Contro l'impegno
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Contro l'impegno

Riflessioni sul Bene in letteratura

Walter Siti

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Contro l'impegno

Riflessioni sul Bene in letteratura

Walter Siti

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Da un po' di tempo si è diffusa l'idea che la letteratura debba promuovere il bene, guarire le persone e riparare il mondo. Breviari e "farmacie letterarie" promettono di confortarci e di insegnarci a vivere, i romanzi raccontano storie impegnate a fare giustizia, confermando chi scrive (e chi legge) nella convinzione di trovarsi dalla parte giusta. Ma la letteratura è un bastian contrario che spira sempre dal lato sbagliato: più si tenta di piegarla al proprio volere, e usarla per "veicolare un messaggio", più lei ci sfugge e porta in superficie ciò che nemmeno l'autore sapeva di sapere. Sostiene il Bene se il Potere lo reprime, ma quando il Potere si nasconde dietro stereo-tipi di buona volontà lei non ha paura di far parlare il Male, di affermare una cosa e contemporaneamente negarla, di mostrarci colpevoli innocenti e innocenti colpevoli. In questo pamphlet militante e preoccupato Walter Siti analizza alcuni autori e testi contemporanei di successo per difendere la letteratura dal rischio di abdicare a ciò che la rende più preziosa: il dubbio, l'ambivalenza, la contraddizione. Non senza il sospetto che l'impegno "positivo" sia soltanto la faccia politicamente in luce di una mutazione profonda e ignota, in cui tecnologia e mercato imporranno alla letteratura nuovi parametri.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2021
ISBN
9788831804295
Capitolo terzo

Può l’illuminismo vincere facile?

1.

Feroza Aziz, nel novembre 2015, era una bella diciassettenne americana di origine afghana, molto nota per i suoi interventi su TikTok; video generalmente frivoli, di cosmesi o di moda. I censori cinesi, scorrendo rapidamente i contributi postati quel giorno e vedendola impegnata in un tutorial in cui illustrava il corretto uso di un piegaciglia, non si sono soffermati né preoccupati; non potevano sospettare che dopo pochi secondi dall’inizio il tutorial avrebbe cambiato decisamente registro e si sarebbe trasformato in una dura denuncia della repressione cinese nei confronti dell’etnia uigura, mentre Feroza con la sua faccetta di bronzo continuava imperterrita a piegarsi le ciglia, passando dall’occhio destro al sinistro. Appena mi è capitato di vedere il video (diventato nel frattempo virale) l’ho collegato a una tecnica usata nella settecentesca Encyclopédie diretta da Diderot, di cui molto probabilmente Feroza Aziz non aveva mai sentito parlare: per depistare anche allora la censura, gli enciclopedisti si erano inventati di nascondere alcuni degli attacchi più decisi ai pilastri culturali dell’ancien régime dentro la definizione di lemmi dall’apparenza assolutamente innocua. Se per esempio si va a leggere il testo relativo alla voce “aquila”, si troveranno due pagine di lunghe e dettagliate informazioni ornitologiche ma verso il fondo (dove il censore stanco e poco interessato non sarebbe arrivato mai) si parla dell’aquila come uccello sacro a Giove e si condannano i miti superstiziosi pagani, con trasparente allusione a quelli cristiani.1
Le tecniche dell’illuminismo francese sono state esportate, più o meno consapevolmente, ovunque gli autori cerchino di esprimere pulsioni di libertà in un regime totalitario; il modello della Religiosa di Diderot (la storia di Suzanne Simonin, monaca forzata, e della sua fuga dal convento) si ritrova per esempio nella miniserie tedesco-statunitense Unorthodox (2020), ispirata all’autobiografia di Deborah Feldman: una ragazza cresciuta nella comunità ebrea ultraortodossa di Brooklyn fugge a Berlino, dove prima di lei era fuggita sua madre – la storia esemplare di una giovane donna per denunciare un intero sistema di oppressione. Così Azar Nafisi, in Leggere Lolita a Teheran, usa Nabokov e in generale la letteratura per raccontare la repressione del femminile dopo la vittoria di Khomeini, e Abbas Kiarostami sposta sullo sguardo dei bambini (nello splendido documentario Compiti a casa) il proprio atto d’accusa verso l’Iran contemporaneo: struggente la scena in cui uno dei piccoli trasferisce su Pinocchio la personale, e fino a quel momento mai compresa, voglia di libertà. Lo “spostamento”, proprio nel senso freudiano, era una delle tecniche principali dell’illuminismo, basti pensare al persiano di Montesquieu che descrive Parigi con occhi ingenui nelle sue lettere a un amico rimasto in Persia. Spostamento nello spazio ma anche nel tempo: Stalin concesse un premio statale a Ejzenštejn per la storia cinquecentesca di Ivan il Terribile ma, quando si accorse che nel secondo film della trilogia (La congiura dei boiardi) il potere autocratico veniva messo in discussione, negò l’autorizzazione a proseguirlo. Nel quindicesimo capitolo dello Spirito delle leggi Montesquieu stila un elenco paradossale delle nove ragioni per cui si ha il diritto di rendere schiavi i neri, con perle del tipo: “visto che i popoli europei hanno sterminato i popoli americani, hanno dovuto rendere schiavi quelli dell’Africa per riuscire a dissodare tutte quelle terre”, o anche “lo zucchero sarebbe troppo caro, se la pianta che lo produce non fosse coltivata da schiavi”, o infine “è impossibile supporre che i negri siano uomini come noi perché, se lo supponessimo, si comincerebbe a credere che noi stessi non siamo cristiani”. Il rovesciamento paradossale, cioè fingersi nei panni del razzista che si vuole combattere esagerando fino all’assurdo le sue motivazioni, è un caso particolare di spostamento ed è stato artificio retorico costante nelle lotte verbali per la tolleranza e la libertà; strumento efficace ma delicato e talvolta pericoloso, se è vero che durante un’assemblea in Giamaica nel 1802 una parte di questo elenco di Montesquieu fu strumentalizzata, citando l’autorità della fonte, per rifiutare ai mulatti gli stessi diritti dei bianchi2.
Michela Murgia, in Istruzioni per diventare fascisti, si appoggia a questa tecnica fingendosi provocatoriamente una fascista convinta, interessata alla diffusione e alla vittoria del fascismo stesso. Ma siccome è intellettualmente onesta, rivolgendosi al lettore scrive nell’ultima pagina (intitolata A scanso di equivoci): “lo so, adesso vorresti che in questa chiusa io ti dicessi che era una provocazione, che è stato un gioco divertente invertire i punti di vista… invece no; le cose che ho scritto, non tutte e non sempre, in qualche momento della mia esistenza, quelli più duri, superficiali, incazzati o ignoranti, anche solo per un istante le ho pensate”. Io stesso mi sono sottoposto al test del fascistometro e ho totalizzato sedici punti: sul discrimine esatto tra il “democratico incazzato” e il “non ancora abbastanza fascista, ma non più così democratico da organizzarsi per evitarlo” – che, devo ammettere, mi pare un profilo di me piuttosto preciso. Nel libro di Murgia, il fascismo è considerato una specie di malattia, latente in ciascuno di noi e che può insorgere a seconda dei “momenti” e dei discorsi che ci abituiamo ad ascoltare. Ripenso alla riflessione di Saviano su certe parole “bruciate” dal fascismo che le ha rese inutilizzabili. Gli scrittori di sinistra più preoccupati per uno sdoganamento attuale del fascismo in Italia sembrano credere che siano le parole a generare i comportamenti; il contrario dell’idea marxiana che siano invece le condizioni materiali a generare le idee, e quindi le parole. C’è in loro, direi, più l’adesione a un socialismo etico: cristiano per Murgia e per Saviano più vicino al “socialismo volontaristico” di Georges Sorel (che fu, ironia del destino, considerato da Mussolini un maestro).
Il fascismo secondo Murgia raccoglie un ventaglio di posizioni tra loro molto diverse, dall’autoritarismo al presidenzialismo, dal maschilismo al populismo: è un enzima, non un progetto politico-economico e tanto meno un fenomeno storico. “Quanto fascismo c’è in quelli che si credono antifascisti.” È l’invito a un serio esame di coscienza rivolto ai compagni democratici, i neofascisti non sono contemplati come lettori “impliciti” e nemmeno come pubblico potenziale del libro. Alcune “istruzioni” sembrano piuttosto banchi di prova per democratici incerti, soprattutto maschi: qualcuno di voi pensa che “far sentire speciale” la donna amata non sia un “sintomo di fascismo”, o che “non si può più fare un complimento a una donna che subito si grida alla molestia”? Qualcuno ritiene giusto “parlare come si mangia” in modo che chi non ha studiato non debba più “vergognarsi della propria ignoranza”? (Don Milani fascista?) Dire sempre “noi” non è forse tipico del fascista populista? (Ma allora «Noi donne», il glorioso settimanale dell’UDI?) Di fronte al tormentone “restiamo umani” a qualcuno viene in mente che “umani significa essere i predatori di tutte le altre specie”? Siete abbastanza pessimisti da credere che “il nostro stesso stare insieme generi le condizioni della violenza” (come credeva Leopardi)? Il discorso-del-fascista si stacca da quel che parrebbe un discorso di comune buonsenso solo per un aggettivo, o per un participio: “se vi azzardate ad attribuire la responsabilità dei gulag o delle foibe ai nipoti dei partigiani di allora, nessuno di loro vorrà ereditare le schifezze dei loro nonni, mentre tutti continueranno a pretendere che i presunti3 orrori dei nostri ci vengano imputati di continuo”. Insomma si ha l’impressione che quella che in narratologia si chiama la “funzione destinatario” del libro sia qualcuno che è già d’accordo con l’autrice, e condivida con lei la necessità di spiare in se stessi l’avanzare del fascismo incipiente. Oggi in Italia solo un’infima minoranza si dichiara fascista, e il libro infatti si rivolge alla maggioranza che fascista potrebbe diventare.
Questo pone una domanda cruciale: come funzionano le tecniche illuministe quando la tesi che esse vogliono sostenere è maggioritaria? C’è una contraddizione che non lo consente: le parole di protesta e di lotta hanno bisogno di sentirsi dalla parte del represso e non della repressione – la luce che squarcia le tenebre dell’ignoranza e del Potere violento non può combattere a favore dei più, tant’è vero che anche quando diventa propaganda e suona il piffero al Potere è costretta a inventarsi nemici occulti e superpotenti, complotti e trame tanto sotterranee quanto smisurate. Oppure (è questa la strada che sceglie Murgia) deve distinguere tra una maggioranza ipocrita e una minoranza “vera”; nel nostro caso, tra gli antifascisti disposti ad agire e quelli che dicono soltanto di esserlo, per comodità. Caro lettore, verifica alla prova dei fatti il tuo quoziente di antifascismo.
È la stessa mossa che Murgia compie con più evidenza in Morgana (Mondadori 2019), il libro derivato da un podcast scritto insieme a Chiara Tagliaferri. Qui la sfida è al femminismo: quale democratico oggi non si dice a parole “femminista”? Ma, alla prova dei fatti, che tipo di donna immagina? Il sottotitolo del libro recita: Storie di ragazze che tua madre non approverebbe; quindi la sfida è ancora più ambiziosa, è rivolta soprattutto alle donne e al loro antifemminismo latente. Se sei ancora troppo una brava ragazza (o peggio, una madre apprensiva), te la senti di apprezzare Moana e i suoi porno, o la pattinatrice Tonya Harding probabile complice delle bastonate sul ginocchio che hanno messo fuori gioco la rivale? Se invece ti credi una ribelle, sei pronta ad ammirare Shirley Temple, la bambina prodigio coi riccioli d’oro che è stata icona positiva del New Deal rooseveltiano e poi, da grande, deputata repubblicana e ambasciatrice? Se ti affascina la spiritualità di Caterina da Siena, comprendi anche l’archistar Zaha Hadid, privilegiata prepotente e snob, disinteressata agli operai morti sui suoi cantieri?
Le dieci donne selezionate nel libro (dodici, se si conta che le sorelle Brontë sono tre) rappresentano immagini di femminilità assai disparate; ciò che le unisce non è tanto l’essere insofferenti alle regole (dato pacificamente accettato dal femminismo mainstream) ma l’essere contrarie ai “buoni sentimenti”, il non essere mai state “donne ammirevoli”. Hanno accettato di farsi fotografare nude in una gabbia (Grace Jones), hanno sopportato con filosofia i tradimenti del marito (Moira Orfei), hanno dichiarato la loro passione per il denaro (Moana Pozzi) e appoggiato la guerra (Caterina da Siena); sono state prede di un amore incestuoso (Emily Brontë), pianificano come motto per il proprio funerale lo slogan della Nike, just do it (Marina Abramovic´).A riscattarle da quelli che per il buonsenso (anche femminista) sembrerebbero errori c’è una loro comune aura di santità, diretta o rovesciata: non tanto nell’ormai abusato paragone con le “streghe”, quanto in reali contatti con la sfera del religioso (Moana seguace di Milingo, il padre pastore e il nonno predicatore di Grace Jones, il padre curato delle Brontë, il bisnonno prete della Orfei, il nonno ortodosso della Abramovic´ poi proclamato santo, e per Caterina da Siena ça va sans dire), o con quell’attività che nel libro è considerata una quasi religione, cioè l’arte (a cui si è “vocati”); tutte e dodici sono artiste – compresa la Caterina scrittrice di lettere – o si sono dedicate a qualche forma di spettacolo. I ritratti diventano agiografici e questo indebolisce il loro spessore letterario. Nella sua ansia di apparire minoritario, il libro appare piuttosto capricciosamente idiosincratico. Il suo aspetto psicologico più profondo è forse proprio in ciò che sembra mancargli, cioè nelle madri delle protagoniste, o assenti o anaffettive o francamente orribili. Il conflitto col materno (“che vostra madre non approverebbe”) porta spesso le protagoniste a non avere figli.4
Nel proprio percorso di scrittrice, Michela Murgia non si è limitata a considerare la letteratura un atto di belligeranza, o uno strumento da usare come ausiliario della militanza politica; con Accabadora, per esempio, ha corso tutti i rischi del romanzo con le sue condensazioni, le sue ambiguità, le sue contraddizioni. La protagonista è una vecchia donna che in un paesino sardo svolge il compito, accettato dalla comunità, di far finire la vita dei malati terminali; viene chiamata per questo dalle famiglie, come una Parca lucida e di poche parole. Con lei va a vivere una ragazzina che i genitori non riescono a mantenere, secondo l’usanza dei “figli d’anima”: nasce tra vecchia e giovane un affetto scabro e iroso, ma quando la giovane scopre che la vecchia uccide i malati fugge via da lei, sconvolta. Sembrerebbe uno scontro (anch’esso illuministico) tra tradizione e modernità; ma la giovane va a lavorare come governante a Torino, si confronta con la freddezza razionale della borghesia del Nord e non può che tornare in Sardegna, al suo paese, dove i casi della vita la porteranno a praticare lei stessa un’eutanasia. Il cerchio si chiude, la madre riconosciuta non è quella che dà la vita ma quella che la toglie. Qui Murgia tocca una ferita profonda e non la risolve con l’ironia, anzi si inoltra in un terreno in cui lei stessa non ha risposte; e proprio per questo, forse, scrive il suo libro migliore.
Quando invece si dedica all’altro versante del suo mestiere, quello delle esortazioni engagées, allo spessore del testo si sostituisce, purtroppo, un entusiasmo che travolge la logica e convince assai poco. Prendiamo il libro illustrato intitolato Noi siamo tempesta (Salani 2019), la cui tesi di fondo è che il “noi” conta più dell’io, e che le grandi imprese sono un frutto collettivo. Parla per esempio dei Trecento delle Termopili, “pronti a fare quello che nessun eroe solitario farebbe, trasformare una sconfitta in leggenda”. L’obiezione che vien subito in mente è “ma Orlando a Roncisvalle?”. E varrà davvero la pena di esaltare l’organizzazione collettivista di Sparta, eterno punto di riferimento per le destre amanti della disciplina? Elogiando la folla che il 9 novembre 1989 attraversò i posti di blocco tra Berlino Est e Ovest, dando l’avvio alla caduta del Muro, Murgia scrive (riferendosi a una famosa intervista di Honecker): “i politici l’avrebbero tenuto su per altri cento anni”. Siamo sicuri? Non sono invece i rapporti di forza e le necessità dell’economia, più che la volontà della popolazione, a decidere i tempi della Storia? La macchina di Turing, certo, conobbe la collaborazione di un matematico scozzese e di uno scacchista di Manchester, ma non sarebbe mai nata senza la straordinaria personalità di un singolo e il suo solipsismo da maratoneta. L’indipendentismo catalano non può essere paragonato a quello sardo: nel secondo la domanda è se la Sardegna potrebbe reggersi economicamente da sola, nel primo ci si chiede piuttosto quale sarebbe il destino economico della Spagna senza la “locomotiva” catalana (la stessa cosa, trasformata in minaccia, sosteneva Bossi promuovendo l’indipendenza della Padania).
Nell’introduzione al libro Murgia se la prende con gli eroi dei miti, della letteratura e delle favole (“su cui abbiamo sognato tutti e tutte”)5 perché sono eroi solipsisti, e auspica nuove storie che raccontino “avventure dove diventare potenti insieme”. Ma i fantasmi interiori, le paure archetipe, gli ideali d’onnipotenza della nostra psiche, anch’essi possono diventare collettivi? Una squadra di Cappuccetti Rossi? Dieci Pollicini? Una nidiata di don Giovanni, un battaglione di Macbeth? Mettere insieme cose troppo eterogenee (per esempio, basandosi sul semplice dato della pluralità, Wikipedia e il circolo di Bloomsbury) può dare sul momento euforia ma non regge al minimo urto dialettico; siamo di fronte a una tecnica d’argomentazione fondata sull’affiliazione incongrua, a una ragione che non saprebbe tener testa alle ragioni contrarie. Così l’illuminismo arriva a negare se stesso.

2.

Che la democrazia sia in pericolo è difficile metterlo in dubbio: per le disuguaglianze crescenti, per le proprie lentezze e disfunzioni che fanno sorgere il rimpianto di un leader decisionista, per l’ipocrisia di finte inclusioni (donne, stranieri, disabili, transessuali…), per aver lasciato degenerare la libertà d’opinione in un diluvio di informazioni idiote e non aver saputo difendere le proprie istituzioni dall’onda montante di una sedicente “democrazia diretta”, per aver consegnato la libertà di ricerca e quella d’impresa a una tecnologia ormai asservita a un oligopolio di multinazionali, per aver permesso che il denaro si accumulasse nelle mani della finanza e della criminalità. La democrazia è una pianta delicata, fragile invenzione occidentale di difficile esportazione in una realtà geopolitica avversa. L’arma che la letteratura ha sempre avuto per indignarsi sulle storture sociali è la satira, e le risorse formali predominanti nella satira sono l’iperbole e il ridicolo. L’illuminismo classico, settecentesco, ha fatto largo uso della satira: basti pensare a quel pamphlet terribile che è Una modesta proposta di Swift. Se i due flagelli dell’Irlanda contemporanea, ragiona Swift, sono la pove...

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