La battaglia
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La battaglia

Storia di Waterloo

Alessandro Barbero

  1. 410 pages
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La battaglia

Storia di Waterloo

Alessandro Barbero

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Uno straordinario libro scritto da uno degli intellettuali più interessanti d'Italia. Barbero, storico e romanziere, scrive romanzi che sono anche saggi storici. Franco CardiniSul campo di battaglia, in mezzo alle truppe: anche se la narrazione è dettagliata e i personaggi numerosi, non ci si stanca di leggere Barbero, che sa molto raccontare. Aurelio LepreLa prosa di Barbero avvince il lettore. Lucio VillariUna ricostruzione magistrale. Il rigore e il talento di Alessandro Barbero fanno di La battaglia un libro unico, che ci porta, come in un film, nel cuore dell'ultima battaglia di Napoleone. "Il Venerdì di Repubblica"

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Information

Year
2013
ISBN
9788858109496

Parte seconda. «Sarà facile come far colazione»

12. «Pochissimi di noi saranno ancora vivi stasera»

Cominciava appena a far giorno. In un raggio di pochi chilometri, quasi 150 mila uomini lividi per il freddo, con addosso divise umide i cui colori avevano già cominciato a stingere, con la barba non rasata da diversi giorni e incrostati di fango da capo a piedi, si affaccendavano intorno agli avanzi dei falò spenti dalla pioggia, cercando di ravvivare un po’ di fuoco fra le braci. Tutto il legno, la paglia e l’acqua che si erano potuti trovare nei villaggi e nelle fattorie della zona, demolendo steccati, porte e finestre e svuotando stalle e fienili, erano già stati convogliati verso i bivacchi. Pian piano il sangue ricominciava a circolare nelle membra, e anche i molti che s’erano svegliati anchilosati per il freddo e incapaci di muoversi riuscivano un po’ per volta a rimettersi in piedi. Dappertutto echeggiava un crepitio di spari isolati, che ai vecchi soldati ricordava il rumore d’un combattimento d’avamposti: gli uomini, dopo aver asciugato e pulito le canne e le pietre focaie dei loro moschetti, li rimettevano in funzione sparando un colpo, per essere sicuri che fossero di nuovo utilizzabili. Le condizioni igieniche dovevano essere spaventevoli, eppure sappiamo che molti, forse più di quello che accadrebbe oggi, approfittarono di quelle prime ore di luce per farsi la barba e magari anche indossare una camicia pulita: «perché ai soldati», come osservò un ufficiale francese, «non piace combattere quando sono sporchi».
Il capitano Verner, del 7° Ussari, aveva trascorso tutta la notte in sella col suo squadrone, in un campo di segala così alta che i cavalli quasi vi sparivano, per coprire da quella posizione avanzata il fianco destro dell’esercito alleato. La sera prima, quando gli avevano affidato quella responsabilità, il capitano non si era sentito per niente soddisfatto, perché durante la ritirata da Quatre Bras i suoi uomini erano stati duramente impegnati; ma ovviamente aveva obbedito senza discutere, seguendo il sergente maggiore del reggimento, nel buio pesto della notte, fino al luogo in cui doveva prendere posizione il picchetto. Dopo essere rimasti lì tutta la notte, con i cavalli che affondavano nel fango fino al ginocchio e la pioggia che entrava negli stivali, gli ussari si accorsero alla prima luce che il luogo dove si trovavano era solo a pochi metri di distanza dalla prima linea, e dunque la loro veglia notturna era stata perfettamente inutile. Verner testimonia che nemmeno nei momenti più duri della guerra in Spagna aveva visto i suoi uomini così stanchi e depressi.
Al centro dello schieramento di Wellington, i reggimenti della brigata di Sir Colin Halkett stavano cercando di scuotersi dal torpore notturno. Gli uomini del 30° non avevano più mangiato niente di caldo da tre giorni; il giorno prima avevano cominciato a cuocere il rancio durante una sosta nella ritirata, ma quasi subito la marcia era ricominciata in gran fretta, e la zuppa e la carne erano state buttate nei campi. Da allora in poi i carri dei rifornimenti non erano più arrivati fino a loro, sicché tutti quanti avevano dovuto affrontare la notte senza niente da mangiare, tranne gli avanzi del chilo e mezzo di pane che era stato distribuito due giorni prima. Al mattino, gli ufficiali del reggimento si accorsero che i loro uomini, quasi tutti novellini senza nessuna esperienza che erano andati al fuoco per la prima volta a Quatre Bras, erano «quasi pietrificati dal freddo; molti non riuscivano a stare in piedi, e qualcuno era del tutto istupidito».
Il generale Desales, comandante dell’artiglieria del I corpo, aveva ceduto il suo alloggio al suo superiore, il conte d’Erlon, e perciò aveva passato la notte al bivacco. Quando finalmente smise di piovere, verso l’alba, era bagnato fino all’osso. Aveva una gran voglia di cambiarsi e indossare biancheria asciutta; aggirandosi in mezzo ai vagoni dell’artiglieria trovò una carrozza aperta e abbandonata, e senza perdere tempo ci entrò per spogliarsi, rivestendosi con quel che c’era ancora di asciutto nei suoi bagagli. Famoso per aver costruito a tempo di record i ponti sul Danubio durante la campagna di Wagram, ciò che gli era valso il titolo di barone e quattromila franchi di rendita, Desales, come molti altri ufficiali, s’era adattato abbastanza bene al ritorno dei Borboni nel 1814; dopo tutto era nato a Versailles, e suo padre era un antico servitore di casa reale. «Avevo succhiato col latte l’amore dei Borboni, e del resto da bambino li vedevo tutti i giorni». Il ritorno inatteso di Napoleone e la partenza precipitosa di Luigi XVIII lo avevano convinto a presentarsi all’imperatore e chiedergli di rientrare al suo servizio, purché gli fosse riconosciuto il grado di generale che aveva ottenuto dopo l’abdicazione. Napoleone, che aveva un gran bisogno di tecnici, glielo confermò; e ora Desales era lì, al comando dei quarantasei cannoni del I corpo, a scrutare il cielo per capire se davvero la giornata sarebbe stata migliore di quella precedente.
All’estrema sinistra della linea alleata, sul crinale dietro la fattoria della Papelotte, i tre reggimenti di ussari della brigata di Sir Hussey Vivian si rimettevano faticosamente in ordine, dopo una notte disastrosa in cui i loro cavalli, spaventati dai tuoni e dai lampi, avevano impedito a tutti quanti di chiudere occhio. Gli ufficiali del 10° Ussari si rifugiarono in una casa di contadini, e lì, interamente nudi, fecero asciugare le divise al fuoco del camino. Il reggimento aveva come colonnello onorario il Principe Reggente, ed era in quel momento un reggimento di gran moda, noto alle malelingue londinesi come «the Prince’s Dolls», le Bambole del Principe; perciò la compagnia era scelta, e comprendeva il figlio del duca di Rutland, il figlio del conte di Carlisle, e i nipoti di altri quattro lords. Ma si conoscevano appena, perché erano tutti nuovi: l’anno prima il colonnello George Quentin era stato mandato alla corte marziale coll’accusa di codardia davanti al nemico, e gli ufficiali del reggimento, che avevano tutti quanti sostenuto l’accusa, erano stati trasferiti in massa dopo la sua assoluzione. Anche fra i nuovi ufficiali il colonnello non era esattamente popolare: al momento di rivestirsi uno di loro, il capitano Wood, si accorse con soddisfazione che «il vecchio Quentin» si era bruciato la suola degli stivali e non riusciva più a infilarseli.
Nel castello di Hougoumont il soldato Matthew Clay, del 3° Foot Guards, si mise a frugare gli edifici abbandonati il giorno prima da padroni e contadini, alla ricerca di qualcosa da mangiare. Trovò un pezzo di pane raffermo e una casseruola dove era stata messa a bollire una testa di maiale; ma la carne non aveva finito di cuocere, ed era così ripugnante che Clay rinunciò ad assaggiarla. Quando ebbe consumato il pane pensò a rimettersi in ordine; come tutti era fradicio fino alle ossa, ma il giorno prima, passando accanto al corpo d’un soldato tedesco morto, era stato così previdente da spogliarlo e prendersi la sua biancheria, così adesso era almeno in grado di mettersi addosso qualcosa di asciutto. Quando si fu cambiato la camicia e le mutande, ci infilò sopra la giubba scarlatta ancora umida, e se ne andò a cercare un po’ di paglia, per sedersi all’asciutto in attesa di ordini.
Gli uomini dell’85° di linea1 avevano passato la notte in mezzo al fango, senza nessun riparo dalla pioggia. Il reggimento era stato costituito nei porti normanni di Granville e Cherbourg, e perciò comprendeva un gran numero di ex prigionieri di guerra, catturati in Spagna e reduci dagli infernali pontoni galleggianti su cui gli inglesi segregavano i loro prigionieri. Il capitano Chapuis era sicuro che tutti costoro non vedevano l’ora di venire alle mani con gli Inglisman e saldare i conti per le vessazioni subite, ed erano disposti a farsi ammazzare piuttosto che cadere un’altra volta in prigionia. Quel mattino però, guardandosi intorno, il capitano ritrovò ben poco dello spirito combattivo con cui l’85° era partito per la guerra: al momento dell’appello, il cupo silenzio che regnava nei ranghi dimostrò che dopo una notte come quella gli uomini erano svuotati, e avrebbero avuto bisogno di qualche ora di vero riposo prima di poter marciare contro il nemico.
Sir Augustus Frazer, comandante dell’artiglieria a cavallo, aveva dormito sotto un tetto nel villaggio di Waterloo, e si sentiva abbastanza in forma. Alle prime luci dell’alba sedette a scrivere una lunga lettera alla moglie, raccontando quel che era accaduto a Quatre Bras e cercando di immaginare cosa sarebbe successo quel giorno. Sotto il tono fiducioso e tranquillo traspare a tratti l’angoscia per le perdite subite nei giorni precedenti. «Abbiamo portato in salvo tutti i nostri feriti, tranne quelli che saranno rimasti in mezzo al grano alto senza che nessuno li trovasse. Poveracci! È in queste scene, non nel combattimento vero e proprio, che si vede la miseria della guerra. La notte scorsa ho visto Henry Macleod, non ha più febbre né dolori, e si sta rimettendo. Ha tre ferite di lancia nel fianco, una scorticatura in testa, e una contusione alla spalla. Il povero Cameron mi dicono è morto, ma non voglio crederci. Addio. In mezzo a tutte queste strane scene il mio spirito è con te, ma è tranquillo e composto, e non c’è motivo per cui non debba essere così. Andrà tutto molto bene. Dio ti benedica».
Nella batteria del capitano Mercer, un caporale mandato in cerca di munizioni era appena tornato con un carro carico di viveri. Distribuito e bevuto sul posto il rum, i cannonieri avevano messo a bollire la farina d’avena e preparato un porridge improvvisato, che chiamavano in gergo «tiramisù». Mercer, constatando che c’era anche della carne, rifiutò di mangiare quella roba e diede ordine di cuocere la zuppa. Mentre aspettavano che il rancio fosse pronto, anche i suoi ufficiali si chiedevano che cosa sarebbe accaduto quel mattino. Nessuno poteva escludere che fra poco l’esercito avrebbe ricominciato la ritirata, esattamente com’era successo il giorno prima, ancora incalzato dai francesi lungo la chaussée che portava a nord. Poiché non aveva niente da fare, Mercer andò a passeggio fra i bivacchi della cavalleria, ascoltando le chiacchiere degli uomini. «Qualcuno pensava che i francesi avessero paura di attaccarci, altri invece che l’avrebbero fatto presto; qualcuno che il duca non avrebbe aspettato l’attacco, altri invece sì, perché certamente non gli avrebbe permesso di andare a Bruxelles». Dopo un po’ il capitano se ne tornò alla sua batteria, sperando che la minestra fosse pronta; solo per scoprire che era arrivato il momento di muoversi, e i soldati avevano buttato via tutto.
Un po’ più indietro, i fucilieri del 2/95° avevano avuto il permesso di saccheggiare le fattorie dei dintorni, e stavano facendo a pezzi tutto ciò che era di legno per asciugare i vestiti vicino al fuoco, oltre a scannare e cuocere il poco bestiame che i contadini avevano lasciato indietro. Alcuni fucilieri, entrando nel cortile d’una fattoria, ci trovarono uno dei loro compagni, morto, e conclusero immediatamente che era stato avvelenato, anche se è più probabile che si fosse semplicemente ammazzato bevendo troppa acquavite. Fuori di sé per la rabbia, i fucilieri cominciarono a distruggere sistematicamente tutto ciò che si trovava nella fattoria; scesi in cantina, sfondarono le botti e riempirono di vino le borracce. Poi, siccome il morto apparteneva a una compagnia appena arrivata dall’Inghilterra, e vestita con uniformi nuove, mentre la loro si trovava nelle Fiandre da più di un anno e le loro uniformi erano ridotte in stracci, pensarono bene di denudare il cadavere e si spartirono i suoi capi di vestiario.
Nei campi presso la Belle Alliance, i soldati del 28° di linea avevano finito di smontare i fucili per asciugarli, ingrassarli e cambiare le pietre focaie, e si stavano preparando da mangiare. La sera prima, battendo la zona, s’erano impadroniti di una pecora, ed erano stati abbastanza previdenti da tenerla in serbo per l’indomani. Ora uno dei caporali, che prima di arruolarsi era stato garzone macellaio, macellò la bestia, la scuoiò e la tagliò a pezzi; dopodiché la carne fu messa a bollire insieme a una certa quantità di farina, che il caporale Canler aveva trovato chissà dove. Appena diciottenne, Canler non aveva mai conosciuto altra vita che quella dell’esercito: figlio d’un soldato, era vissuto con lui al campo, e a quattordici anni si era arruolato come tamburino. Benché avesse mangiato molte cattive zuppe, notò che quella era particolarmente disgustosa, perché non c’era sale, e il cuciniere aveva pensato bene di insaporirla con un pugno di polvere da sparo. Tuttavia la gente era talmente affamata che ne mangiarono tutti, e anche il capitano e il sottotenente della compagnia vennero a reclamare la loro parte.
Alle spalle del 73° reggimento si era fermato un vagone dell’intendenza carico di acquavite, e due uomini per ogni compagnia erano andati a fare rifornimento. Il granatiere Morris era uno di loro, e mentre aspettava il suo turno gli mostrarono un erculeo cavaliere delle Life Guards che si faceva largo e tracannava una gran quantità di liquore; Morris lo osservò con ammirazione, perché era il famoso Shaw, uno dei più forti pugili d’Inghilterra. Tornato alla sua compagnia, Morris scoprì che la razione di acquavite era stata calcolata per tutti gli uomini segnati sui ruoli, senza tener conto di quelli che erano stati uccisi o erano finiti in ospedale dopo la carneficina di Quatre Bras; sicché dopo aver finito la distribuzione se ne ritrovò una buona quantità avanzata. Morris, che non aveva ancora vent’anni, e il sergente Burton, che ne aveva più di cinquanta, approfittarono dell’occasione per prepararsi una doppia razione di grog, e Burton ordinò al compagno di tenere da parte un po’ di acquavite per dopo la battaglia. Morris pensava che non ne valesse la pena: «Pochissimi di noi saranno ancora vivi stasera», obiettò. Ma il vecchio sergente aveva un felice presentimento: «Tom, te lo dico io com’è, non hanno ancora fabbricato la pallottola né per te né per me».
Non lontano dalla Haye Sainte, il conte di Uxbridge osservò gli avanzi di una capanna che i fucilieri del 1/95° avevano cominciato a demolire la sera prima, alimentando il fuoco con la paglia del tetto; ma il comandante del battaglione, Sir Andrew Barnard, aveva impedito che fosse abbattuta, per la buona ragione che intendeva passarci la notte. (Sir Andrew era uno cui piaceva vivere bene: si portava dietro un cuoco francese, fatto prigioniero a Salamanca, ed era capace di bere tranquillamente a cena tre bottiglie di vino; del resto era uno degli ufficiali più popolari dell’esercito). Dal tetto della capanna, di cui era rimasta solo l’armatura di travi, saliva un filo di fumo e lord Uxbridge vi entrò, deducendo che lì c’era qualcosa di caldo. Infatti ci trovò Sir Andrew e i suoi ufficiali che facevano il tè, e ne bevve una tazza con loro: degnazione che impressionò grandemente gli ufficiali più giovani, provenendo da un così gran personaggio. Quel tè rimase impresso nella memoria di molti: il capitano Kincaid, aiutante del battaglione, che svegliandosi quel mattino non aveva più trovato la sua cavalla e aveva dovuto passare un’ora a sguazzare nel fango prima di ritrovarla in mezzo ai ronzini dell’artiglieria, ricordava con gratitudine la marmitta che bolliva sul fuoco, in cui erano stati versati latte e zucchero in abbondanza, e da cui in quelle prime ore della giornata «quasi tutti i pezzi grossi dell’esercito, dal duca in giù, vennero a prendersi la loro tazza».
Erano già le sette del mattino quando il maggiore von Bornstedt, comandante d’un battaglione del 1° Kurmark Landwehr2, arrivò con i suoi uomini esausti ai bivacchi preparati per loro sulla riva del fiume Dyle, presso Wavre. Gli uomini, che appartenevano al III corpo d’armata di Thielemann, avevano marciato non solo per tutto il giorno precedente, ma per tutta la notte, sostenendo diversi combattimenti con le pattuglie più avanzate del nemico, perché il battaglione costituiva la retroguardia dell’intero esercito prussiano. Mentre marciavano s’erano inzuppati di pioggia, come tutti, e non avevano mai avuto il tempo di fermarsi a mangiare; ora, finalmente, vennero distribuiti pane e acquavite. Gli uomini erano pronti a stramazzare al suolo per strappare finalmente qualche ora di sonno, ma il maggiore pretese che per prima cosa pulissero e asciugassero i fucili, perché potevano essere attaccati da un momento all’altro; e i soldati, pur brontolando, capirono che aveva ragione.
Il maggiore von Witowsky, con una pattuglia del 6° Ussari, era stato mandato fin da prima dell’alba a esplorare le strade che il corpo di Bülow avrebbe dovuto percorrere quel mattino per raggiungere Waterloo. Più che strade erano piste, riempite di fango dalle piogge dei giorni precedenti; i due corsi d’acqua che sbarravano la strada, la Dyle e la Lasne, erano torbidi e ingrossati, e potevano essere superati solo in corrispondenza dei rari ponti, mentre c’era poco da fidarsi dei guadi; ma queste cattive notizie erano largamente riscattate dalla stupefacente assenza del nemico. Se la cavalleria francese stava cercando i prussiani, non li stava cercando lì: quando gli slesiani e i polacchi che costituivano la pattuglia di Witowsky vennero per la prima volta a contatto con una pattuglia nemica, erano già in vista del campanile di Maransart, quasi alle spalle dell’ignara ala destra francese. Altri ufficiali prussiani, mandati fuori con la stessa missione, stavano giungendo in quelle ore all’identica conclusione: di lì a poco i loro rapporti avrebbero cominciato a raggiungere la testa delle colonne di Bülow, con l’informazione vitale che la strada era libera.
Cartina strategica.
Tav. 5. Percorso di von Bülow.

13. La colazione dell’imperatore

Era già chiaro da diverse ore, quando un ufficiale proveniente dagli avamposti giunse a Le Caillou e riferì a Napoleone che, a giudicare dalle apparenze, il nemico stava ripiegando. L’imperatore, elettrizzato, smise di occuparsi della corrispondenza parigina e dettò una nota frettolosa per il comandante del I corpo, ordinandogli di mettersi immediatamente all’inseguimento; poi fece sellare i cavalli e montò in sella, per andare a controllare di persona quel che stava succedendo sulla linea dei bivacchi. Ma quando l’imperatore raggiunse d’Erlon, scoprì che le sue truppe non si erano mosse: secondo il generale, il nemico davanti a lui non si stava affatto ritirando, e gli unici movimenti visibili erano di reparti in marcia per andare a occupare le posizioni di battaglia. Napoleone non era convinto e volle verificare coi suoi occhi; giunti agli avamposti, lui e d’Erlon smontarono, per non offrire un bersaglio troppo vistoso a qualche sentinella nemica, e osservarono col cannocchiale quel che stava succedendo sulla cresta di Mont-Saint-Jean. L’imperatore non tardò a convincersi che il generale aveva ragione, e che l’esercito di Wellington stava prendendo posizione per resistere all’attacco. «Ordinate agli uomini di cuocere la zuppa e di mettere in ordine le armi, e verso mezzogiorno vedremo», stabilì Napoleone.
Mezzogiorno può sembrare molto tardi, ma l’imperatore aveva i suoi motivi per prendersela comoda. Una buona metà del suo esercito era stata costretta a bivaccare molto indietro rispetto alla posizione della Belle Alliance, e aveva bisogno di diverse ore per portarsi in linea: l’avanguardia del II corpo sarebbe giunta a Le Caillou non prima delle nove. Se poi ricordiamo che il terreno, fangoso per tutta l’acqua che era caduta nelle ultime ventiquattr’ore, non permetteva la manovra della cavalleria né soprattutto dell’artiglieria, che si spostava sempre con grande fatica in mezzo ai campi, è facile capire perché l’imperatore, avendo davanti a sé un’intera, lunghissima giornata di giugno, e un sole che in poche ore avrebbe asciugato il terreno, non avesse nessuna fretta di incominciare. Così se ne tornò a Le Caillou, e invitò d’Erlon a fare colazione con lui.
La colazione à la fourchette venne servita nella massiccia argenteria del servizio imperiale. All’epoca, era uno spuntino decisamente sostanzioso, con carne fredda e vino, per gente che era già in piedi da parecchie ore e non poteva certo accontentarsi d’un caffelatte. Mentre le truppe che erano già in linea pulivano i fuci...

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Barbero, Alessandro. (2013) 2013. La Battaglia. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3459717/la-battaglia-storia-di-waterloo-pdf.

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Barbero, A. (2013) La battaglia. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3459717/la-battaglia-storia-di-waterloo-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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