensività degli sguardi automatici e le posture di chi ha perduto coscienza del proprio corpo, la loro propensione digitale. Questi ragazzi, che annunciavano la possibilità di un isolamento, planetario, erano per me il virus, prima dei tempi di qualunque virus…
Ritengono di essere davvero l’ultima generazione. Vedono l’imminenza di un pianeta deserto, irradiato da un sole bruciante, le sterpaglie prima dell’estinzione della vita organica, oceani vaporizzati, una sfinge a forma di sfera che rotola nello spazio cosmico. Senza essere tragici (sono contemporanei!) temono la catastrofe, l’ultimo umano, nessuna voce dall’aldilà, l’evoluzione del minerale in un futuro fossile, disabitato. Per questo avevano organizzato il flash mob a migliaia a Milano, avrei voluto scuoterli per le spalle a uno a uno, chiedere a ogni manifestante di qualunque dio, almeno un dio…
Avevo incrociato quei ragazzini ambientalisti in piazza della Scala, dove è adesso serrato il grande teatro d’opera a cui il mondo guarda. Un membro del cast di Salomè è stato trovato positivo, hanno chiuso e sanificato ovunque, uomini in tuta bianca fosforescente di Cernobyl’ sul palcoscenico, tra gli stucchi e il cremisi, tra le poltrone di velluto in platea e nei palchi, la radioattività tra le mura del Piermarini, i soprani che mostrano la narice ai sanitari, rabbrividiscono quando il cotton fioc del tampone entra. Il teatro vuoto mostra oggi una grave verità. La realtà denudata in assenza di spettacolo è uno spettacolo più tragico che mai.
Eravamo malati di spettacolo. Correvamo verso la malattia, la malattia era la corsa stessa…
Eravamo malati, eravamo già tutti malati a Milano la pretenziosa. Si aggiravano contagiati già prima del contagio. Il lusso organizzato, il finto lusso a portata dei moltissimi pochi, distorceva le ore di vita, i lineamenti, l’abbigliamento metropolitano, mentre il grasso dei ratti cuoceva nel guano delle cantine delle case popolari, le sterminate periferie dell’orrore della città concentrica. Il racconto oggettivo di quanto Milano l’ipercontemporanea, Milano l’internazionale, Milano la boriosa comminava ai sistemi nervosi di chi ci prosperava e di chi ci sopravviveva – è la storia di un’epidemia prima della pandemia da virus. Un virus morale, un’epidemia psichica, per una metropoli che si è pensata verticale (la città che sale…) e invece era un incommensurabile orizzonte, che dispensava ritmi da criceto, drammi popolari silenziosi, tutta una suppurazione di odio della periferia contro il centro, la fibrillazione dei tempi singoli e collettivi (una massa di individui roteanti, dervisci senza dio): la colpa per come la concepisce un moralista, un teologo, un socialista.
Lo svuotamento della città pretenziosa in due settimane è totale. Il virus invisibile induce il collasso visibile.
Sotto il sole il deserto è allo zenit. L’ordinanza di Stato svuota, confina, rende la materia più squadrata, più geometrica, più radioattiva.
Penetro verso la zona centrale. Trapasso le periferie, le circonvallazioni consecutive, oltre i chioschi chiusi, nessun negozio aperto.
Vedo: quadri viventi, quadri morti.
Vedo: i parcheggi larghi dei supermercati, l’asfalto granuloso, vuoti di auto, le persone in piedi immobili a tre metri di distanza l’una dall’altra, non muovono un muscolo, una decina, come statue iperrealiste di Duane Hanson, immobili, rade, le facce sotto mascherine improvvisate guardano verso l’entrata dove contingentano, lasciano entrare a due a due, la merce è lugubre. La realtà è iperrealista.
Vedo: un uomo in una cabina telefonica, esistono ancora cabine telefoniche, la cornetta pressata sull’orecchio e la mascherina che non gli copre il naso, grida nel ricevitore, com’è riuscito ad azionare il telefono fisso? Con quali gettoni, con quale scheda? E si agita nella cabina, la luce invernale è nitida e i tigli nella piazza alla Bovisa stanno gemmando. Mi sento un testimone, non so di cosa.
Vedo: una vecchia in pelliccia sintetica con i capelli tinti male, di azzurro, le vecchie che si pensano ancora giovani, che urla: «Non ce l’ho l’autocertificazione! Non ce l’ho! L’autocertificazione per il prosciutto devo avere?!». Se giri, oggi, devi firmare un modulo, devi portarlo appresso, un modulo per tragitto, se vai a fare la spesa e rientri sono due moduli, e la vecchia sbraita nel nulla contro un vigile urbano a venti metri da lei e gli urla: «Pezzo di merda!». Agita le braccia nell’aria satura di virus, nella via Meravigli dietro la cattedrale. È tremenda la sguaiatezza delle anziane.
Vedo: le chiese vuote. Chiese su chiese su chiese: sagrati disertati, ogni gesto della pace abolito, ogni lode, ogni mattutino, i preti sono nascosti.
Vedo: a distanza il video dell’arcivescovo milanese, ha la forma di un ragioniere e l’abito talare, sale “in forma privata” sul tetto del Duomo, dà le spalle a chi guarda, è ripreso dal basso di schiena, siamo in migliaia a osservare la sua sagoma nera e porporata, la sua sottana in raso nero, in piedi sotto la guglia più alta dove si staglia la statua d’oro della Madonnina. Tiene tra le mani un breviario e guarda in alto verso la madonna, la voce altomilanese, quella cadenza femminea dei preti, è solitario nel tetto abbacinante con le guglie che si innalzano come geyser di marmo orlato, l’arciprete contro il cielo polare trascina la sua monodia per chiedere l’intercessione, dice: «Preghiera a Maria, ai piedi della Madonnina, nei giorni tribolati di questo coronavirus». C’è desolazione nella consolazione, non c’è materia dello spirito ma c’è uno spirito nella materia e ci infetta tutti, le parole sono cave, rimbombano vuote nel vuoto. «Nessuno si senta dimenticato» dice l’arciprete.
Vedo: il blocco della polizia, con la paletta mi fanno il gesto di accostare, l’ufficiale ha uno sguardo liquido, meridionale, la barba rasata male, la cisti infiammata su una guancia, avrebbe bisogno di un istologico subito. La volante della polizia su corso Buenos Aires deserto ha le portiere spalancate e le reclute puntano sull’asfalto i mitra, circoliamo nella corsia verso il centro e ci fermano, me e gli altri che passano di lì. L’ufficiale con il bulbo pilifero infiammato mi chiede i documenti, non ho l’autocertificazione, tossisco male, il comandante mi chiede perché sono in giro e io rispondo che lavoro e domanda che lavoro e io dico lo scrittore e lui risponde che non è un lavoro, non è un “lavoro ufficiale”, che devo andare a casa, devo andare a sottopormi al tampone, questa tosse che ho è criminale, sono 260 euro di multa, rischio tre mesi di reclusione perché sto facendo lo scrittore. Sentiamo tutti lo zinco sulla lingua, respiriamo con la bocca e l’aria ha il sapore di Fukushima o di Pryp’jat’ accanto a Cernobyl’, quel sentore atomico, quell’ozono strano, quell’impossibilità della puzza da putrefazione.
Vedo: le videocamere di sicurezza ai pali della luce o dei semafori hanno le spie led che pulsano nel giorno che acceca. Non c’è nessuno e pulsano. Inquadrano il luogo sempre uguale, non passa nessuno, il frame non si modifica. Riprendono il nulla. I semafori scattano, intimano di fermarsi a nessuno, non c’è una persona che percorra le strade incrinate da fratture o buche per il cattivo asfalto. Non piove. I cumuli di spazzatura non si vedono, non si vedono i camion della raccolta differenziata. Tutto funziona, è immobile, è straniero.
Vedo: il quartier generale di Giorgio Armani è un silos, un bunker, una fantasia algebrica di Tadao Andú l’architetto, spazi luterani deserti anche prima del contagio, aree abitabili da nessuno, viste da nessuno, l’essenziale che condanna allo zero l’essere umano bipede e irrisolto.
Vedo: a notte i rider di colore, devoti ad altri culti di altre divinità, bui nel buio, sulle biciclette issati sui pedali, pedalano lenti e circospetti, con uno stile molto differente dal nostro quando eravamo bambini lanciati sulle Grazielle rosse e pedalavamo con le scarpe correttive e il ginocchio valgo, mentre questi ciclisti a cottimo sono cauti e felini, pantere umane, neri nel nero con gli occhi accesi, nessuna luce di posizione, nessuna mascherina, sotto i K-Way consunti, con i contenitori termici sporchi, cibaglie umide, si muovono secondo i ritmi delle app.
Vedo: il silenzio. L’immenso silenzio delle casematte, dei caselli alle porte storiche, delle serrande ricoperte di polveri sottili, vedo che non ci sono suoni, ogni rumore zittito, i volti muti delle maschere funerarie in cera dei pochi padroni di cani. Ovunque è come ovunque.
Vedo: il colpo di Stato implicito, il golpe silenzioso senza militari per le strade, senza uomini incupiti in basette con i borselli pieni di volantini ciclostilati, massaie ritratte nelle abitazioni umide per sfuggire alle pene del coprifuoco.
Non vedo: i morti. Bisogna vedere i cadaveri, è urgente sapere come li trattano, come li smaltiscono. La città blandiva il fuorisalone e il design, dimenticando il nosocomio, l’anziano astratto e cancellato. Devono tutti annusare il muco delle polmoniti interstiziali, annunciarlo alle persone perbene, sentirsi padri pellegrini intorno alla salma, fasciate le mandibole del morto, steso sul letto, pettinato con olio di nardo, il suo occhio rivolto verso il cielo.
Non vedo: il colatoio dei morti, l’ipogeo funebre usato come camera di decomposizione dei cada...

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