La strada di Smirne
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La strada di Smirne

Antonia Arslan

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La strada di Smirne

Antonia Arslan

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La fuga è finita. Al sicuro sulla nave che li condurrà in Italia, Shushanig e i suoi figli si lasciano alle spalle le atrocità che hanno sconvolto la loro vita e quella di tante famiglie armene. Mentre i figli di Shushanig si adattano dolorosamente alla nuova realtà, Ismene, che li ha strappati alla morte, cerca di salvare altre vite, prendendosi cura degli orfani che vagano per le strade di Aleppo. Una testimonianza, appassionante come un romanzo, sulle vicende di un popolo condannato all'esilio, dalla penna coinvolgente di una scrittrice coraggiosa.

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Information

Publisher
BUR
Year
2020
ISBN
9788831801348

Il sogno anatolico

Maggio 1919. Un tempo magico, si ricorderà sempre Khayël, quello dei suoi quindici anni. È stato messo in collegio anche lui, dai padri gesuiti di Mondragone, vicino a Roma; e ha cominciato a imparare il greco da padre Rocci («Invece dell’armeno» borbotta zio Zareh che è venuto a trovarli, per pochi giorni, appena finita la guerra, nel grigio, inquieto novembre del 1918).
Zareh in quei giorni si è appartato spesso col fratello maggiore, ma né l’uno né l’altro hanno raccontato niente, salvo uscire con facce aggrottate dai loro elaborati e cortesissimi colloqui. Pur girando continuamente, con qualche scusa già pronta in bocca, davanti alla porta chiusa dello studio, Teresa infatti non è riuscita mai a sentire qualcosa, una voce un po’ più alta, un’affermazione imperiosa, un dialogo sostenuto. Né lei né la cameriera, opportunamente istruita, né l’autista messo a spolverare il grande lampadario di cristallo.
Questo è strano, perché Zareh, che è grande e grosso, vistosamente elegante (la sua spilla da cravatta viene direttamente da Londra), e fuma speciali sigari francesi, parla sempre a voce alta e tende a esibirsi in riflessioni sentenziose: ma la presenza del mitico fratello maggiore lo ha ridotto a un ponderato silenzio, e Teresa crede che nei lunghi conciliaboli serali nello studio del Professore, egli si limiti ad ascoltare le scarne frasi, taglienti come ordini, di Yerwant.
“Ma come parlerà in armeno, come si esprimerà nella sua lingua?” si domanda Teresa, che non ha mai voluto né ascoltare né imparare la lingua del marito, in questo assecondando la sua più profonda aspirazione, anche se qualche volta, qualche volta a lui, innamorato com’era, sarebbe piaciuto insegnarle a sussurrare nella sua lingua le dolci frasi che ricordava dalla sua mamma, Iskuhi dalle gote di pesca.
Teresa percepisce nei colloqui in armeno dei due fratelli un allontanamento, un’esclusione che non riguarda solo lei, ma anche i suoi figli, soprattutto il maggiore. Wart ha ormai vent’anni, e lei non riesce a trattarlo con affetto, semplicemente. Si comporta verso di lui con una cortesia accurata e un po’ rigida ma, poiché si sente in debito, lo difende col padre e gli presenta ragazze da marito. Il figlio fugge, scandalizzato e furibondo.
Yerwant non gli ha mai perdonato il rifiuto di studiare medicina, ma è stato costretto ad arrendersi di fronte all’intera famiglia, una volta tanto coalizzata: perfino l’adolescente Khayël ha preso le parti del fratello, perché sente forte, nel suo cuore sensibile, di dover pagare il privilegio dell’amore incondizionato di Teresa.
Dopo un iniziale momento di reciproca curiosità e diffidenza, in cui i due gruppi di cugini si sono studiati, i figli di Yerwant, senza dirselo, si sono trovati d’accordo nell’evitare le cugine grandi, portatrici di un misterioso dolore che le avvolge, di un’aura oscura. Quando hanno faticosamente imparato un po’ di italiano, vengono collocate insieme in un educandato femminile, e lì dimenticate, tranne che per la visita mensile che Yerwant – da solo – fa la prima domenica del mese. Nel cupo parlatorio delle Suore Orsoline le due ragazze siedono vicine sul divano scuro, e guardano lo zio sorridendo caute.
Rispondono insieme, che stanno bene e che non hanno bisogno di nulla: lo zio porta dolcetti e brevi notizie (qualche volta i lukumi inviati sollecitamente dagli zii di Alessandria d’Egitto), e i saluti sempre uguali della zia. Simone, l’autista, porta i cambi di biancheria e un sorriso furbo e smagliante.
Quando è arrivato Zareh, sono tornate a casa per qualche giorno.
Per Henriette e il piccolo Nubar, la casa si è aperta come una conchiglia. Evitando per istinto la gentilezza corretta e un po’ forzata di Teresa, le sue eleganti maniere, i suoi vestiti viola e i cappellini fioriti, e tutti i nobili parenti che accorrono a vederli con orrore e pietà, i due bambini hanno subito scelto il rifugio della cucina al pianterreno. È un grande stanzone pieno di calore e di cose da mangiare; tre ampie finestre con robuste sbarre danno sul cortile interno. Dappertutto scaffali pieni di cibo. Là regna la cuoca Letizia, il cui cuore sovrabbondante li ha adottati e nutriti di calore e di allegria.
Per ore, ogni giorno, i due bambini seguono famelici ogni mossa di Letizia, rubano pezzetti di pane, croste di formaggio, avanzi di polenta, e ficcano tutto nelle tasche dei grembiulini colorati, uno rosso e uno blu, che Teresa ha fatto fare per loro.
E ogni giorno pazientemente Letizia esplora le tasche, senza sgridarli, e tira fuori tutto quello che ci hanno ficcato dentro. Poi li fa sedere all’angolo del tavolo di cucina, prende dalla credenza due piattini un po’ sbeccati di porcellana con disegni di rose, stando molto attenta che siano sempre quelli, e ci mette sopra con cura il pane, le croste, le briciole di polenta.
Ha imparato che loro sanno esattamente cos’hanno nascosto in tasca, e se qualcosa non ricompare, scoppiano in pianti rumorosi, facendo accorrere tutta la casa, perfino Teresa, che guarda con stupore i visetti desolati. Una volta, richiamato dalle strida inumane di Nubar, è arrivato anche il Professore, e i due bambini spaventatissimi si sono rifugiati sotto il grande armadio pieno di vasellame che sta di fronte alla porta. Ma l’armadio è uguale a quello che, nel Paese Perduto, Yerwant aveva mandato al fratello Sempad. E là sotto nei loro piccoli cuori è echeggiata la voce di Leslie l’inglese, il fratellino ucciso, perché il posto sotto l’armadio era solo suo, e lui ci teneva le sue scatole e i suoi giochi. Una nostalgia indicibile, un’angoscia irrimediabile li ha bloccati là sotto, «E ce n’è voluto per farli uscire» sospira Letizia, che si è vista perfino graffiare le mani dai due bambini improvvisamente inselvatichiti.
Un po’ alla volta, nei mesi frenetici dopo il loro arrivo, gli è stato permesso di non salire a tavola con la famiglia, ma di mangiare in cucina. E là, un po’ alla volta, hanno smesso di agitarsi per il cibo, di ingozzarsi continuamente fino a vomitare, di nascondere pane dappertutto.
Inutile dirgli che ci sono topi, o scarafaggi, o formiche: nessuna bestia li spaventa, anzi, le vedono come un possibile cibo, e non era difficile sorprendere, nei primi mesi, Nubar a quattro zampe che cacciava e mangiava formiche.
E Letizia li ama. Come girasoli piantati su un terreno buono, i due bambini reagiscono a lei, e solo a lei. Risponderebbero educatamente allo zio Yerwant in armeno, se lui usasse l’antica lingua nel rivolgersi a loro; ma Yerwant – e Teresa – gli parlano solo in italiano. E le loro stentate risposte, alla fine, escono fuori in dialetto, perché questa è la lingua di Letizia, la sola che accettano, la lingua dell’affettuosa premura, la lingua del cibo.
Ogni tanto i cugini grandi vengono a vederli, sentono il dovere di stare un po’ con loro, ma ogni volta risalgono più in fretta, senza guardarsi negli occhi.
Ma adesso la guerra è finita, appena in tempo perché Wart, benché nato nel ’99, evitasse la coscrizione. Zareh è venuto subito, per riabbracciare il fratello e i nipoti, e ristabilire i contatti anche con Rupen, isolato a Boston durante tutta la guerra.
Nel maggio del 1919 ritorna con più agio, per gustare un po’ l’Italia, visitare Venezia; e vuole andare anche a Roma. Sta pensando a sposarsi, ha quasi scelto una ragazza assira, e mostra a tutti la sua fotografia. «Una bella ragazza formosa, molto orientale» sussurra da un angolo della bocca Teresa a suo fratello Andrea, che ha invitato per una cena di gala in onore del cognato.
È in quell’occasione che, oltre alle due ragazze fatte uscire dall’educandato, vengono ripuliti e portati in salotto anche i due bambini, che sono messi a sedere vicini e subito dimenticati.
Né lui né lei destano molta attenzione: si sono rimessi in carne, è vero, ma sono piccoli e bruttini, senza il fascino né dell’infanzia maltrattata né di quella seducente. Bambini qualsiasi, che per di più non parlano volentieri, e, quando parlano, spesso usano un dialetto popolare. Anche Zareh dapprincipio li guarda appena, ma poi vede nello sguardo di Nubar balenare un riflesso di Sempad il farmacista: lo stesso ammiccare un po’ ingenuo, la stessa tenerezza indifesa. E nello sguardo opaco di Henriette (che tutti ormai chiamano Enrica) una distanza infinita.
Così Zareh se li tiene vicini per un momento, e gli parla in armeno, e gli racconta cosa succede ad Aleppo. Ma poco dopo, sedendosi a tavola, è già lontano da loro, e si dedica, con molto entusiasmo, a discorrere in francese coi due brillanti nipoti, i figli di Yerwant. Sono ragazzi così intelligenti! Wart, benché giovanissimo, è un vero pozzo di scienza, dicono con ammirazione e un filo di noia i parenti Sartena, tutti piuttosto ignoranti. Khayël è affascinante, con quel sorriso seduttore che sfodera se gli piaci, e che promette lo scintillio di un’intelligenza acuta, e cultura, e dolcezza, e risate: il famoso “morbin” di casa Sartena che egli non ha preso dalla madre, sempre piuttosto imbronciata, ma da zia Luisa Guarienti, dalla risata squillante e improvvisa, dallo zio Titta, medico bravissimo e lunatico, e soprattutto dall’altra sorella, Francesca, la bellissima malmaritata che sfida il marito giocatore e manesco con elegante ironia, e che Khayël adora e vorrebbe cavallerescamente soccorrere.
Le lunghe vacanze si spalancano davanti a lui. Tutta l’estate al Dolo, e poi in montagna a Cortina, e poi finalmente la macchina. Deluso dall’ostinato rifiuto di Wart, che non vuol saperne di automobili e di modernità, Yerwant ha promesso a Khayël che quest’estate potrà guidare la scintillante Isotta Fraschini rossa, magari non ancora in città, perché gli mancano mesi al sedicesimo compleanno, ma certo in giro per la Riviera del Brenta, da Stra al Dolo, a Mira Porte, fin quasi a Mestre: e poi su e giù per la campagna. E appena possibile, la patente, e andare in giro da solo, affrontare la vita.
Sì, e intanto la mamma gli riempirà le tasche di santini beneaugurali, lo farà benedire dal famoso padre Fulgenzio, al Santo, al quale da tanti anni confida le sue ansiose irrequietudini: e Khayël si guarda bene dal rifiutare l’affettuoso sostegno, anzi lo esige. Santini rosari e invocazioni lo mettono, gli sembra, al riparo dai turbamenti vespertini che di tanto in tanto lo agitano, lo piombano in improvvise segrete malinconie.
Ha molti amici, Khayël: il frequente, caldo sorriso, la generosità un po’ sventata, la larga accoglienza, la bella casa e maman così fine gli aprono tutte le porte. I giovani aristocratici veneti e veneziani lo trattano come uno di loro, e le madri delle ragazze più giovani già riflettono su come sedurlo.
Ma lui s’incanta per le luci, i colori, i suoni di quell’estate memorabile, in cui tutto gli appare perfetto, e il suo sorriso beffardo e affettuoso tinge di gioia ogni cosa.
Anche Wart è travolto dalla gioia che Khayël diffonde intorno a sé, e s’immerge, per un poco, nella smemorata festevolezza di quella girandola di inviti, di giochi, di suoni (entrambi i fratelli hanno tirato fuori i loro strumenti, e di qualche sbaglio preso in allegria sorride perfino Wart, il perfezionista).
Con l’aiuto volonteroso della cugina Iris al pianoforte, e di un povero maestro del Dolo, che arrotonda il magro stipendio suonando il violino nelle sagre, ed è felicissimo di rimpinzarsi di dolci ogni pomeriggio, formano un quartetto: Khayël è al violoncello, Wart al primo violino, e si cimentano in furiose cavalcate da un motivo all’altro, da Mozart ai ballabili in voga, con un entusiasmo così schietto che al Dolo, sotto il portico, finisce per radunarsi un sacco di gente.
Mentre loro quattro suonano, e i loro amici seduti intorno ai tavolini di paglia di Vienna, decorati a motivi di crocette rosse e blu, chiacchierano sottovoce bevendo tè e bibite rinfrescanti, con qualche liquore, e saccheggiano i vassoi dei dolcetti del Gran Caffè Commercio, di biscotti salati e tartine preparati da Letizia, più in là compaiono paesani, lavoranti e contadini, affacciandosi dal folto del parco, intorno al pozzo e verso la famosa vigna di uva moscata di cui il Professore è così ghiotto.
Tutti stanno in piedi per rispetto, e si gustano il concerto con passione, scambiandosi occhiate e sorrisi, ma tutti sono pronti a scomparire in un momento se si affacciano Teresa o la sua cameriera Dolores.
Il parco vastissimo, che scende fino all’ansa del fiume, scivola piano piano nell’ombra, mentre il sole tramonta; e come folletti guizzanti nel buio crescente gli spettatori gioiosamente vanno e vengono dal bosco e dagli alberi antichi, presi come al laccio dalla festevolezza dei suonatori e dall’incanto dell’ora. Garzoni e lavandaie si guardano e si sorridono, e poi veloci si appartano nel folto. La porticina in fondo al parco che dà sul fiume e sul ponte non è più chiusa a chiave dall’inizio della guerra: la chiave si è perduta, dicono, e chissà chi l’ha perduta.
In realtà, è Yerwant che l’ha nascosta, dopo quella notte famosa in cui s’è accoccolato fuori, sul fiume, piangendo i suoi sogni e Sempad, il fratello lontano, quando il Paese Perduto si è allontanato per sempre. Rientrando, la mattina seguente, si è infilato la chiave in tasca, senza chiudere la porta, e poi l’ha messa in un suo stipo segreto, dove tiene degli appunti, una specie di diario breve e occasionale, scritto in italiano ma con caratteri armeni (un foglio superstite di quel brogliaccio l’ha trovato la bambina, dopo il bombardamento del 16 dicembre 1943, e lo tiene nascosto nella sua scatola di legno intarsiata, col paesaggio di Liguria sopra in mosaico colorato).
La porta non è stata più chiusa da allora, e ormai tutti se ne servono per abbreviare la strada dal fiume alla ferrovia, evitando di dover fare il giro del muro di cinta del parco, e sotto le maestose piante è nato un sentierino segreto: solo, è meglio evitarlo quando Teresa è in villa.
Mentre giugno avanza, e il glicine sotto il portico impallidisce, e le rose rampicanti sul pozzo stanno sfiorendo, trionfano gli ippocastani, bianchi e rosa. Una nuvola maestosa di colori e un profumo inebriante coprono il giardino e il parco. I concertini del pomeriggio diventano più frequenti e organizzati, i quattro suonatori ci hanno preso gusto e cominciano perfino a preparare dei programmi.
Wart punterebbe su cose tedesche; Khayël ascolta i pareri degli spettatori, e con un sorrisetto rimescola le carte. Si inizia con qualche pezzo serio, ma romantico e ben ritmato, e si finisce sempre con i motivi delle canzoni alla moda. L’aria è fresca sotto gli ippocastani, e i giovani seduti davanti ai tavolini fumano con fare distaccato parlando di cose importanti. Gli spettatori paesani sul limite del parco tacciono attenti, cercando di non farsi notare.
Ma una sera, la sera del 13 giugno, nessuno sembra volersene andare. Tutti aspettano i fuochi del Santo, che lontano, verso Padova, cominceranno quando farà buio davvero. E aspettando, Khayël va a sussurrare qualcosa all’orecchio del maestro Arturo al violino, e poi partono con un vigoroso ballabile, trascinando Wart e la riluttante cugina. Mentre il buio cresce, e Letizia accende le luci esterne sul portico, furtivamente le ombre ferme sul bordo del parco iniziano ad avvicinarsi al ritmo della musica, attratte ed esitanti.
E poi per mezz’ora tutti si lanciano. I quattro suonatori, eccitati dall’atmosfera e dai fuochi d’artificio che cominciano a crepitare lontani, si sentono scatenati gitani, sognano orchestrine ungheresi e balli cosacchi, e non badando alle stecche pensano solo ad accontentare il loro pubblico, a esorcizzare ogni malinconia, e baldanzosamente si cimentano in polke, valzer, mazurke. Garzoni, lavoranti, mezzadri, perfino l’austero Gildo che si occupa del giardino, afferrano le loro compagne, timidamente nascoste dietro gli alberi, e volteggiano come ufficiali austriaci; gli studenti e le loro riservate amiche e cugine si alzano, si tolgono scialli e cappelli, e si buttano. Tutti si mescolano nella grande corte e intorno al pozzo, ballando. E nell’ombra che cala, la danza morbidamente avvolge tutti, come una sfida gioiosa, un inno alla vita che riprende dopo la terribile prova della guerra, una speranza, un augurio, chissà.
In un angolo, silenziose, le due ragazze armene osservano, con un distacco cauto e garbato, i cugini che si abbandonano a selvagge grida di esultanza al modo dei violinisti gitani, la cugina Iris sudata che pesta sui tasti, il maestro Arturo che fa vibrare e perfino stridere, nell’eccitazione, il suo violino da pochi soldi.
Sentono un po’ freddo, si coprono col grande scialle verde oliva che Teresa ha regalato ad Arussiag per Natale, e poi si voltano insieme, come ubbidendo a un ordine, verso i fuochi che scintillano per un momento nel cielo, disegnando figure, e poi si...

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