L'ossessione identitaria
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L'ossessione identitaria

Francesco Remotti

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L'ossessione identitaria

Francesco Remotti

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È doveroso richiamare l'attenzione sulle conseguenze pericolose e sui guasti ai quali si va incontro quando a essere rivendicate sono le identità – religiose, etniche o culturali – e le loro pretese di conservazione e purezza. È ciò che fa Remotti in questo libro, mettendo in discussione non solo l'utilità, ma anche la stessa coerenza logica del concetto di identità. Alessandro Cavalli, "L'Indice"

«Identità è una parola avvelenata. Il veleno contenuto in questa parola così nitida e bella, così fiduciosamente condivisa, di uso pressoché universale, può essere tanto oppure poco, talvolta persino impercettibile e quasi innocuo. Ma anche quando è impercettibile, la tossicità è presente in numerose idee che la parola contiene e, accumulandosi, può manifestarsi alla lunga, in maniera inattesa e imprevista. Perché e in che senso identità è una parola avvelenata? Semplicemente perché promette ciò che non c'è; perché ci illude su ciò che non siamo; perché fa passare per reale ciò che invece è una finzione o, al massimo, un'aspirazione. Diciamo allora che l'identità è un mito, un grande mito del nostro tempo.»

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Information

Year
2017
ISBN
9788858128626

III. Il mito, le critiche, le minacce

1. La critica classica

All’inizio del capitolo precedente abbiamo fatto cenno ad alcuni autori – non molti per la verità – che hanno preso in considerazione critica il concetto di identità soprattutto sul piano analitico (cioè come strumento utilizzato dagli analizzatori). Altri – quasi altrettanto pochi – hanno privilegiato il piano operativo (quello degli attori o dei soggetti sociali) e così, prendendo le distanze da questo concetto, ne hanno posto in luce le mistificazioni, i limiti e soprattutto i pericoli. Qui ci piace citare Amin Maalouf (Maalouf 1999), Amartya Sen (Sen 2006), François Laplantine (Laplantine 2004), insieme a un nostro testo pubblicato oltre un decennio fa (Remotti 1996). Più di recente, alcuni autori hanno parlato di «trappola mortale dell’identità» (Ponzio 2009). Ma occorre precisare che sul concetto di identità – su questa nozione che si potrebbe considerare ormai un vero e proprio mito moderno, denominato per l’appunto “il mito dell’identità” da Patrick Boumard, Georges Lapassade e Michel Lobrot (Boumard, Lapassade, Lobrot 2006) – analisi critiche sono state formulate non soltanto in questi anni; già alcuni secoli or sono, pensatori di diverso orientamento hanno svolto riflessioni che meriterebbero di essere ricordate e prese di nuovo in considerazione. Vale la pena perciò riferirci a questi autori “classici” per desumerne stimoli e ispirazione e per fare vedere appunto come dell’identità noi abbiamo fatto sconsideratamente un “mito”, forse anzi un’inutile e perniciosa “finzione”, senza tenere in nessun conto ciò che altri, nella nostra stessa tradizione di pensiero, hanno colto di erroneo e pericoloso nel concetto di identità, una «trappola mortale» per l’appunto.

1.1. Pascal: l’irriducibile molteplicità dell’io

Il contributo maggiore che possiamo trarre da Blaise Pascal a proposito dell’identità consiste nello smantellamento del concetto di “io”. Nelle sue Pensées (pubblicate postume nel 1669) Pascal fa vedere come il concetto di “io”, inteso normalmente come una sostanza che rimane identica a se stessa, è in realtà un’illusione:
Un uomo è un’unità sostanziale; ma, se lo si analizza, sarà la testa, il cuore, lo stomaco, le vene, ogni vena, ogni particella di vena, il sangue, ogni umore del sangue? (Pascal 1962: 24).
Cosa vuol dire Pascal? Sembra che voglia dire che l’uomo – in quanto individuo – viene concepito come se fosse un’unità sostanziale (piano operativo). Ma, se poi lo andiamo ad analizzare da vicino (piano analitico), la sua unità scompare e ciò che emerge è l’enorme, indescrivibile molteplicità di cui è composto: non solo «le vene», ma «ogni vena, ogni particella di vena» contiene in sé una pluralità pressoché incontrollabile. Pascal ne fa una questione di prospettiva. Se si sta abbastanza lontani da una realtà (un individuo, una città, una campagna), si può avere l’impressione di una sostanza unitaria, di un’unità; ma se ci si avvicina, la molteplicità delle sue parti aumenta «all’infinito».
Una città, una campagna, da lontano sono una città o una campagna; ma quanto più ci avviciniamo, sono case, alberi, tegole, foglie, erbe, formiche, zampe di formiche, all’infinito. Tutto questo viene compreso sotto il nome di “campagna” (Pascal 1962: 24).
E noi potremmo aggiungere: illusoriamente, per lo più. Pascal procede in una analisi (dissoluzione) dell’io quasi spietata, allorché prende in esame l’amore che si nutre per una determinata persona. Un individuo è fatto di «doti», siano esse fisiche siano esse spirituali, e viene amato per certe sue doti o «qualità», che siano la bellezza fisica, l’ingegno, la memoria (potremmo aggiungere: la tenerezza, l’affettuosità) e così via (Pascal 1962: 144). Ma queste doti «costituiscono l’io»? Pascal non ha dubbi. Esse non costituiscono l’io, che significa unità, in quanto sono molteplici: un individuo ha molteplici doti o qualità, siano esse positive o negative, e viene amato – o odiato – per alcune di queste. C’è dunque una molteplicità nell’io da un punto di vista sincronico: l’io è proprio come una città, che può essere scomposta in una molteplicità di manifestazioni, atti, fenomeni, qualità, dimensioni; una molteplicità – potremmo anche aggiungere – di ruoli, di attività. Ed è solo attraverso questa molteplicità di ruoli e di doti che un io (un individuo) è oggetto di conoscenza, di apprezzamento o, al contrario, di ripudio:
Si può forse amare l’anima di una persona in astratto, indipendentemente dalle sue qualità? No, è impossibile, e sarebbe ingiusto. Dunque, non si ama mai una persona, ma soltanto certe qualità (Pascal 1962: 144).
«Dov’è, dunque, questo io?» – si chiede Pascal: la molteplicità dei ruoli e delle doti dissolve la sua (illusoria) unità.
La domanda («Dov’è, dunque, questo io?») diviene ancora più pressante allorché Pascal introduce la dimensione temporale nell’io: queste doti (e questi ruoli) non soltanto sono molteplici, ma anche transeunti; non soltanto sono molte, diverse e pure eterogenee, ma anche mutano nel tempo, si formano, emergono e scompaiono. E questo spiega – sostiene Pascal – perché l’amore può venire meno:
Non ama più quella donna che amava dieci anni fa? Lo credo bene: né lei, né lui sono tuttora gli stessi (Pascal 1962: 126).
Del resto, con il tempo non soltanto svanisce l’amore, ma qualsiasi altro sentimento:
Il tempo guarisce i dolori e placa i dissensi, perché mutiamo, non si è più la stessa persona. Né l’offensore né l’offeso sono più i medesimi. È come un popolo che si sia offeso, e che venga rivisto dopo due generazioni: sono pur sempre i Francesi, ma non gli stessi (Pascal 1962: 126).
In conclusione, non c’è un “io” o un “me”, verso cui si diriga l’amore o l’odio di qualcuno o che, al contrario, agisca come una unità sostanziale. Secondo Pascal, e secondo la Logique di Port-Royal, non si deve usare je (“io”), ma la forma impersonale on: “si crede, si dice ecc.” (Pascal 1962: 122). Infatti, «che cos’è l’io?»: al posto di un’unità sostanziale, di una sostanza che permane nel tempo e al di là della molteplicità delle sue doti e dei suoi ruoli, c’è per Pascal un «vuoto», e per giunta un vuoto «pieno di lordure» (Pascal 1962: 144, 157).

1.2. Locke: l’identità precaria

Su questo tema della sostanza interviene pure John Locke, in un senso assai simile a quello di Pascal. Egli infatti nega che l’io sia fatto di una sostanza permanente, la quale durerebbe inalterata nel tempo. Nel capitolo XXVII del II libro del suo An Essay Concerning Human Understanding del 1690 egli però introduce un concetto che non era presente in Pascal, cioè il concetto di identità (il capitolo è per l’appunto intitolato Of Identity and Diversity). L’introduzione del concetto di identità rende il discorso assai più complicato, ma ci consente nello stesso tempo di fare qualche passo in avanti: l’io non è fatto di una sostanza permanente, perché questa eventuale sostanza – ovvero ciò che normalmente chiamiamo sostanza – muta nel tempo, risulta modificata da un tempo all’altro; e tuttavia, «l’identità personale» non cambia (par. 13; Locke 1951: 459). Come è possibile questo?
Locke compie un’operazione importante: l’identità personale, staccata dall’idea di una qualche sostanza che si perpetua nel tempo, viene invece addebitata alla «coscienza», la quale fa sì che l’uomo «sia se stesso a se stesso» (par. 12; Locke 1951: 458). Ovvero, l’identità non è più fatta dipendere da una sostanza, come suo attributo essenziale; viene invece concepita come il prodotto della coscienza. Vi è insomma una divaricazione netta tra sostanza e coscienza, e l’identità viene fatta passare dall’una all’altra. Sembra di poter dire che, per Locke, l’essere umano in quanto sostanza cambia (ovvero non è dotato di una sostanza permanente); ciò che invece lo rende “identico” nel tempo è la sua “coscienza”. C’è dunque un contrasto tra ciò che l’uomo è realmente, ovvero una sostanza che si trasforma di continuo, e ciò che l’uomo appare alla sua “coscienza”, ovvero la sua identità. La coscienza è ciò che «unisce esistenze e azioni molto lontane fra loro nel tempo a formare la stessa persona», lo stesso io (par. 18; Locke 1951: 465). È la coscienza che lega e unifica, che supera le disparità e le eterogeneità, la molteplicità delle esistenze e delle azioni di cui è fatto un individuo. Perduto il suo attributo di identità, la sostanza di cui è fatto l’io si frammenta in modo inevitabile. Essa perde la sua unità e permanenza: l’io stesso in definitiva non è più una sostanza.
Locke insiste molto su questa duplicità di livelli: a) il livello delle «cose» di cui l’individuo è fatto realmente (azioni, eventi, sentimenti, modi di esistere), caratterizzato da una molteplicità pressoché indefinita (non dunque da una sostanza permanente); b) il livello della «coscienza», che invece unifica questa molteplicità disparata di cose. Compiendo questo lavoro di unificazione, la coscienza – aggiunge Locke– «attribuisce a se stessa, e riconosce come proprie, tutte le azioni di quella cosa pensante, fin dove arriva tale coscienza, e non oltre» (par. 19; Locke 1951: 466). L’identità non è dunque la manifestazione di una sostanza permanente, bensì il risultato di un lavoro di unificazione e di attribuzione: non la manifestazione di qualcosa che c’è, ma il prodotto di un qualcosa che viene fatto e costruito. A sua volta, la coscienza non è una sostanza, ma coincide – potremmo dire – con questa stessa attività di unificazione e di autoattribuzione, la quale può spingersi in diverse direzioni e incontrare limiti più o meno insuperabili. Se l’identità fosse la manifestazione di una sostanza permanente, i suoi confini (i confini dell’io, della persona) coinciderebbero perfettamente con quelli della sostanza. Ma poiché non c’è una sostanza permanente, bensì una molteplicità di aspetti e di azioni, di eventi e di condizioni, non è affatto detto che la coscienza riesca a unificare tutto questo molteplice. Si direbbe che per Locke c’è sempre uno scarto tra il livello a (quello della molteplicità delle azioni) e il livello b (quello della coscienza unificante): per Locke c’è sempre un limite, oltre il quale l’unificazione non è in grado di procedere, e rispetto al quale si può dire «fin dove arriva tale coscienza». Questo significa che l’identità può assumere dimensioni variabili e che l’io (o la persona) ha confini i quali non sono mai imposti da una natura umana, da una sostanza che non muta, bensì sono resi mutevoli dalla coscienza che lo forma.
Tutto questo ragionamento presenta, per Locke, importantissime implicazioni di ordine giudiziario. Egli infatti afferma: «In questa identità personale», variabile a seconda dell’estensione della coscienza, «ha fondamento tutto il diritto e la giustizia del premio e della punizione» (par. 20; Locke 1951: 466). Forse che – si domanda Locke – si può punire Socrate sveglio per ciò che ha fatto Socrate nel sonno? Il sonno è, per così dire, la barriera della coscienza e dunque dell’identità di Socrate: c’è diversità tra ciò che Socrate fa da sveglio e ciò che può avere fatto nel sonno, e la coscienza del Socrate sveglio non riesce a “unificare” le azioni del Socrate nel sonno, “attribuendole” a un unico io, a un’unica persona. La molteplicità rimane in questo caso insuperata e forse è insuperabile. Locke si spinge fino al punto di affermare che lo stesso uomo può essere o “fare” persone diverse: in una determinata fase può essere una persona savia e in un’altra fase un pazzo. Là dove la coscienza unificante si arresta emerge la molteplicità, e di conseguenza – in mancanza di un’unificazione nella stessa persona, ovvero di un’identità personale tra le due condizioni – «la legge umana non punisce il pazzo per le azioni commesse da savio, né il savio per ciò che ha fatto da pazzo» (par. 22; Locke 1951: 468).
L’identità, insomma, non è affatto garantita da una sostanza: essa dipende del tutto dalla coscienza, la quale unifica, e quindi forma o costruisce identità, “fin dove può”, fin dove riesce a spingersi. Se l’identità fosse la manifestazione di una sostanza permanente, non vi sarebbe differenza tra passato e presente: l’io sarebbe sempre uguale a se stesso, senza essere minimamente intaccato dal tempo. Poiché però l’identità dipende dalla “coscienza”, non solo risente delle variazioni della coscienza e della sua minore o maggiore capacità di unificazione, ma è anche un qualcosa che dipende costantemente dal presente. Dire coscienza significa dire presente, ed è dal presente (dal presente della coscienza) che parte l’azione unificatrice che forma l’identità. Sentiamo infatti cosa afferma Locke a questo proposito:
persona è il nome di questo io [...]. È un termine forense, inteso ad attribuire le azioni e il loro merito [...]. Questa personalità si estende oltre l’esistenza pre...

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