L'Europa nel vortice
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L'Europa nel vortice

Dal 1950 a oggi

Ian Kershaw, Giovanni Ferrara degli Uberti

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L'Europa nel vortice

Dal 1950 a oggi

Ian Kershaw, Giovanni Ferrara degli Uberti

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Dopo gli orrori della prima metà del XX secolo, gli anni compresi tra il 1950 e il 2017 sono stati un periodo di pace e di relativa prosperità per gran parte dell'Europa. Una seconda rivoluzione industriale ha trasformato il continente. La catastrofica era della 'guerra civile europea' e dei due conflitti mondiali è sembrata svanire in un passato lontano. Come ha fatto l'Europa a lasciarsi alle spalle le macerie di due guerre e a costruire la più duratura pace della sua storia?

Dopo il successo di All'inferno e ritorno, Ian Kershaw, uno dei maggiori storici contemporanei, prosegue il suo viaggio nella storia del nostro continente nel '900. Un affresco che ricostruisce il mondo in cui viviamo e le sue origini. Un libro che ci fa scoprire cosa vuole dire essere 'europei'.

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Information

Year
2022
ISBN
9788858148730

1.
Una divisione carica di tensione

Se la bomba atomica si fosse dimostrata un oggetto così a buon mercato e così facile da fabbricare come una sveglia,
avrebbe potuto benissimo ripiombarci nella barbarie;
ma d’altro canto avrebbe potuto significare la fine
della sovranità nazionale e dell’ipercentralizzato Stato
di polizia. Se, come sembra stiano le cose, è un oggetto altrettanto costoso e altrettanto difficile da produrre
di una corazzata, è più probabile che metta fine alle guerre su grande scala al prezzo di prolungare indefinitamente
una «pace che non è una pace».
George Orwell, You and the Atomic Bomb,
in «Tribune», 19 ottobre 1945
Nel 1950 la fase dell’immediato dopoguerra andava esaurendosi; e a questo punto era ormai emersa una nuova Europa, tagliata in due sul terreno ideologico, politico e socioeconomico. Era l’inizio di un’epoca del tutto inedita nella storia del continente, caratterizzata da un’insicurezza senza precedenti. Un’epoca la cui sostanza era stata forgiata dalla spaccatura (il lascito fondamentale della guerra) e dalla spaventosa minaccia dell’annientamento nucleare.
Per più di quarant’anni la Guerra Fredda avrebbe lavorato ad allargare la spaccatura tra le due metà dell’Europa. Le due vicende, in larga misura separate, condividevano però un elemento cruciale: il primato della potenza militare. Questa potenza militare − il fattore dominante nell’Europa postbellica al di qua e al di là della Cortina di Ferro − era ora soggetta al controllo di due soli paesi: gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica. Entrambi erano preoccupati dal problema sicurezza. Ed entrambi erano decisi a impedire che l’Europa cadesse sotto il dominio del nemico. In questo rapporto carico di tensione la novità era ch’esso poggiava in ultima analisi su armi la cui potenza distruttiva era così formidabile che nessuno dei due contendenti osava impiegarle. Una potenza distruttiva che continuò a crescere, fino ad acquisire nel giro di pochissimi anni la capacità di realizzare un annientamento totale. Nel 1949 sia gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica − i primi già una superpotenza, la seconda avviata a diventarlo − avevano fabbricato bombe atomiche. Quattro anni più tardi entrambi i paesi avevano sviluppato la bomba all’idrogeno, un ordigno immensamente più potente della bomba atomica, e presto i loro arsenali nucleari sarebbero stati capaci di distruggere più volte la vita civilizzata sulla scala dell’intero pianeta.
Il culmine d’intensità e il massimo di pericolosità della Guerra Fredda furono raggiunti durante gli anni tra il 1950 e il 1962. Per buona parte di questo periodo la Guerra Fredda ebbe il suo centro in Europa; ma bisogna tener presente che in un’epoca di arsenali nucleari una qualunque frizione tra le superpotenze, in qualunque punto del globo avvenisse, era suscettibile di ripercuotersi nel modo più terribile sul continente europeo.

Conflitti caldi nell’epoca della Guerra Fredda

Nonostante qualche momento critico, il conflitto emerso nell’immediato dopoguerra tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica aveva schivato il disastro. Ma il nuovo decennio era appena cominciato, quando una crisi pericolosa minacciò di produrre gravi conseguenze. Che la crisi fosse scoppiata nella remota Corea era il segno più chiaro che nel caso di un conflitto globale tra le superpotenze l’Europa non poteva evitare di venire coinvolta. Se prima del 1945 gli Stati Uniti erano stati indotti loro malgrado a intromettersi negli affari europei per combattere due guerre mondiali, adesso l’Europa diventò in sostanza un’appendice, per quanto indubbiamente importante, della politica estera americana. Intanto il blocco orientale (con l’eccezione della Iugoslavia, che dopo la guerra aveva vinto la sua battaglia per l’indipendenza da Mosca) era ancor più direttamente impegnato ad appoggiare l’URSS nel suo scontro a livello planetario con gli Stati Uniti.
Annessa dal Giappone nel 1910, la Corea era stata governata da Tokyo sino alla fine della seconda guerra mondiale. A quel punto americani e sovietici si accordarono su una temporanea scissione dell’amministrazione del paese, e la penisola coreana fu divisa all’incirca a metà da una linea di demarcazione che correva lungo il 38° parallelo. Nel 1948 la prospettiva di una Corea riunificata era ormai scomparsa dall’orizzonte. La divisione s’irrigidì: a nord una repubblica comunista, in effetti un satellite sovietico considerato da Mosca parte integrante della sua sfera d’influenza, a sud una repubblica energicamente anticomunista, dominata dagli interessi americani. Ma la vittoria del comunismo in Cina (1° ottobre 1949) dopo oltre vent’anni di acerrima guerra civile contro i nazionalisti di Chiang Kai-shek (tra il 1937 e il 1945 i due partiti avevano altresì combattuto, ciascuno a suo modo, la guerra terribilmente cruenta contro gli invasori giapponesi) aveva lasciato la penisola coreana in una posizione difficile. Il Sud rimase un’enclave non comunista in un’immensa regione governata sotto il segno del comunismo. Quando, il 25 giugno 1950, i nordcoreani attraversarono la linea di demarcazione e attaccarono la parte meridionale del paese spaccato in due, lo scontro tra le superpotenze s’intensificò pericolosamente. Agli occhi degli Stati Uniti, impegnati in una politica di contenimento della potenza sovietica e decisamente allergici alla prospettiva di un’ulteriore espansione dell’influenza comunista − nell’Asia sudorientale come in Europa − l’ipotesi di perdere la Corea del Sud, con l’ovvia conseguenza della minaccia che ne sarebbe derivata per il Giappone, era assolutamente inammissibile.
Gli americani ritennero che la Corea del Nord non avrebbe attaccato senza l’autorizzazione di Stalin. E avevano ragione: il dittatore sovietico aveva dato il suo via libera qualche settimana prima, benché non intendesse impegnare truppe combattenti. Se si fosse reso necessario un aiuto militare, ci avrebbe pensato la Cina. La leadership americana era convinta che bisognava assolutamente scongiurare un effetto domino; e quindi l’espansione comunista doveva essere fermata immediatamente. Se non s’impediva la caduta della Corea, sostenne il presidente Truman, i sovietici avrebbero «fagocitato un pezzo d’Asia dopo l’altro». E «se lasciamo andare l’Asia crollerà il Medio Oriente». A quel punto, nessuno avrebbe potuto prevedere «che cosa ne sarebbe stato dell’Europa». Era un richiamo alla fallimentare politica di appeasement degli anni Trenta, inteso come un argomento a sostegno di un intervento militare; e nella storia dell’Europa postbellica non sarebbe stata l’ultima volta. Gli appeasers non erano riusciti a fermare Hitler. Se l’avanzata comunista non veniva bloccata subito, il risultato sarebbe stato una terza guerra mondiale.
Gli Stati Uniti ottennero l’avallo dell’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite), creata nell’ottobre 1945, all’impiego della forza per difendere uno Stato membro sotto attacco. Era la prima volta che ciò accadeva, e la cosa fu resa possibile da un errore sovietico. Quando nel febbraio 1945 la Conferenza di Jalta approvò l’istituzione dell’ONU, fu deciso di attribuire all’Unione Sovietica, agli Stati Uniti e agli altri Stati membri del Consiglio di Sicurezza (Gran Bretagna, Francia e Cina) il diritto di veto su ogni deliberazione del Consiglio medesimo. Una cosa che soddisfece sia Stalin che il governo americano. Si pensava che grazie a un Consiglio di Sicurezza controllato dalle grandi potenze l’ONU si sarebbe dimostrata un organismo molto più efficiente della sua antenata, la Società delle Nazioni. Una supposizione ripetutamente destinata a rivelarsi errata durante la Guerra Fredda, quando l’uso del veto da parte dell’una o dell’altra superpotenza produsse quasi sempre la paralisi del Consiglio di Sicurezza. Gli eventi del 1950 furono un’eccezione: un temporaneo boicottaggio sovietico del Consiglio (inteso a protestare contro il rifiuto di assegnare un seggio alla Cina comunista) rese possibile l’approvazione degli aiuti necessari per respingere l’invasione della Corea del Sud e ristabilire la pace e la sicurezza. Stalin fu lesto a comprendere l’errore commesso, e l’Unione Sovietica rientrò nel Consiglio di Sicurezza. Ma era troppo tardi per bloccare la nascita di un corpo di spedizione sotto l’egida delle Nazioni Unite e a guida statunitense, con il compito di fornire un aiuto militare alla Corea del Sud. Alla fine della guerra l’United Nations Command, che aveva incorporato i sudcoreani, contava qualcosa come 933.000 uomini. Si trattava nella stragrande maggioranza di coreani (591.000 soldati) e americani (302.000). Parecchi paesi europei inviarono truppe combattenti: la Gran Bretagna e, con contingenti molto più modesti, la Francia, il Belgio, la Grecia, i Paesi Bassi e (un contributo minuscolo) il Lussemburgo
Gli americani conquistarono l’iniziativa su tutti i fronti, scacciando i nordcoreani dal Sud del paese, per poi spingersi a nord al di là della linea di demarcazione. Temendo di trovarsi impigliato in un conflitto diretto con gli Stati Uniti, Stalin respinse gli appelli nordcoreani per un intervento sovietico. Ma il leader cinese, Mao Zedong, non era disposto a vedere l’intera Corea cadere sotto il controllo americano, col rischio che il paese diventasse una via di accesso per un futuro attacco contro la stessa Cina (i cui rapporti con l’Unione Sovietica già allora non erano propriamente idilliaci). Nell’autunno del 1950 Mao aveva messo in campo una forza considerevole (sarebbe arrivata a contare circa 300.000 uomini), e costretto l’Ottava Armata americana a ritirarsi in preda al panico. Era il primo segnale che l’Occidente avrebbe dovuto fare i conti con una Cina potenza militare di prima grandezza. Nel giro di due mesi l’intera Corea del Nord era di nuovo sotto il controllo comunista, e la capitale sudcoreana, Seul, era caduta. Washington era così allarmata da prendere in considerazione l’ipotesi di sganciare una bomba atomica.
Gli Stati Uniti godevano ancora di un vantaggio numerico colossale sull’Unione Sovietica in fatto di bombe atomiche operative (74 a 1, secondo alcune stime). Ma quali sarebbero stati i bersagli? In una guerra combattuta perlopiù nelle campagne coreane, si trattava di un punto nient’affatto ovvio. E non si poteva escludere la possibilità di una massiccia rappresaglia, destinata ad allargare enormemente i confini di quella che era finallora rimasta una guerra regionale, arrivando magari a un’invasione sovietica dell’Europa occidentale, o addirittura al lancio di bombe atomiche su città europee. Verso la fine del 1950 la prospettiva di un ampliamento del conflitto che aprisse la strada a una terza guerra mondiale era qualcosa di molto concreto. La leadership militare americana aveva compilato un elenco di città russe e cinesi classificate come possibili bersagli, e preso in considerazione l’idea di consegnare alla Cina un ultimatum con la richiesta di ritirarsi al di là del fiume Yalu. Se necessario, si sarebbe fatto «prontamente ricorso all’uso della bomba atomica».
Prevalsero orientamenti più saggi. E nella primavera del 1951, con l’offensiva cinese ormai bloccata (pagando un alto prezzo di sangue), gli americani avevano riconquistato l’iniziativa, e le truppe dell’UN Command ricacciato indietro l’esercito comunista. Nel successivo biennio i due contendenti rimasero impantanati in un’orribile guerra di attrito. Con l’armistizio concluso nel luglio 1953 la fine della guerra di Corea riprodusse in sostanza la situazione di partenza, con i due eserciti attestati da una parte e dall’altra della linea di demarcazione lungo il 38° parallelo. La guerra, ferocemente combattuta per tre anni, costò quasi tre milioni tra morti e feriti, nella stragrande maggioranza coreani in entrambi i campi. Le perdite americane ammontarono a quasi 170.000 uomini (di cui oltre 50.000 morti), e quelle dei contingenti europei superarono le 8000 unità, in maggioranza militari britannici.
Benché lontanissima, e benché non riguardasse in maniera diretta gli europei, la guerra di Corea ebbe conseguenze importanti per l’Europa, dovute alla spettacolare crescita della spesa americana per la difesa. Il primo test atomico sovietico era avvenuto nell’agosto 1949, prima del conflitto coreano, nel poligono nucleare di Semipalatinsk, nell’odierno Kazakistan, e aveva già avuto l’effetto di concentrare l’attenzione degli americani sulla necessità di accelerare lo sviluppo della tecnologia nucleare, in modo da conservare il vantaggio sui sovietici. Il presidente Truman aveva non solo chiesto di accrescere la produzione di bombe atomiche, ma anche autorizzato la costruzione di una «superbomba» (31 gennaio 1950). La spesa militare era già avviata a crescere quando a farla impennare giunse lo scoppio della guerra in Corea. Nel giro di un anno il bilancio della difesa aumentò di oltre quattro volte. Nel 1952 la spesa militare arrivò quasi a sfiorare il 20 per cento del prodotto interno lordo degli Stati Uniti (solo tre anni prima era stata pari a meno di un ventesimo del PIL). Il 1° novembre di quell’anno gli americani effettuarono il primo test della loro «superbomba»: una bomba all’idrogeno che «oscurò l’intero orizzonte» e cancellò dalla faccia della terra l’isola del Pacifico (l’atollo di Eniwetok) in cui era avvenuta l’esplosione. Dopo soli nove mesi, il 12 agosto 1953, i sovietici pareggiarono il conto con un test effettuato in una zona desertica dell’Asia centrale. In seguito Winston Churchill parlò con ragione di un «nuovo terrore che porta un certo elemento di parità nell’annientamento», aggiungendo: «Per quanto strano possa sembrare, è all’universalità della potenziale distruzione che ritengo possiamo guardare con speranza e addirittura con fiducia».
Non sorprende che nel quadro di una politica di contenimento globale della minaccia sovietica, percepita come un pericolo in rapida crescita, gli americani si sentissero costretti a riesaminare non soltanto il loro bilancio, ma anche i loro impegni oltremare. Il che coinvolgeva naturalmente l’Europa. In America si pensava sempre di più alle possibili forme di un aiuto militare all’Europa. Il Piano Marshall, lanciato nel 1948 allo scopo di stimolare la ripresa economica dell’Europa postbellica mettendo a disposizione circa 13 milioni di dollari in quattro anni, chiuse gradatamente i battenti. Ma alla fine del 1951 gli aiuti militari all’Europa avevano raggiunto la cifra di quasi 5 miliardi di dollari. Con la crescita degli arsenali sulla scia della guerra di Corea, la quota degli aiuti americani all’Europa occidentale destinata a scopi militari anziché a opere di ricostruzione civile toccò l’80 per cento.
Nell’aprile 1949 era stata creata la North Atlantic Treaty Organization (NATO), un patto che impegnava i paesi aderenti − inizialmente dodici: Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, Italia, Danimarca, Norvegia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Portogallo e Islanda, cui nel 1952 si aggiunsero Grecia e Turchia − a difendere l’Europa occidentale. Ma fu subito chiaro ai leader americani che la forza armata della NATO era inadeguata. Ed erano convinti della necessità che i paesi europei contribuissero in misura maggiore alla loro difesa; che gli Stati Uniti, i quali cominciavano a guardare a se stessi come ai poliziotti del mondo, non potevano continuare ad accollarsi una quota enormemente sproporzionata del costo della difesa dell’Europa. Ne seguì che tutti i paesi europei membri della NATO aumentarono la loro spesa per la difesa. La Germania Ovest, cui era vietata la fabbricazione di armi, produceva apparecchiature, equipaggiamento e veicoli militari in quantità sempre crescenti, ricavando al contempo grandi benefici dalla domanda di acciaio; basti pensare che tra il 1949 e il 1953 la produzione siderurgica tedesco-occidentale aumentò di oltre il 60 per cento: un forte stimolo al nascente «miracolo economico». Bisognava orientare la spesa verso la crescita della forza militare. Così in una riunione della NATO svoltasi a Lisbona nel 1952 fu deciso di costituire nel giro di due anni almeno novantasei nuove divisioni.
Non si poteva però ignorare ancora a lungo una realtà clamorosamente evidente. Rafforzare la NATO avrebbe contato assai poco senza il riarmo della Germania. Ma il tempo trascorso da quando per abbattere la potenza militare della Germania (una volta per tutte, si pensava) era stata necessaria una potente alleanza era brevissimo, e non sorprende che la prospettiva di una rinascita del militarismo tedesco risultasse poco attraente agli occhi dei suoi vicini europei, oltre che − comprensibilmente − terrificante per l’Unione Sovietica. Gli americani avevano sollevato la questione del riarmo della Germania Ovest già nel 1950, a ridosso dello scoppio della guerra di Corea. Continuarono a premere, e i paesi dell’Europa occidentale membri della NATO dovettero riconoscere che la posizione di Washington aveva un senso. Perché mai gli americani dovevano coprire il grosso delle spese per la difesa dell’Europa se gli europei non erano disposti a contribuire più che tanto? Nell’orizzonte europeo continuava a circolare il timore che gli Stati Uniti potessero addirittura ritirarsi dall’Europa, come avevano fatto dopo il 1918; un’idea che s’era riaffacciata dopo la fine della seconda guerra mondiale. Era inoltre necessario assicurarsi che la Germania Ovest rimanesse legata all’alleanza occidentale: un terreno che Stalin volle sondare nel 1952 con un’avance molto allettante (seccamente respinta dai leader occidentali): fece cioè balenare davanti agli occhi dei tedeschi la possibilità di una Germania unificata e neutrale. In Occidente l’iniziativa di Stalin fu interpretata come un tentativo di spingere gli americani a lasciare l’Europa. Essa mirava inoltre a scongiurare un più profondo inserimento della Repubblica Federale nell’alleanza occidentale: un obiettivo che il governo della Germania Ovest, sotto la guida del cancelliere Konrad Adenauer, era ansioso di raggiungere, e che a questo punto era strettamente legato alla questione del possesso di una forza armata da parte della Repubblica Federale.
Nel 1950 una prima proposta che sembrava offrire una potenziale soluzione del rompicapo di come fare della Germania una potenza militare senza alienarsi quei paesi europei che si opponevano energicamente a un passo del genere era venuta, curiosamente, dai francesi. La proposta di Parigi, avanzata nell’ottobre 1950 dal capo del governo, René Pleven, puntava a evitare l’ingresso della Germania Ovest nella NATO (fortemente voluto dagli americani) mediante la creazione di un’organizzazione per la difesa dell’Europa che avrebbe inglobato (ma anche tenuto sotto controllo) una partecipazione tedesca. Lo schema prevedeva un esercito europeo che avrebbe incluso una componente tedesco-occidentale sotto un comando non tedesco, ma europeo (in effetti, era prevista una supervisione francese). L...

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