Tristissimi giardini
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Tristissimi giardini

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Tristissimi giardini

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«Si ricordi che qui lavoriamo coi secondi, capisce, coi secondi! Arrivederci, aggiunge».«Una rotazione completa del tamburo rotante della betoniera intorno al suo asse: su questa unità di tempo è tarato lorologio degli umani e dei flussi relativi; o viceversa, in fondo la cosa ha poca importanza: animali, vegetali, persone, sentimenti, pensieri, ovvero merci e flussi di merci, e in definitiva tutto ciò che si muove in e per questo territorio, si regola sullo stesso metronomo, 'lavora con gli stessi secondi, o meglio, nel caso umano, ne ha limpressione; ma negli interstizi, nelle pieghe, nei bordi, negli spazi residui, abbandonati, ai margini, fuori dal flusso, un altro tempo lavora e così in ogni caso moriamo. Curioso: i luoghi in cui più intensamente se ne percepisce la presenza sono le fabbriche abbandonate. La prima impressione che si ricava, esplorando questi spazi, è che lì il tempo si sia improvvisamente fermato, ma naturalmente no, non è così, solo non scorre, non fluisce, soggiorna, abita il luogo, ne pervade latmosfera, si fa respirare, toccare, pensare, e nel mentre lavora, indifferente, con ostinata determinazione».

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Information

Year
2012
eBook ISBN
9788858102909

La lingua, ovvero: l’amore che ho per loro

Udito che Dante ebbe queste cose, le confessò vere et si partì; et io
mi restai tutto contento, parendomi di averlo sgannato. Non so già s’io mi sgannerò coloro che sono
sì poco conoscitori de’ beneficii ch’egl’hanno avuti da la nostra patria, che e’ vogliono accomunare con essa lei nella lingua Milano, Vinegia, Romagna, et tutte
le bestemmie di Lombardia.
Niccolò Machiavelli, Dialogo intorno alla nostra lingua
È così difficile parlare d’amore. Con l’amore è come con la batteria: forse lo strumento più facile da suonare male insieme alla chitarra, ma certo molto più fastidioso; e non solo nel senso del volume. Comunque, come detto all’inizio di questo sempre più caotico scritto, la sua propria lingua, cioè il suo dialetto, è l’unico posto in cui l’autore si senta davvero a casa. È davvero una grande grande e ancora più grande fortuna che esso sia ancora così vivo. E assolutamente non scritto. Quel che c’è di scritto non è rilevante: o è troppo basso – vedi il teatro popolare veneto e vicentino dell’Otto/Novecento; o è troppo alto – vedi Zanzotto, Bandini, Cecchinel e seguaci, che l’autore, per quanto faccia, non riesce a leggere, nel senso che rifiuta di decodificare la parola dialettale scritta. È un rifiuto profondo, direi inconscio, se credessi all’inconscio. Comunque, anche qui, molto si lega alla sua, cioè mia, anacronistica coscienza di classe: la lingua di mia madre e di mio padre, dei miei nonni, non ha niente a che fare con la scrittura. Non si impara sui libri, né possono in nessun modo insegnarla i professori che pensano di scriverla. Già il fatto che la pensino non funziona. Il dialetto è cultura orale, che non contempla la teoria, ed è tale il repertorio di gesti, atteggiamenti, linee melodiche dei movimenti, per non parlare del ritmo, come sempre così fondamentale, e, in questo caso, così attinente ai suoi modi di pronuncia, di costruzione della frase, e tutto così profondamente legato alla parola, che mettere sulla carta solo quest’ultima mi sembra sempre fuori luogo. Al massimo ci sono appunto le parole, ma non c’è la lingua, cioè non c’è il corpo, e un dialetto solo sulla carta, senza corpo, si spegne. E più è intellettualizzato, cioè più pretende di essere alto, più è inerte e, per quanto mi riguarda, privo di conseguenze.
Intollerabile è invece questo continuo richiamo politico – richiamo nel senso venatorio, a una non meglio identificata lingua veneta, in nome della quale, tanto per fare un esempio cogente, tratto da una recente delibera della Giunta regionale del Veneto, si elargiscono 100.000 euro – in lettere: euro centomila/00 – a un ente teatrale, più o meno stabile, per realizzare una versione della Bisbetica domata di Shakespeare in lingua veneta, senza peraltro specificare quale.
La lingua veneta! Ecco un altro di quei prodotti totalmente virtuali ai quali l’attuale mercato politico, nel senso proprio di marketing politico, fa continuamente riferimento. Queste parole astratte che riempiono la lingua della politica, e di cui i politici fanno uso in ogni momento e in ogni occasione, senza peraltro mai collegarle a qualcosa di concreto, di particolare, risultano del resto perfettamente funzionali agli scopi, cioè acquisizione e mantenimento del potere, rispetto a una maggioranza di consumatori/elettori ormai così assuefatta al costante bombardamento mediatico, che è in realtà sempre una tele-vendita – qualsiasi sia l’argomento, nel momento in cui passa per i media esso è intrinsecamente una merce –, e così abituata a non pensare, a non farsi troppe domande, a prendere per reale qualcosa che non c’è, che neanche dopo una bastonata sulla testa si rende conto che ciò di cui si stava parlando, che ha votato, che ha magari anche comprato, su cui aveva puntato tutti i suoi risparmi, non esiste, non è mai esistito, anzi: ora che esiste è un negativo, un segno meno, cosa del resto comune a tutti i prodotti astratti i quali, e la recente cosiddetta crisi del mercato finanziario lo ha dimostrato, se acquistano realtà, è sempre una realtà negativa, perché non avendo questi prodotti materia, nel momento in cui qualcuno o qualcosa da essi la esige, cioè nel momento in cui il mercato la esige, da qualche parte la si deve trovare, e siccome il prodotto materialmente non c’è, ecco che il consumatore si ritrova consumato. Ma è inutile: non ci sono teste. Lo dimostra proprio il fatto che la scoperta di una serie di truffe di dimensioni colossali, portata avanti per anni con complicità internazionali di alto, altissimo e massimo livello, compreso quello governativo, si passi per una semplice «crisi del mercato finanziario», accettando così implicitamente che sia questo il suo normale funzionamento. Come diceva giustamente Tocqueville: «Una parola astratta è come una scatola a doppio fondo: vi si mettono le idee che si vogliono, e le si tira fuori senza che nessuno se ne avveda»1.
La valorizzazione della lingua e della cultura veneta! Possibilmente ai ferri con due fette di polenta, è questa più o meno l’idea.
Quale cultura? Che lingua? Veneziano? Trevigiano? Veronese? Vicentino? E se fosse vicentino, che vicentino? Quello che si parla all’ombra delle mura, esangue e moribondo, ridotto ormai a poco più che una cadenza, o quello più melodico, e ben più vivo, che comincia a farsi sentire da Malo in su?
Malo. Meneghello. Un altro fantasma che appare spesso. È inevitabile: qui è pieno di fantasmi.

Libera nos

Li ho incontrati tutti piuttosto tardi. Personalmente solo uno. Naturalmente non ricordo l’anno, ma era il quarantennale di Libera nos a Malo, e fui chiamato a leggerne due brevi capitoli, nell’ambito di una rassegna di letture pubbliche che prevedeva la lettura completa del classico in oggetto, dislocate in vari punti del paese di Malo, alla presenza dell’autore Luigi Meneghello. Naturalmente si dava per scontato che l’autore, in questo caso quello chiamato a leggere, avesse già letto il libro in questione. Succede spesso: uno scrive, e si presume che abbia letto tutto, o perlomeno i cosiddetti classici, veri o presunti, cioè quei libri che tutti dicono, o fanno intendere, di aver letto. Se poi trattasi di scrittore vicentino, denominazione di origine che ricorre, nel caso di chi scrive, quando su di lui si scrive, con inquietante regolarità, due volte ci si aspetta che lui o lei, in questo caso io, abbia letto il classico in questione. Che naturalmente non avevo letto. Una buona occasione per leggerlo. Niente da fare: nonostante la buona volontà riuscii giusto a leggere i due brevi capitoli che mi erano stati assegnati. E siccome prima della lettura era previsto che il lettore dicesse qualcosa sul famoso libro, mi trovavo di fronte a uno di quei dilemmi etici che inevitabilmente si presentano, semplicemente vivendo, a chiunque, e che ognuno risolve, o non risolve, o ignora, a piacer suo. In questo caso: fingere di aver letto e dire due parole di circostanza?, o ammettere di non averlo letto e, a questo punto, spiegare perché si era accettato di leggere pubblicamente un libro che non si era letto in privato, per celebrarne l’autore, che non si conosceva né personalmente, né attraverso l’opera? Del tutto inaspettatamente, mi venne in aiuto Henry James, e dico inaspettatamente perché, ora che ci penso, arrivai a James attraverso Flaubert, nel senso che, nell’edizione di Madame Bovary che avevo acquistato proprio in quel periodo, su consiglio di una cattiva ragazzaXXXIX, il romanzo era preceduto da una prefazione che, essendo appunto di Henry James, anziché ignorare, come faccio di solito, lessi attentamente. Una grande fede e nessuna speranza: si può dire che sia questo l’atteggiamento dell’autore in rapporto alla sua idea di letteratura. Ma è pur vero che a volte qualcosa arriva:
Per Malo, alcuni appunti:
Assistiamo – dal presente verso il passato certo, e mai, ahimè, dal passato verso il futuro – alla crescita inesorabile di un classico.
Il riconoscimento viene attraverso un processo lento e poco appariscente, dal fatto che, uno dopo l’altro, in privato, alcuni lettori particolarmente intelligenti scoprono, a loro comodo, che il libro è raro. L’accumularsi di lettori intelligenti non è cosa che richieda poco tempo, e sarebbe del tutto inutile se essi – mentre molti libri, assai più celebrati, vanno e vengono – non arrivassero, alla fine, a unirsi e contare.
Henry James, Gustave Flaubert
Libera nos è un classico, nel senso che è un libro conosciuto anche da chi, come chi scrive, non lo ha letto.
È un classico di tipo particolare: l’autore è vivente.
Contestualizzare H.J.: il tempo, ai suoi tempi, correva sì, ma più lento, meno veloce di quanto non corra «ai nostri tempi», dunque il processo di accumulazione di teste intelligenti è più rapido. Ecco, si può dire che, leggendo queste pagine...
Personalmente, non mi considero neanche un lettore, e tantomeno un lettore intelligente. Le mie letture sono finalizzate al furto. Rubare a un autore vivente, per di più della mia stessa zona, sarebbe imbarazzante, e del resto non ho letto neanche Piovene e Parise e Rigoni Stern...XL
Così, grazie a Henry James, riuscii a trarmi d’impaccio e a fare il mio piccolo discorso su Libera nos a Malo senza dover mentire, o, peggio, senza dover tacere il fatto di non averlo letto. Ci sono casi in cui tacere e non dire, sapendo bene che il nostro silenzio sarà frainteso, e sapendo anche in che senso sarà frainteso, è, per l’autore, più grave ancora che mentire; sarà che ha molto a che fare con il potere, e soprattutto ha molto a che fare con l’atteggiamento che esso assume da queste parti, così riconoscibile nei modi, nei gesti e nei furbeschi silenzi di chi lo esercita, che non dice mai no a niente, ma che non dice neanche sì a qualcosa, che tace, lascia intendere e, democristianamente, se ne lava le mani. Ma, rileggendo ora quegli appunti, mi rendo conto che non mi sarebbe più possibile salvarmi. Prima di tutto non sono più sicuro che un qualsiasi libro, compreso quello in oggetto, possa essere chiamato classico in tempi così brevi. È vero che, ai nostri giorni, la velocità con cui il tempo scorre non è la stessa di quando scriveva James, ed è vero anche che la quantità di lettori è spaventosamente aumentata, ma, ciò nonostante, il tempo necessario affinché si realizzi quell’accumulazione di letture particolarmente intelligenti, condizi...

Table of contents

  1. Avvertenza
  2. L’autore a chi legge
  3. Periferia diffusa
  4. Tristissimi giardini
  5. Frammenti sulla vecchiaia
  6. Rifacimenti
  7. Centro
  8. Assurdo teatro
  9. La lingua, ovvero: l’amore che ho per loro