Il passato del nostro presente
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Il passato del nostro presente

Il lungo Ottocento 1776-1913

Salvatore Lupo

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Il lungo Ottocento 1776-1913

Salvatore Lupo

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Questo volume disegna un ponte tra l'antico regime e la modernità: il lungo Ottocento, il periodo tra le rivoluzioni (americana e francese) e la prima guerra mondiale. È il luogo di formazione delle nostre idee e del nostro mondo, di cui però non va nascosto il carattere antico, in cui vanno riconosciute tutte le incrostazioni di una storia secolare. La scintilla dell'industrializzazione genera soggetti sociali nuovi, anche se al centro della scena rimangono protagonisti che poco hanno a che fare con essa: aristocratici, proprietari fondiari, professionisti, contadini, artigiani. Si affermano le idee di libertà, democrazia, diritti individuali, ma persistono imperi antichi e se ne formano di nuovi. Nel momento in cui l'eguaglianza viene posta a fondamento della vita collettiva, viene con altrettanta forza giustificata l'ineguaglianza, a tutela delle gerarchie che regolano il funzionamento della società. Prospettive diverse, in apparenza incompatibili, si sovrappongono formando un mix complesso che tocca ancora al nostro tempo sciogliere.

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Information

Year
2014
ISBN
9788858115947

I. Fuori dall’Antico regime

Al centro del discorso sta qui la rivoluzione, grandiosa discontinuità storico-politica in due atti: il primo consumatosi a partire dal 1776 in America, il secondo a partire dal 1789 in Francia. I rivoluzionari di entrambi i paesi sono convinti di aver aver gettato le basi per la costruzione di un mondo nuovo; in più, i francesi pensano di essersi lasciati alle spalle l’«Antico regime». A noi resta da valutare anche il peso di medio o di lungo periodo dei fattori di inerzia o conservazione, per capire i caratteri dell’originale impasto non solo politico e giuridico, ma anche economico e sociale, venutosi a creare alle origini dell’età contemporanea.

1. Il discorso politico: lo spirito delle leggi

Introdurremo alcune delle questioni base della politica moderna partendo da un’opera celeberrima, Lo spirito delle leggi del francese Charles-Louis de Secondat barone di Montesquieu, stampata nel 1748 nella protestante e svizzera città di Ginevra per sfuggire alla censura, proibita in effetti dalla Chiesa cattolica ma approvata dai dotti della Sorbona, l’università parigina.
Un uomo libero, spiega Montesquieu, è quello che si sente sicuro facendo «tutto quello che le leggi permettono»; uno Stato libero è quello in cui il potere è sottoposto alle leggi prima che ai governanti, quello in cui i singoli non sono oggetto di giudizi arbitrari e la gravità delle pene è proporzionata a quella dei reati. Dunque sia le repubbliche che le monarchie possono essere libere o dispotiche, a seconda che rispettino o no questi principi.
Il nostro autore colloca in Europa (ma vuol dire Europa occidentale) il concetto di «monarchia moderata», cioè vincolata al rispetto di norme e consuetudini, rispettosa delle libertà dei sudditi. A essa contrappone il «dispotismo asiatico» prevalente a suo dire negli imperi russo, ottomano, cinese, caratterizzati dall’arbitrio dei governanti e insieme dall’insicurezza, dalla paura dei governati. Spiega le differenze con le diversità degli ambienti storici e geografici, da cui derivano i diversi caratteri dei popoli. «Le leggi sono i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose», non il frutto dell’arbitrio dei legislatori: leggi politiche, collettivamente intese come costituzioni degli Stati, ma anche leggi civili, che regolano la posizione degli individui.
Ogni Stato, spiega Montesquieu, ha tre poteri: quello di fare le leggi o legislativo, quello esecutivo che garantisce la sua autoconservazione in guerra o in pace, quello che applica le leggi o giudiziario. La tirannide deriva dalla concentrazione dei tre poteri in un’unica persona o in un unico «corpo» (assemblea), sia composto da maggiorenti, da nobili o dallo stesso popolo. Il governo moderato si caratterizza proprio per la divisione e per il reciproco equilibrio dei poteri.
La variante che Montesquieu preferisce è quella inglese, in particolare per quanto riguarda il potere legislativo, affidato a due diverse assemblee: la Camera dei Comuni che è elettiva, rappresentativa dei vari territori del regno; la Camera dei Lord o dei Pari, in cui siedono di diritto i membri della nobiltà. L’autore reputa giusto che non siano ammessi a eleggere la prima assemblea «quelli che sono in stato di inferiorità tale da essere reputati privi di capacità politica» (i poveri e gli analfabeti). Giustifica anche il ruolo assegnato nella seconda a un potere ereditario che – ammette – potrebbe sembrare «odioso di per sé»: sostiene che i nobili, abituati a trattare autonomamente con i re, sono gli unici in grado di contrastarne il potere, di «temperarlo».
Sarà a questo punto utile fornire qualche sommaria informazione sulla storia precedente dell’Inghilterra (o «Gran Bretagna», se vogliamo usare il termine introdotto nel 1707 con l’unificazione dei regni di Inghilterra e Scozia). Partiamo dalla Riforma protestante, rappresentata nell’isola dalla Chiesa anglicana più moderata, da quelle calviniste o puritane più radicali: la prima si limitò a sostituire il re al papa, mentre le seconde insistevano sul diritto dei singoli fedeli ad accostarsi mediante un «libero esame» ai testi sacri e alle questioni di coscienza, e si organizzavano su base egualitaria. Nel 1714, al termine di una serie di conflitti assai aspri, religiosi e politici insieme, la dinastia cattolica degli Stuart venne sostituita con quella protestante degli Hannover. Il parlamento aveva nel frattempo assunto il ruolo autonomo e centrale cui Montesquieu si riferisce, giustificando la propria azione, all’atto della deposizione di Giacomo II Stuart (1688), con una motivazione rivoluzionaria: il re aveva violato il «contratto» che lo legava al popolo, i suoi successori dovevano impegnarsi a rispettarlo.
Siamo alla recezione dei principi del contrattualismo e del giusnaturalismo affermati in campo teorico intorno al 1690 dal filosofo John Locke, e che possiamo così sintetizzare: la società si crea, ponendo fine allo «stato di natura», mediante un contratto tra popolo e sovrano, ma i diritti dei sudditi, essendo naturali, restano inviolabili anche dopo la sottoscrizione di quel contratto. Ne deriva il diritto alla «resistenza», ovvero alla ribellione contro i sovrani ingiusti.
Queste concezioni, ai nostri occhi così innovative, si appoggiavano su alcune peculiarità politico-istituzionali del «modello inglese». Su scala locale prevaleva il self-government (autogoverno): ovvero l’amministrazione e la giustizia erano affidate a una classe dirigente locale dai confini abbastanza fluidi, comprendente membri della gentry (piccola nobiltà) e yeomen (proprietari di condizione civile). Il sistema giuridico, che diciamo di common law, era geloso della propria tradizione consuetudinaria e non si piegava facilmente a imposizioni regie. Per esso toccava al popolo, organizzato nelle giurie, sorvegliare che le sentenze dei tribunali fossero eque. L’Habeas corpus, ovvero la proibizione di incarcerare qualcuno senza prove, rappresentava una prima affermazione del principio dei diritti individuali. C’era una certa libertà nel dibattito pubblico.
Detto dei pregi del modello inglese, ci tocca rilevare anche i suoi limiti. Il primo riguarda proprio il sistema parlamentare. Di fatto l’aristocrazia dominava anche la Camera dei Comuni, perché in occasione delle elezioni i suoi esponenti riuscivano sistematicamente a ottenere i consensi della gentry e dei rappresentanti delle città: costoro pensavano naturale farsi rappresentare da illustri personaggi, offrivano i loro voti in cambio di protezione (in una logica di clientela), e al peggio si lasciavano corrompere. Va aggiunto che la struttura dei collegi elettorali attribuiva alle città più popolose lo stesso numero di rappresentanti dei borghi cosiddetti «putridi», dove i votanti erano poche decine e il controllo clientelare molto agevole. Veniamo alla tolleranza politico-religiosa, che era limitata alle confessioni protestanti. Dalla maggioranza degli inglesi, i cattolici erano considerati affiliati a una potenza straniera e ostile, il papato. L’esclusione dalla vita pubblica e le altre discriminazioni nei loro confronti durarono sino a Ottocento inoltrato, pesando particolarmente dove essi erano maggioranza, come nell’isola di Irlanda allora sotto dominio della corona britannica.
Non solo Montesquieu pensava che gli inglesi fossero il popolo più libero del mondo; di certo questo era il nucleo dell’idea che gli inglesi avevano di sé, della loro identità. Vale però anche per loro una considerazione generale di cui misureremo man mano la validità: l’identità si costruisce e si cementa in positivo intorno a valori intesi come comunitari, nella fattispecie quelli religiosi, ma contemporaneamente anche in negativo, escludendo qualcuno.
E la Francia? Nella Francia di metà Settecento c’erano 13 parlamenti, situati in diverse città, il più importante dei quali era quello di Parigi. Non si trattava però di organismi legislativi, ma di corti di giustizia alla cui verifica erano sottoposti i provvedimenti governativi. Il diritto di farne parte veniva inizialmente comprato (come accadeva d’altronde per altri uffici pubblici e titoli nobiliari) per poi divenire ereditario: dando vita a una sezione particolare della nobiltà, detta parlamentare, cui lo stesso Montesquieu apparteneva.
Non possiamo attribuire a questi parlamenti la stessa funzione rappresentativa che attribuiamo a quello inglese. Ragionando delle istituzioni francesi del tempo, è difficile (non impossibile) ritrovare una strada, analoga a quella britannica, che ci conduca verso il concetto attuale di diritti individuali. I parlamenti francesi difendevano quella che gli storici definiscono «costituzione cetuale»: laddove il termine costituzione vuole ancora indicare l’insieme (sia pure disarmonico) di ordinamenti giuridici che avevano per oggetto i ceti o gruppi sociali – aristocratici, ecclesiastici, mercanti, artigiani – nel quale ogni gruppo aveva obblighi differenti e differenti diritti.
Nella seconda metà del XVII secolo, Luigi XIV di Borbone, il «re sole», si era creato uno spazio di potere personale senza precedenti e aveva proposto la monarchia come soggetto privilegiato, se non unico, nella produzione del diritto, ignorando appunto le proteste dei parlamenti. Aveva perseguitato la minoranza protestante, o ugonotta, convinto che il pluralismo religioso rappresentasse di per sé una minaccia alla compattezza politica del regno. L’apparato amministrativo controllato dal centro, dalla capitale Parigi, era stato rafforzato per limitare le autonomie dei vari ceti, di regioni, città, feudi, comunità locali; donde l’aumento delle necessità di denaro che negli anni successivi avrebbe portato la monarchia a mettere in discussione i privilegi fiscali della nobiltà e della Chiesa.
Nel corso del XVIII secolo la grande cultura illuminista francese, che possiamo identificare nei nomi di «philosophes» come Diderot e Voltaire, sostenne la necessità di sottoporre gli ordinamenti politici e sociali all’unico criterio della ragione, propugnò la logica universalistica dei diritti a scapito di quella particolaristica dei privilegi, minacciò le antichissime rappresentazioni del potere – e più in generale del mondo – basate sulla religione, non temette la reazione della Chiesa cattolica. Le persone colte si sentirono «illuminate» leggendo grandi opere come l’Enciclopedia o partecipando alle attività di una rete associativa più o meno segreta: la massoneria.
Gli illuministi guardarono con favore al potere sovrano-statale. Gli proposero idee di riforma razionale che furono da esso interpretate come stimoli per l’imposizione di una legge unica. Le due parti si impegnarono nella fase politica che diciamo dell’«assolutismo illuminato».
Torniamo a Montesquieu. È ragionevole pensare che volesse in origine difendere le prerogative antiche dei parlamenti, o in generale la costituzione cetuale, e che tuonasse contro il dispotismo «orientale» col vero intento di contrastare l’offensiva centralizzatrice della monarchia francese. Forse solo strada facendo si lasciò affascinare dall’esempio offerto in Gran Bretagna dalla divisione dei poteri. Sta di fatto che i parlamenti francesi non si mostrarono mai favorevoli ad allargamenti della pubblica libertà come accadeva oltre la Manica, e comunque non certo nella direzione indicata dagli illuministi; molti dei quali, infatti, si mostrarono critici del modo in cui Montesquieu rivalutava il privilegio.
Noi però dobbiamo a lui la convinzione che le sorti della moderna libertà, qualunque significato si dia alla parola, non possono essere affidate all’assolutismo.

2. Rivoluzione in America

La prima rottura rivoluzionaria settecentesca si registrò in un dominio marginale della corona britannica, nella fascia costiera atlantica mediana del Nord America. Diciamo, per completare il quadro, che l’attuale Canada era anch’esso dalla metà del Settecento sotto sovranità britannica; mentre l’area meridionale del Nord America, il Centro America e il Sud America (a esclusione dell’attuale Brasile, possesso portoghese) costituivano il grande impero spagnolo.
Al pari degli spagnoli e dei portoghesi, gli inglesi colonizzarono i loro possedimenti americani, ovvero vi insediarono immigrati provenienti dall’Europa. Dove il clima lo consentiva (ad esempio nell’attuale Virginia), proprietari molto agiati crearono piantagioni di tabacco e cotone, coltivate da schiavi neri che gli inglesi stessi deportavano dall’Africa in condizioni orrende, o discendenti da quegli sventurati. In altre parti del paese si creò un’economia commerciale e piccolo-contadina. Più verso l’interno il territorio restava «selvaggio», abitato da popolazioni indigene che vivevano di caccia e raccolta (qualche volta anche di agricoltura), puntellato solo di avamposti militari e percorso da pochi bianchi: cacciatori, mercanti di pellicce, pionieri. Sia i prodotti delle piantagioni che le pellicce andavano ad alimentare fruttuosi commerci con la madrepatria.
Le 13 «colonie» anglo-americane si autoamministravano, entro certi limiti, attraverso proprie assemblee rappresentative, e milizie locali contribuivano alla difesa comune. I coloni si sentivano pari agli abitanti della lontana isola d’origine e condividevano molto della sua cultura politica, anche nelle sue punte radicali e non conformiste. In particolare il calvinismo radicale aveva ispirato i primi immigrati nella zona settentrionale detta del New England, e particolarmente nella colonia del Massachusetts. Viene spesso richiamato il documento sottoscritto dai puritani che nel lontano 1620, sulla nave Mayflower, si erano impegnati a contribuire a un «corpo politico» nuovo da costruirsi in quel mondo selvaggio: fornendo quasi un riscontro empirico-storico alle teorie sul contratto sociale come superamento dello «stato di natura». Noi non possiamo però non rilevare la forte contraddizione tra le idee di tolleranza e quelle prevalenti nel Massachusetts puritano del XVIII secolo: che diremmo teocretiche o integraliste perché impegnate a creare una comunità di «santi», escludendo e perseguitando non solo gli infedeli ma anche coloro che si mantenevano tiepidi nei confronti dei precetti religiosi.
La società anglo-americana era ben più egualitaria di quella della madrepatria. Più della metà della popolazione maschile era composta da agricoltori proprietari: gente che, non avendo padroni, rappresentava un materiale umano straordinariamente favorevole – stando a molte teorie politiche del tempo, ispirate all’antichità classica – per produrre buoni cittadini di una repubblica. Anche qui, rileviamo però le stridenti contraddizioni dovute alla grande presenza di schiavi nelle colonie meridionali: particolare importante, i grandi proprietari di piantagioni e di schiavi della Virginia rappresentavano quanto di più simile potesse aversi nel Nuovo Mondo all’aristocrazia della vecchia Europa, e da qui vennero alcuni dei personaggi di punta dell’élite politica americana, come Thomas Jefferson e George Washington.
Gli anglo-americani reputarono molto dannose per la loro economia varie misure prese a cavallo tra anni ’60 e anni ’70 dal governo britannico. Protestarono per le limitazioni poste alla loro libertà di commercio in un crescendo di polemiche giornalistiche, manifestazioni, boicottaggi e infuocati documenti redatti dalle assemblee rappresentative coloniali. Utilizzarono argomenti analoghi a quelli usati in Gran Bretagna da Adam Smith, che proprio nell’anno della rivolta americana scrisse il suo celeberrimo testo la Ricchezza delle nazioni (1776), sostenendo che la ricchezza dipendeva dalla possibilità di commerciare liberamente e dall’efficienza dei procedimenti produttivi. Fecero ricorso anche a concetti più politici, stando ai quali il governo britannico stava violando antiche libertà «degli inglesi»: se i compatrioti d’oltreoceano, dimentichi delle virtù dei padri, erano inclini a subire, al di qua dell’oceano si era pronti alla resistenza. Gli americani si rifiutarono dunque di pagare le imposte votate dal parlamento britannico, nel quale non erano rappresentati, e invocarono il principio «niente tassazione senza rappresentanza».
Cadde in un momento di cruciale importanza (il 1776) anche la pubblicazione del libretto Senso comune di Thomas Paine, un democratico inglese sbarcato da appena due anni nel Nuovo Mondo. Paine non aderisce al coro degli apologeti dell’antica Costituzione inglese. Spiega che essa è per due terzi (quelli che sanciscono il potere personale del monarca e il potere dell’aristocrazia) di tipo tirannico; che solo in parte è controbilanciata dalla «virtù» repubblicana situabile nella Camera dei Comuni. Invita il popolo a rovesciare la tirannia, dimostrando l’assurdità di un’idea di società divisa in oppressori e oppressi, liberandosi dal rispetto superstizioso nei confronti del governo. La società – rileva Paine con magnifico crescendo retorico – viene prima del governo, e le sue esigenze sono qualitativamente superiori: la prima deriva dalla nostra volontà, il secondo è creato per rimediare alle nostre debolezze; la prima ci fa operare in positivo, il secondo impedisce che operiamo in negativo; la prima crea interrelazioni, il secondo divisioni; la prima protegge, il secondo punisce. La causa americana, aggiunge, è in una certa misura quella di tutto il genere umano, che ha il diritto naturale di dichiarare guerra a chi «dichiara guerra ai diritti naturali del genere umano».
Lo scritto di Paine ebbe un travolgente successo. Sancì l’innesto di temi universalistici sulla rivendicazione particolaristica dei diritti spettanti agli inglesi e soltanto a loro. Diede corp...

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