I. Il principe è il tutto
Li loro interessi per farli assoluti padroni dei libri e li rispetti perché il secolare debbe invigilare acciò non l’ottengano, se ben non appariscono a prima faccia, con leggiera considerazione si fanno manifesti. La materia de’ libri par cosa di poco momento perché tutta di parole; ma da quelle parole vengono le opinioni nel mondo che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì, ma che in conseguenza tirano seco eserciti armati.
Paolo Sarpi, Sopra l’Officio dell’Inquisizione (1613).
Assoluti padroni dei libri
Nello Stato veneziano la riflessione sui temi del controllo fu più articolata e approfondita che altrove. Inoltre, con molto anticipo rispetto ad ogni altro Stato italiano, si cercò di abbozzare una vera e propria politica dell’informazione, che può essere interessante studiare nel complesso delle sue implicazioni, poiché finì col fornire a lungo un modello di riferimento anche per altre legislazioni europee.
È bene anticipare che la sensibilità nei riguardi del movimento delle opinioni e del controllo sugli scritti fu precedente alla diffusione della Riforma protestante. Contò in questo aspetto l’interesse verso la funzione formativa della nuova arte tipografica nutrito fin dalla seconda metà del XV secolo da parte di quel patriziato intriso di cultura umanistica che pare abbia contribuito al primo radicarsi in Laguna di una vivacissima attività editoriale. Molto presto ci si rese però conto che la libera circolazione degli scritti alimentava opinioni diverse e che queste potevano incidere, sul piano interno, sull’azione di governo e, su quello esterno, sulla reputazione internazionale del governo stesso. Merita attenzione quanto scrisse nei suoi diari Girolamo Priuli nel 1509, nel concitato frangente della guerra contro la lega di Cambrai subito dopo la drammatica rotta di Agnadello. Secondo il diarista il danno che Venezia riceveva dai fogli volanti contenenti versi e scritture “in vergogna dela Republica” che circolavano “per tuto il mondo” era enorme. Aggiungeva che non appena qualcuno “publicava una nova” o si trovava a parlare degli affari di governo era immediato l’intervento dei Capi del Consiglio dei Dieci i quali ammonivano e imponevano il silenzio. Sicché – a suo parere – per timore del castigo “cadauno retiniva la lengua dentro li denti per paura”.
Non c’era voluta la spinta della Riforma protestante per animare i primi tentativi di abbozzare forme di controllo preventivo, del tutto svincolate da quelle ecclesiastiche e già nel 1517, in conseguenza probabilmente del trauma determinato dalla recente scomparsa di Aldo Manuzio, si era cercato di sottoporre tutti i libri di “umanità” al controllo preventivo del patrizio Andrea Navagero che avrebbe dovuto verificare la qualità dei testi e delle edizioni. L’affidamento di un simile incarico ad un patrizio colto concludeva l’età dell’oro della stampa veneziana, sintetizzata con straordinaria efficacia dall’ultima prefazione scritta nel 1515 dal cattolicissimo Aldo ad introduzione del De rerum natura di Lucrezio. Senza giri di parole il vecchio grande editore, pochi giorni prima di morire, affermava che si trattava di un poema zeppo di errori inaccettabili per un buon cattolico. Riteneva però che fosse straordinario sul piano letterario e dava quindi per scontato che solo questo bastasse a giustificare la sua pubblicazione. Il fatto che contrastasse con la fede di un buon cristiano non era motivo sufficiente ad escluderlo dalla lettura e dallo studio.
La predicazione di Lutero cambiò la rilevanza dei problemi in gioco. Dopo il 1517 non fu più la correzione dei testi umanistici la maggiore preoccupazione del governo veneziano, quanto quella di arginare e reprimere la diffusione dell’eresia e di costituire un proprio sistema di controllo che consentisse di non subire passivamente l’iniziativa della Chiesa di Roma. Dal 1527 in poi si successero quindi una serie di provvedimenti che, pur riflettendo le grandi tensioni religiose dell’epoca e risentendo di riflesso delle norme emanate a Roma, cercarono coerentemente di mantenere in mano laica il controllo sulla stampa, limitando a concedere alle richieste del papa uno spazio, di volta in volta ridiscusso. Non si intende ora seguire in dettaglio tali vicende, su cui esiste abbondante ed esauriente bibliografia. È però da segnalare il persistente interesse del patriziato verso la stampa e, più in specifico, verso l’elaborazione di forme di controllo di quelle manifestazioni culturali che potevano incidere nel campo dell’educazione dei giovani patrizi e della loro formazione alla politica. Ne costituiscono un esempio le attività di alcune celebri accademie cinquecentesche, non estranee all’ideazione di progetti di carattere editoriale con ambizioni enciclopediche. È il caso dell’Accademia Veneziana della Fama, promossa da Federico Badoer tra 1557 e 1561 e concepita sulla forma di un corpo umano che si reggeva su due piedi rappresentati uno dalla stamperia e l’altro dalla libreria. Erano appunto queste le colonne che ne sostenevano il progetto, che aveva tra le sue finalità anche quella di porre a stampa le leggi e i decreti della Repubblica.
Altre accademie successive – la Veneziana Seconda a fine Cinquecento e gli Incogniti in pieno Seicento – riproposero, anche se in maniera meno limpida, un disegno, culturale ed editoriale assieme, teso a sostenere l’ideologia repubblicana. Lo stampatore Ciotti faceva parte dell’Accademia Veneziana Seconda, mentre maturava l’idea di un tipografo ducale, non inteso come mero riproduttore di decreti e terminazioni da pubblicare, ma impegnato nella promozione attiva di scritti correlati alla politica culturale dello Stato. A scorrere la lista delle edizioni di Antonio Pinelli, stampatore ufficiale dal 1617, si può intravedere una linea editoriale che va al di là della riproduzione di parti ufficiali, piuttosto in sintonia con le posizioni del governo, con opere, tra gli altri, di Giovanni Francesco Biondi, Baldassare Bonifacio, Cornelio Frangipane, Tommaso Roccabella.
Che uno Stato moderno dovesse dotarsi di una politica culturale funzionale alla propria affermazione è del resto un concetto che si afferma con decisione nel corso del Cinquecento. La questione del controllo sulla stampa va dunque inquadrata in un contesto più ampio. Le vicende dell’università di Padova vanno in questa direzione. Sotto la spinta centralizzatrice del governo veneziano l’antico studio si avviò a superare il modello corporativo medioevale divenendo la prima università di Stato dell’Europa moderna. Dopo il 1520 in un unico palazzo “del tutto pubblico” – come recitava la delibera del Senato del 1545 – contraddistinto dall’emblema del leone di San Marco vennero raccolte tutte le scuole, sotto il controllo del governo veneziano. Nel 1591, inoltre, a seguito di vivaci discussioni, era stata disposta la chiusura del collegio istituito dai gesuiti a Padova, che aveva riscosso grande successo e che forse anche per questo minacciava il monopolio dell’istruzione universitaria di Stato. In quell’occasione Cesare Cremonini, lettore dello Studio che da allora per alcuni decenni fu il punto di riferimento filosofico del patriziato veneziano antiromano, aveva denunciato come eversiva l’istituzione di un vero e proprio “antistudio” che aveva lo scopo di attirare a sé gli studenti a scapito delle scuole “pubbliche”. L’università doveva invece rimanere sotto il fermo controllo del governo, che si sarebbe assunto la responsabilità di evitare che i gesuiti divenissero “in Padova monarchi del sapere”. Su tale linea si andò avanti con coerenza negli anni successivi. Nel 1616, per la prima volta in Europa, si istituiva una laurea di Stato che troncava i legami con le concezioni universalistiche degli studi medievali legati ai poteri del papa e dell’imperatore. Ma al tempo stesso si mirava a tutelare la vocazione cosmopolita dello studio padovano minacciata dai localismi e dal tentativo di imporre posizioni confessionali. Contro la richiesta di professione di fede per i dottorandi da parte delle autorità ecclesiastiche, il titolo “auctoritate veneta” consentiva l’accesso allo studio degli studenti non cattolici, ebrei e anche, implicitamente, protestanti.
Il processo di statalizzazione dello studio era avvenuto sotto la spinta e il controllo della nuova magistratura dei Riformatori dello Studio di Padova, la cui storia illustra perfettamente questa prospettiva. Istituita nel 1517 con lo scopo di occuparsi della riapertura dell’università dopo la chiusura determinata dalla guerra di Cambrai, si vide presto attribuire una serie di responsabilità crescenti nel campo della politica culturale: controllo sullo studio, nomine dei professori e degli storiografi pubblici, ma anche vigilanza sul sistema educativo, sulle accademie e le scuole, sulla stampa e la censura. Per quasi tre secoli i Riformatori dello Studio di Padova furono sempre scelti tra i patrizi di maggior prestigio destinati alle carriere più brillanti. È stato notato che “i rapporti di forza che caratterizzarono le diverse fasi della vita pubblica veneziana trovano un interessante riscontro nell’elenco dei Riformatori dello Studio di Padova”. Anzi “si ha l’impressione che questa fosse una delle cariche su cui la fazione di volta ...