I pensieri sono tigri di carta
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I pensieri sono tigri di carta

Dal Buddhismo alla Mindfulness per una vita più equilibrata

Elisa Chiodarelli

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I pensieri sono tigri di carta

Dal Buddhismo alla Mindfulness per una vita più equilibrata

Elisa Chiodarelli

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Un libro che unisce la pratica di mindfulness alla "scienza della mente" formulata dal Buddha molti secoli fa, accompagnando il lettore ad affrontare stress e sofferenza per trasformarli in equilibrio e amore per sé. Fare amicizia con i pensieri che affollano la mente è un po' come imparare ad affrontare una tigre, per accorgersi poi che la sua aggressività era solo un prodotto della mente stessa. La meditazione di consapevolezza, utilizzata nel VI sec. a.C. dal Buddha e poi ripresa dalla mindfulness, ci restituisce la libertà di scegliere, così da trasformare i comportamenti inconsci automatici in una vita più sana ed equilibrata, dove poterci esprimere in modo autentico. Un libro sull'approccio buddhista allo stress che, con una serie di riflessioni e l'aiuto di alcune pratiche guidate di meditazione (fruibili tramite QR Code), invita a riprendere in mano il filo della vita, per un viaggio attraverso le Quattro Nobili Verità e l'Ottuplice sentiero, per poi giungere alla questione dell'ego dal punto di vista del Buddha.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2022
ISBN
9788836006731

QUARTO PUNTO

Il Nobile Ottuplice Sentiero per ritrovare la direzione

“E se non puoi la vita che desideri
cerca almeno questo
per quanto sta in te: non sciuparla
nel troppo commercio con la gente
con troppe parole in un viavai frenetico.
Non sciuparla portandola in giro
in balía del quotidiano
gioco balordo degli incontri
e degli inviti,
fino a farne una stucchevole estranea”
Konstatinos Kavafis, Settantacinque poesie
E così siamo arrivati alla Quarta Nobile Verità del superamento della sofferenza. Ovvero quello che nel buddhismo si chiama Nobile Ottuplice Sentiero. In poche parole, il Buddha ha formulato un sistema articolato in otto punti che dovrebbe servirci come “ricetta” per attraversare paludi e tempeste interiori e approdare sani e salvi a una vita più piena e autentica.
Mi rendo conto che a un primo sguardo sembra tutto un po’ complesso e macchinoso, a partire dal vocabolario specifico che certo non aiuta. A questo si aggiunge la mania tutta indiana di catalogare, numerare, sistematizzare: è una tendenza che coinvolge anche tante altre scuole di pensiero nate e diffuse nel subcontinente indiano nel corso dei secoli.
Di fondo la mentalità indiana – quindi anche quella del buddhismo antico – tende al controllo e a razionalizzare tutto il possibile. Perciò lunghe liste di nomi, a loro volta suddivise in sotto-categorie e organizzate in macrogruppi e aree di analisi, per ottenere una mappa molto ordinata, almeno nelle intenzioni.
A prima vista, per noi principianti, tutto ciò assomiglia invece a uno svincolo autostradale molto ramificato e pieno di svolte e bivi, dove paradossalmente non è semplice orientarsi!
Ti invito a non pretendere di capire tutto a una prima lettura: prenditi il tempo di rileggere e pensarci su. Se c’è un aspetto positivo, nell’approccio alla consapevolezza formulato dal Buddha, è che lui per primo ti invita a non crederci, a valutare, ad applicarlo alla tua vita per vedere se funziona o ha potenzialità per farlo!1
Il Nobile Ottuplice Sentiero esorta a incamminarci verso il “risveglio” e a procedere attraverso otto aspetti di noi stessi. Possiamo cominciare da uno degli otto punti, senza un ordine preciso, sapendo che lavorare su una parte andrà a beneficio delle altre. Camminare nel Sentiero non significa necessariamente pensare che il risveglio sia la nostra meta; crearci una destinazione è un po’ un imbroglio della mente che ciascuno di noi produce per spingersi a procedere anche quando siamo stanchi o indecisi. A volte abbiamo bisogno di un motivo per muovere il passo successivo, come in quei cartoni animati in cui un asino viene attirato da una carota appesa a un bastone fissato alla sua stessa schiena. E perciò continua a camminare per acchiapparla.
Scopriamo, invece, che il solo fatto di metterci in discussione da questi otto punti di vista diversi cambia le cose. E cambia il modo in cui affrontiamo la vita. Camminare fa bene per il solo fatto di farlo, non tanto per il luogo in cui vogliamo arrivare, per quanto importante possa sembrare ai nostri occhi. Certamente le scuole di pensiero buddhiste individuano il nirvāṇa2 come fine ultimo dell’esistenza, per guadare il fiume impetuoso della vita e approdare al di là della sofferenza del caos samsarico. Ma alcune di queste scuole ammettono che la liberazione non va intesa come un affrancarsi dal saṃsāra, ma piuttosto come un fare la pace con il saṃsāra, nel saṃsāra.
Questo approccio cambia del tutto la prospettiva: non ci spinge a cercare la “versione migliore di noi stessi”, come spesso sentiamo dire. Ma ci aiuta a vedere che non c’è una versione migliore, c’è quello che siamo ora, in questo preciso momento, che è proprio tutto quello che possiamo avere o immaginare di essere, almeno nell’adesso.
Questa visione ci aiuta a considerare che forse, grazie a una serie di aggiustamenti al modo in cui viviamo e interpretiamo il mondo, possiamo realizzare di momento in momento la versione più autentica di noi stessi, che per forza di cose cambierà nel corso del tempo grazie a esperienze e fallimenti.
Ci siamo noi, con la nostra capacità di evolvere e maturare, di fare passi avanti (e passi indietro), con tutto quello che contengono. Ci sono i nostri passi sul sentiero della vita – che sia Ottuplice oppure no. Ma imparare a rilassarci proprio ora, senza aspettare che le cose siano migliori, né tanto meno perfette (senza farci condizionare dalle parti che ci sembrano sbagliate o non all’altezza delle aspettative), adottando un atteggiamento non violento nei nostri stessi confronti, ci aiuta a fare la pace con ciò che siamo in questo momento. E apre le porte a tutto quello che verrà.
La nostra capacità di risveglio, dunque, è proporzionale alla nostra capacità di accettazione, senza escludere l’allenamento alla presenza e alla consapevolezza, ma includendo i momenti brillanti e anche quelli difficili; il fango e anche il fiore di loto,3 la grazia e la miseria. Smettendo di rincorrere la versione migliore di chi dovremmo essere, per giungere ad abbracciare a cuore aperto chi siamo già – premessa necessaria per qualsiasi trasformazione. E superando la convinzione di doverci trasformare da bruco in farfalla per poter essere felici, quando si tratta di due aspetti diversi della medesima condizione, ugualmente necessari e perfetti in se stessi.

Per una Retta Visione occorre togliersi gli occhiali

La Retta Visione o Visione Completa4 è il punto di accesso all’Ottuplice Sentiero. Da qualche parte bisogna pur cominciare e decidere di farlo dal modo in cui vediamo le cose è molto significativo.
Abbiamo detto che, in linea generale, tutti e otto i passi del Sentiero s’integrano in senso olistico, ciascuno porta gli altri a uno sviluppo e viene sostenuto da questa integrazione. Ad alcune scuole, in verità (quelle Zen giapponesi in particolare), non interessa tanto la gradualità e il lavorare in modo integrato nel tempo, perché puntano al raggiungimento del nirvāṇa senza bisogno di grandi condizioni, ma con la comprensione diretta della realtà in modo immediato. Come uno schiocco di dita.
A maggior ragione il modo in cui vediamo le cose, al di là di come le cose accadono momento per momento, determina l’esperienza personale. Che per forza di cose è soggettiva. Mi sembra di sentire le obiezioni: ma come, cosa intendi dire? Che quello che vedo non è quello che vedo con i miei occhi e che sento con queste orecchie?
Ricordo una delle tante discussioni su questo argomento, dove l’interlocutore insisteva nel voler affermare che non c’erano altre versioni di quella situazione: la sua era una pura “constatazione” della realtà.
Sorrido mentre lo ricordo, anche perché ci sono davvero tanti studi sull’argomento – nulla di buddhista, piuttosto un insieme di ricerche sulla nostra psicologia, per esempio, sul funzionamento dei meccanismi cognitivi che ci tendono trappole continue nelle quali cadiamo spesso. I cosiddetti bias cognitivi o distorsioni della percezione che ci portano a trarre conclusioni (scambiate per constatazioni oggettive) che determinano poi i nostri comportamenti e le nostre decisioni.
Marc Williams e Danny Penman nel loro libro Metodo mind–fulness ci spiegano il modello di interpretazione cognitiva ABC.5
In cosa consiste? La A rappresenta ciò che accade, l’esperienza così come la potrebbe riprendere una telecamera che registra tutti i movimenti in un dato ambiente.
La lettera B rappresenta il nostro modo di raccontarci quello che accade. Una specie di film messo insieme a partire dalla registrazione.
La C rappresenta invece la nostra reazione emotiva, i pensieri e le sensazioni fisiche che ciascuno di noi prova di fronte a ciò che accade.
A: ciò che accade;
B: la nostra percezione soggettiva;
C: la nostra reazione emotiva.
Dentro a B stanno, dunque, le nostre proiezioni, credenze e abitudini reattive di una vita; molto spesso parte di queste convinzioni sono così radicate dentro all’inconscio che non le notiamo neppure, tanto ci identifichiamo con esse. A volte dentro a B si trovano le abitudini reattive che abbiamo ereditato dalla nostra famiglia o da un’intera società: rappresentano in qualche modo la nostra “normalità” di fronte alle difficoltà. E dato che troviamo normale reagire in un certo modo (perché accettato socialmente o perché abituale nella nostra famiglia), anche se i modi sono conflittuali o giudicanti li abbracciamo ugualmente.
Non vedendo i contenuti di pensiero reattivi e soggettivi, spesso pensiamo che C dipenda direttamente da A. Non siamo molto consapevoli che tra A e C c’è la nostra interpretazione soggettiva che distorce sensibilmente la registrazione dell’esperienza e ne fa un vero e proprio film… a volte persino un dramma! Di conseguenza attribuiamo ad A, cioè alle esperienze di vita, la responsabilità degli stati d’animo che viviamo. Se stiamo male è perché qualcuno ci ha feriti o delusi; se siamo felici è perché finalmente abbiamo ottenuto quello che volevamo. In una relazione lineare di causa-effetto in cui ciascuno di noi crede ciecamente alla proiezione del film, credendolo oggettivo, e gli attribuisce la responsabilità (la colpa o il merito) degli stati d’animo che genera.
Tutto questo è molto umano. Ma, come dice il maestro Thich Nhat Hanh, per fare in modo che le cose si rivelino ai nostri occhi dobbiamo abbandonare le nostre opinioni su di esse. Solo che non è così facile – non lo è neppure sapere che ciò che vediamo è soltanto la nostra opinione personale soggettiva, colorata dalle nostre paure, ristretta dal nostro senso di mancanza. Un’opinione soggettiva che spesso non coincide con quella altrui. E allora, chi ha ragione? Come facciamo a formulare una Retta Visione, se tutto ciò che vediamo è un riflesso di chi siamo? Come si fa a uscire dall’incantesimo?
Temo che non si possa uscire dall’incantesimo facilmente. La pratica di consapevolezza ci aiuta a lucidare lo specchio della coscienza in modo che il riflesso sia via via più nitido. Certamente servono pazienza e curiosità, due risorse che ciascuno di noi ha già e che, a volte, hanno bisogno di allenamento. Il senso di curiosità ci aiuta in quasi tutti gli aspetti della pratica di consapevolezza: quando sembra che le cose ristagnino, la curiosità le ravviva; quando ci sentiamo in un vicolo cieco, la curiosità ci apre a nuove possibilità e alla capacità di trovare nuove soluzioni creative. La curiosità mantiene lo sguardo fresco e stimola un ascolto più aperto e disponibile.
Del resto il senso di scoperta e la capacità di avventurarsi nell’ignoto è un tratto distintivo del genere umano. Le conquiste e le scoperte più entusiasmanti sono figlie della nostra capacità di abbandonare la riva sicura e uscire dalla zona di comfort delineata da tutto quello che conosciamo già (o che crediamo di conoscere).
Comunque si può dire che buona parte del corpus degli insegnamenti buddhisti – perlomeno di una parte delle scuole buddhiste – siano dedicati a una rieducazione della Retta Visione o Visione Completa. Proprio perché è la visione che determina l’esperienza nel suo dispiegarsi in pensieri, parole e azioni. È naturale, dunque, che si abbia cura particolare nel correggere e precisare il modo di vedere le cose, così da ridurre il più possibile l’errore – o, almeno, in modo da essere consapevoli dell’errore intrinseco in tutto ciò che è “esperienza reale”. Ma su questo argomento ci sarà modo di tornare più avanti.

Retta Intenzione, o come si dice, è il pensiero che conta

Il secondo passo degli otto del Sentiero è la Retta Intenzione. Cosa si intende per intenzione retta (o completa, piena)? Quando cominciamo un programma intensivo di otto settimane MBSR per la riduzione dello stress, la prima classe è dedicata, tra le altre cose, a fare il punto sulla Retta Intenzione. Se hai partecipato a questo corso, ricorderai che l’insegnante ti suggerisce di raccoglierti e riflettere per un momento su cosa ti ha portato a partecipare. Indipendentemente dal corso di mindfulness, qualsiasi sia l’azione di corpo, parola e mente che ciascuno di noi mette in campo momento per momento, ha alla base un’intenzione. A volte è chiara e palese; altre volte ci dobbiamo riflettere un po’ per farla emergere. Altre ancora ciò che ci muove nel profondo ci è sconosciuto e dobbiamo fare un grande sforzo per portarlo alla luce.
L’intenzione che precede l’azione è una sorta di motore interno. È ciò che orienta e spinge l’energia a manifestarsi in un certo modo. Non si tratta degli obiettivi che vogliamo ottenere dall’esperienza, ma della motivazione profonda che ci spinge. Non che avere obiettivi sia sbagliato, ma non necessariamente sono determinanti ai fini delle nostre azioni: quando abbiamo un’intenzione forte, agiamo in quella direzione a prescindere dal raggiungimento (immediato) degli obiettivi, che diventano secondari, come se fossero delle semplici conseguenze.
Se coltiviamo una visione retta, completa, è più facile capire ciò che ci spinge avanti. Ed è anche più facile mantenerci saldi anche quando le cose non vanno per il verso giusto. Se l’intenzione è autentica e corrisponde ai nostri bisogni più profondi, al desiderio di esprimerci come esseri umani, sarà più facile sostenerla anche quando non c’è corrispondenza con ciò che accade nella nostra vita.
Gli artisti ne sanno qualcosa: il bisogno di esprimersi e di creare è un motore potente che li spinge a cercare la realizzazione artistica, anche se molto spesso non è per niente facile. Anche se la società in cui viviamo non premia questo genere di aspirazione, nonostante la maggior parte di noi apprezzi espressioni artistiche come la musica, il cinema, la fotografia.
Ma basta fare un giro in libreria, nell’area dei volumi di psicologia motivazionale, per rendersi conto di quanti testi siano disponibili sull’argomento dell’intenzione. Pare che si punti molto sul potere dell’intenzione, così da creare un collegamento implicito tra ciò ch...

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