Bioetica
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Bioetica

Le scelte morali

Eugenio Lecaldano

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Le scelte morali

Eugenio Lecaldano

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Eutanasia, trapianti, vari tipi di fecondazione assistita, clonazione e sperimentazione genetica e sugli embrioni, questioni di giustizia sanitaria, diritti morali di animali e vegetali ed etica ambientale. Una presentazione chiara e aggiornata dei più attuali temi della bioetica, che tiene conto degli aspetti medici e scientifici, delle analisi della filosofia morale e dell'etica contemporanea oltre che delle leggi sulla bioetica italiane e internazionali.

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Information

Year
2015
ISBN
9788858122525

Capitolo secondo.
La fine della vita umana
e il riconoscimento di un diritto a morire

1. Le nuove condizioni del morire. Alcuni casi emblematici

Le persone negli ultimi decenni muoiono in situazioni completamente nuove che hanno fatto sorgere, per coloro che sono direttamente coinvolti e per gli altri, problemi etici largamente irriducibili alle alternative di fronte alle quali si trovavano i nostri antenati e che spingono ad un riesame dei nostri diritti e doveri di fronte alla morte. Anche a questo proposito bisogna però procedere – come abbiamo fatto nel definire la natura della bioetica – con una serie di precisazioni ed esclusioni preliminari, al fine di determinare con maggiore chiarezza quali siano esattamente le nuove condizioni del morire di pertinenza della bioetica. Vedremo che si tratta di situazioni che hanno una innegabile rilevanza per un’indagine critica sulla accettabilità o meno dei tradizionali principi morali.
Non faremo in alcun modo riferimento al mutamento di alcune condizioni empiriche del morire, quali l’allungamento della vita media, il prolungarsi dei periodi di senescenza e la conseguente ampia ricorrenza di malattie tipiche della vecchiaia (ad esempio il morbo di Alzheimer), il diffondersi di tendenze all’ospedalizzazione ecc. Si tratta di mutamenti nelle condizioni psicologiche o sociologiche del morire che sono stati prodotti in generale dal miglioramento della qualità della vita nelle società industriali avanzate. Il fatto che gli sviluppi della medicina e le mutate condizioni di vita abbiano allungato di molto la vita media (e in generale migliorata anche la qualità della vita della persona anziana) da un punto di vista etico non può che essere un evento da valutare positivamente, da continuare e da estendere anche ad altre persone che vivono al di fuori del processo occidentale di civilizzazione. Il lettore interessato a queste trasformazioni di ordine sociale e medico delle condizioni del morire può avvalersi di significativi scritti (ad esempio: Ariès, 1980; Elias, 1985; Nuland, 1995); ma una riflessione sui problemi morali di queste nuove condizioni del morire rientra più propriamente in quella bioetica quotidiana che, come abbiamo già detto, non inseriamo nell’ambito delle questioni da noi specificamente approfondite. È del resto probabile che i principi etici tradizionali non incontrino difficoltà insormontabili per mettersi al passo con le scelte delle persone alle prese con queste trasformazioni sociali diffuse; infatti il nucleo della moralità tradizionale mantiene la capacità di ispirare la condotta abituale della gente, almeno fino a quando nuovi principi sorti per affrontare le situazioni di confine non riescono a generare una loro moralità di senso comune.
Non ci occuperemo qui nemmeno direttamente di quel mutamento della condizione del morire che è legato al diffondersi di nuove tecniche, rispetto a quelle in uso nel passato, per quanto riguarda l’accertamento e la certificazione della morte degli esseri umani. Non entriamo cioè (a parte quanto diremo a proposito dei neonati anencefalici in questo capitolo e sulla questione dei trapianti nel capitolo V) in nessuna delle questioni ora legate ad un riesame – e secondo alcuni ad una ridefinizione – della nozione di morte a livello medico. Il dibattito è tutt’altro che esaurito e le conclusioni con cui nel 1968 la Commissione di Harvard fissava i criteri della morte cerebrale, anche se ampiamente recepiti dalle leggi statuali, sono ancora contestati (Singer, 1996b, pp. 37-53). Si continuano cioè a confrontare differenti concezioni sulla natura della morte: vista come processo; come evento; collegata essenzialmente all’arresto cardiaco o alla fine dell’attività cerebrale o ad entrambi questi tratti; considerata dipendente dalla cessazione dell’attività cerebrale nel suo complesso e dunque del tronco cerebrale o ancora della sola attività corticale (Defanti, 1999). Né mancano coloro per i quali la definizione della morte non può essere derivata da ragioni mediche o biologiche, ma deve essere considerata essa stessa una decisione etica (Singer, 1996b, pp. 208-209). Ma anche in questa linea più estrema occorrerà tenere distinto il problema della più adeguata caratterizzazione empirica del morire, da quello di una distinzione tra morti che possiamo considerare come prive di rilevanza morale e giuridica e quelle che invece consideriamo illecite o moralmente non accettabili. Per quanto importante, infatti, la questione del criterio di accertamento empirico della morte è solo indirettamente rilevante per risolvere la questione se vi siano differenze eticamente significative fra diversi modi di morire. Il problema etico centrale relativo alla morte degli esseri umani non è quello del decidere se essi siano o meno morti, ma quello di chiederci se siamo legittimati a fare azioni che comportino la morte di qualcuno (si tratti di noi stessi o di altri) e conseguentemente quali sono i casi di morte che chiamano in causa giudizi di illiceità. E c’è un senso – sul quale qui ci concentriamo – in cui questi problemi morali si presentano qualunque sia la nostra definizione empirica di morte e le procedure osservative a cui ne demandiamo l’accertamento. Ciò detto, non va perso di vista che accettare a livello giuridico e medico una certificazione di morte essenzialmente legata alla «cessazione dell’attività cerebrale» (Green e Wikler, 1981; Lamb, 1987; Veatch, 1989) non è esente da conseguenze relativamente ad una determinazione di quali siano le situazioni in cui siamo legittimati a usare nozioni quali «accanimento terapeutico», «eutanasia attiva» o «passiva» ecc.
Le nuove condizioni del morire che vogliamo mettere in primo piano sono quelle legate ad una fine della vita umana accompagnata da un ampio ricorso a strumenti e macchine per ritardare la morte e che svolgono funzioni non più garantite dal corpo del morente. La novità significativa del morire si incontra in quelle situazioni in cui, come risposta ad un incidente che colpisce irrimediabilmente il cervello, o come trattamento di una grave malattia allo stadio terminale, la morte di un essere umano si sviluppa come un processo lunghissimo e innaturale, o nella sua abitazione o in una struttura sanitaria di terapia intensiva. È la vicenda nella quale molte delle funzioni del morente vengono artificialmente «surrogate» da macchine (alimentazione, idratazione, respirazione ecc.), e di cui molti di noi hanno probabilmente già avuto esperienza quando un nostro caro si è trovato – spesso senza più segno di coscienza, oppure con manifestazioni di gravi sofferenze – ancora mantenuto in vita per un periodo più o meno lungo da apparecchiature fornite di una serie di cannule e fili. Ancora più drammatica è l’eventualità di una persona ancora giovane che a causa di un grave incidente o di un qualche improvviso trauma abbia subito una devastazione irreparabile, più o meno grave, dell’attività cerebrale per cui viene mantenuta in vita in uno «stato vegetativo» chiamato fino a qualche anno fa «persistente» ma che ora si tende a caratterizzare come «permanente» (Defanti, 2004), ovvero uno «stato vegetativo» irreversibile, che può continuare per un tempo talvolta anche molto lungo, in una condizione in cui non sembra esservi alcuna coscienza.
La riflessione bioetica ha largamente discusso alcuni casi emblematici. Uno tra i primi e tra i più noti è quello di Karen Quinlan (Rachels, 1989, pp. 109-113; Barcaro, 1998, pp. 61-63), una giovane donna che, nell’aprile del 1975, per cause mai chiarite cessa di respirare per due intervalli di tempo e come conseguenza subisce gravi danni al cervello. Come diagnosticarono i medici Karen si ridusse a «un persistente stato vegetativo cronico», nel quale «non possedeva più alcuna funzione cognitiva». Dopo un certo periodo i genitori chiesero che fosse dato il permesso di staccare Karen dal respiratore; il tribunale e la Corte Suprema dello Stato del New Jersey dettero questo permesso, e dopo di ciò Karen rimase in vita per altri dieci anni, sopravvivendo grazie all’uso della sonda endovenosa mediante la quale veniva nutrita. La Corte aveva autorizzato la sospensione dell’uso di un mezzo quale il respiratore, considerato «straordinario», mentre si oppose alla sospensione dello strumento che consentiva l’alimentazione artificiale in quanto giudicato «ordinario». Karen morì di polmonite acuta, per curare la quale non si fece ricorso agli antibiotici, anch’essi considerati un mezzo «straordinario» e non già «ordinario» di cura.
Numerosi altri casi sono stati al centro di discussioni pubbliche e di controversie giuridiche in paesi che, diversamente dall’Italia, non considerano tutto già risolto con un appello – spesso solo di facciata – al cosiddetto principio della sacralità della vita. Così, ad esempio, si è ampiamente discusso in Inghilterra il caso di Anthony Bland, mantenuto in vita artificialmente dopo essere stato schiacciato dalla folla in uno stadio, incidente che aveva completamente distrutto la sua corteccia cerebrale (Singer, 1996b, pp. 171-174). Negli Stati Uniti opinione pubblica e tribunali si sono occupati del caso di Nancy Cruzan, una donna mantenuta in vita artificialmente per otto anni, anche se del tutto priva di coscienza (Singer, 1996b, pp. 63-64). Ancora più accesa e complessa è stata la discussione su due donne le cui funzioni vegetative furono artificialmente sostenute, dopo la cessazione della loro attività cerebrale, per consentire che portassero a termine la gravidanza fino alla nascita di un nuovo essere umano (si è trattato negli Stati Uniti di Trisha Marshall e in Germania di Marion Ploch, su cui si veda ancora Singer, 1996b, pp. 27-36): questi ultimi casi però richiedono una trattazione a parte che li connetta più con la nuova vita che sta per nascere che con la vita che sta inevitabilmente finendo. A proposito di questi ultimi casi possiamo comunque rilevare che anche coloro che sono contrari in generale all’uso della tecnica e della scienza medica come forma di assistenza alla procreazione accettano, poi, l’uso delle macchine per fare sopravvivere la madre fino al momento in cui possa nascere la sua prole. Potremmo indicare una qualche incoerenza quando questa posizione viene sottoscritta da coloro che accettano l’etica della non disponibilità della vita: infatti costoro non solo accettano in definitiva l’uso delle macchine per mantenere in vita la madre, ma finiscono con il considerare in modo strumentale la stessa sopravvivenza della madre; né per essi rappresenta un problema etico che così facendo faranno nascere una prole certamente priva di uno dei due genitori.
Va qui ricordato – con un qualche dettaglio che richiameremo nella successiva riflessione – che in Italia è tuttora aperto di fronte ai tribunali il caso di E.E. che si trascina da diversi anni (la documentazione si può vedere su vari fascicoli di «Bioetica. Rivista interdisciplinare», 1 dell’annata VIII, 2000 e 2 dell’annata XII, 2004; cfr. anche Mori, 2002, p. 105). E.E. si trova in stato vegetativo permanente da più di dieci anni, da quando un incidente d’auto ha spento il suo cervello. Non vi è stato per tutto questo tempo alcun segno di ripresa ed essa, ritornata a casa non avendo più bisogno del respiratore, viene mantenuta in vita, oltre che per le cure dei suoi familiari, mediante un cannello nasogastrico che introduce nel suo stomaco alimenti e liquidi. Il padre B.E. ha chiesto fin dal 1999 che sia concessa la possibilità di interrompere l’alimentazione e idratazione artificiale di E.E. per porre così fine alle condizioni di indegnità esistenziale in cui sopravvive la figlia. La stessa E.E. avrebbe a suo tempo dichiarato, ad alcune sue amiche prima dell’incidente, che non avrebbe voluto continuare a vivere ove si fosse trovata in condizioni del genere. I tribunali (prima quello di Lecco e poi quello di Milano) che sono intervenuti varie volte sul caso, mentre hanno riconosciuto nel padre B.E. il tutore di E.E., hanno sempre rifiutato di permettere la sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiale. Interessante un esame delle motivazioni di queste sentenze. Ad esempio la Corte d’Appello di Milano nel 1999 nella sua motivazione ha rifiutato tale richiesta rilevando che in Italia era ancora aperto il dibattito sulla caratterizzazione o meno dell’alimentazione e idratazione artificiale come una forma di trattamento terapeutico. Secondo la Corte solo laddove questi interventi fossero concordemente riconosciuti come terapeutici si porrebbe l’eventualità di una valutazione del singolo caso per vedere se in esso l’uso che se ne fa è proporzionato o sproporzionato e si potrebbero dunque rifiutare come illecite situazioni di accanimento terapeutico. Ma ancora nell’ottobre del 2003 la Corte d’Appello di Milano dava parere contrario alla sospensione dell’alimentazione e idratazione artificiale per E.E. non ritenendo sufficienti per sciogliere i suoi dubbi sulla natura di trattamento terapeutico dell’alimentazione e idratazione artificiale, né i pronunciamenti in questo senso della Società italiana di Neurologia, né le conclusioni di un gruppo di lavoro ad hoc costituto nel 2000 dal ministro della Sanità Umberto Veronesi e rese note con il Rapporto Oleari nel maggio del 2001. Oltre a ribadire i suoi dubbi sulla caratterizzazione dell’idratazione e alimentazione artificiale, la Corte d’Appello ha ritenuto che non potesse essere considerata rilevante per una sospensione del genere la volontà precedentemente espressa da una persona. Se E.E. abitasse non in Italia ma in altri paesi, europei o extraeuropei, la sua vita sarebbe cessata e la richiesta di suo padre sarebbe stata accolta dalle corti di giustizia. Invece nel nostro paese in nome dello Stato italiano E.E. viene mantenuta in vita per forza contro la sua volontà senza alcun barlume di consapevolezza e senza speranza di riacquistarla e B.E. continua la sua battaglia per un trattamento dignitoso delle persone morenti.
Non meno numerosi sono stati i casi di eutanasia dibattuti dai tribunali: negli Stati Uniti è stata ripetutamente affrontata la questione se dovessero o meno considerarsi come casi di «suicidio assistito» moralmente e giuridicamente non illecite le molte morti in cui è stato coinvolto il dottore Jack Kevorkian (Kevorkian, 1991); in Inghilterra è stata presa in considerazione e discussa la morte di Lillian Boyes per intervento del suo medico (Singer, 1996b, rispettivamente pp. 142-146 e 147). La discussione pubblica su casi concreti di eutanasia è poi in Olanda parte integrante di una procedura prima di depenalizzazione, stabilita con una legge introdotta nel 1993, e poi di legalizzazione in vigore dal 2002. Il fatto che si possano menzionare i cognomi delle persone coinvolte suggerisce con chiarezza che si tratta di casi eccezionali rilevanti per l’etica in quanto spingono ad un riesame critico dei principi morali tradizionali, da cui gli esseri umani si sono fatti guidare quando hanno dovuto affrontare la fine della vita loro e dei loro simili. Questi casi limite rappresentano il nucleo della bioetica. A questo nucleo possiamo collegare la nostra riflessione critica sulla possibilità di riconoscere o meno un «diritto morale a morire», un diritto che la morale tradizionale non ha mai ammesso e che una volta riconosciuto dovrebbe portare ad una radicale revisione di molte delle nostre leggi.
Entriamo nel merito dei problemi legati alla fine della vita umana che sono tutti presenti in casi come quelli Quinlan, Cruzan e E.E. che abbiamo appena ricordato. Anche se noi svilupperemo principalmente la questione della validità etica di richieste avanzate da un paziente considerato competente a proposito della fine o sospensione dei trattamenti che lo mantengono, o manterranno, in vita. Va sottolineato che (a causa di tante malattie, rischi e casualità presenti nella vita di ciascuno di noi) quella in cui si trovarono, o si trovano, queste donne è una condizione possibile per tutti noi o nella quale può ricadere uno qualsiasi dei nostri cari. Ci auguriamo che questo non accada mai, ma per la sola eventualità che ciò ci possa accadere sembra difficile sottrarsi a tutta una serie di interrogativi che richiedono una risposta alla luce di qualche principio moralmente accettabile. Ecco qui alcuni degli interrogativi «nuovi» più ovvi, alla cui radice si ripropone la nostra riflessione sul «diritto morale a morire». Fino a che punto accettare per sé un simile prolungamento della vita? e per i propri cari? Quando e come eventualmente interrompere questo prolungamento artificiale della vita? Tutti problemi che si aprono brutalmente al momento in cui un essere umano viene portato in un reparto di rianimazione in condizioni di lesioni cerebrali che comportano uno stato vegetativo permanente, e ci si domanda se sia giusto attivare per lui un apparecchio sussidiario delle funzioni vitali o, col passare del tempo, se e quando staccare la spina. Come abbiamo visto le spine sono di diverso tipo, a seconda delle funzioni che vengono sorrette, e quindi vi è la possibilità di diverse alternative etiche. Inoltre siamo autorizzati a giudicare familiari e medici che trattano persone in queste condizioni? Vi è un comportamento da ritenere doveroso e apprezzabile per essi? Ci sono dei diritti che le persone coinvolte in una morte del genere possono far valere? E tali diritti debbono essere solo di natura morale, oppure dovrebbero e potrebbero contare su qualche regolamentazione giuridica? Cosa può permettere o vietare la legge in situazioni del genere? L’esistenza di certe tecniche mediche avanzate comporta automaticamente la decisione di una loro adozione, o lo stesso bene del paziente richiede dei limiti su questa strada? Chi li fissa e secondo quali criteri? Questi interrogativi introducono subito ai diversi piani dell’etica implicati nella nostra indagine.
In primo luogo si apre di fronte a noi la ricerca personale di principi e regole a cui ispirare la nostra stessa condotta, una dimensione per la quale è usuale ricorrere alle nozioni di dovere e obbligo. Strettamente correlata con questa dimensione è quella che chiama in causa i diritti, ovvero la possibilità di riconoscere o meno delle prerogative da fare valere a favore di qualsiasi persona coinvolta. Un’altra distinzione nella riflessione etica è possibile a seconda che ci si occupi di decidere che cosa fare noi stessi o di formulare dei nostri giudizi sulla condotta altrui: distinzione molto importante nel campo delle questioni bioetiche tra i casi in cui si esprimono le nostre preferenze personali nel corso delle nostre stesse decisioni e quelli in cui si manifestano delle «preferenze esterne» sulla condotta altrui (Dworkin, 1982, pp. 324-330). Tenere conto di questa ultima distinzione permette di assumere un atteggiamento quanto meno problematico su una tendenza naturale e molto comune delle persone che si sentono autorizzate ad esprimere giudizi su pratiche o condotte che non le coinvolgono in alcun modo direttamente. Infine non va persa di vista la distinzione che abbiamo già più volte richiamato, tra un piano di discussione in cui si riflette su ciò che è bene, giusto o virtuoso che una persona faccia o dica, e l’altro piano in cui si ricercano regole e norme che si ritiene debbano essere rese più coercitive ricorrendo allo strumento della legge, e dunque fatte valere dai tribunali e dalle corti di giustizia.
Ricordiamo al lettore che, come già abbiamo spiegato nel capitolo I, il tipo di riflessione che avviamo, quando ci chiediamo se una certa condotta relativa alla fine della vita umana sia accettabile moralmente o meno, chiama in causa almeno due prerequisiti. Il primo concerne la universalità delle regole, dei principi, dei doveri e dei diritti che si intendono sostenere, tanto se chi li sostiene sia persona coinvolta direttamente nelle decisioni inerenti la fine della vita, quanto se tali decisioni riguardano persone estranee: se non ci sono differenze empiricamente e eticamente rilevanti tra diversi casi non potremo accettare – pena la fuoriuscita dall’etica – soluzioni differenti per essi per il solo fatto che persone diverse giocano un diverso ruolo. Come abbiamo detto in questo libro non ci impegniamo a fondare questa pretesa all’universalità propria dell’etica limitandoci a elaborare un tratto costitutivo della moralità che è accettato da tutte le teorie. Il secondo prerequisito è la coerenza delle applicazioni. Lasciando da parte la pretesa che l’etica sia ispirata ad un unico principio, qui stiamo fissando un prerequisito più debole, e dunque meno controverso, di coerenza nel trattamento di tutte le questioni al centro della bioetica come l’intendiamo in questo volume. L’esigenza di costruire un’etica che sappia essere tanto specifica e concreta da essere rilevante per i casi della bioetica non ha niente a che vedere (come ha ben spiegato Hare, 1971, pp. 61-85) con l’accettazione di una moralità frammentata che fa ricorso per ogni situazione diversa (o classi di situazioni apparentemente diverse quali, poniamo, le nascite, le morti ecc.) ad un principio diverso. Diamo dunque per scontato di dovere abbandonare quelle concezioni etiche che risolvono in modo incoerente le diverse problematiche in gioco nella bioetica e di ritenere una grave inadeguatezza per una concezione morale quella di presentare principi differenti, o semplicemente distinti o addirittura in contraddizione per le diverse situazioni della nascita, della fine della vita umana e della cura.

2. Il dovere di restare in vita o il diritto di morire?

Ma torniamo a casi come quello di E.E. di fronte ai quali ci troviamo a causa delle nuove condizioni del morire. Queste nuove condizioni del morire ripropongono con forza la discussione sui meriti di due diverse concezioni etiche con cui negli ultimi secoli si è affrontata la questione di ciò che è doveroso o giusto fare in presenza della morte. Il punto fondamentale di contrasto è quello tra coloro che ritengono che la vita umana non sia disponibile alle persone e quelli che invece ritengono che le persone ne possano disporre. La possibilità di riconoscere una qualche legittimità morale all’appello da parte di una persona al suo «diritto a morire» presuppone che si ammetta che gli esseri umani possano disporre in qualche modo della fine della loro vita, ovvero che non sia un dovere assoluto degli esseri umani affidarsi completamente alle decisioni di una qualche divinità o autorità o alla natura. Coloro che sostengono la tesi della non disponibil...

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