Diritto e gestione del patrimonio culturale
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Diritto e gestione del patrimonio culturale

Antonio Leo Tarasco

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Diritto e gestione del patrimonio culturale

Antonio Leo Tarasco

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Il libro affronta il problema del finanziamento del settore museale esaminando le diverse modalità attraverso cui è possibile incrementarne la capacità di automantenimento e la redditività, così che siano soddisfatti sia i valori di promozione culturale che quelli di sostenibilità del debito pubblico ed equilibrio di bilanci.

Biglietteria, servizi aggiuntivi, concessioni d'uso, sponsorizzazioni, donazioni, finanza di progetto, utilizzo di marchi commerciali, prestiti per mostre: sono alcuni degli istituti esaminati sia sul piano giuridico che per i rendimenti economici concretamente generati e che, se adeguatamente valorizzati, potrebbero moltiplicare i ricavi riducendo, fino a eliminarlo, il debito pubblico italiano. Tali tematiche sono affrontate in costante comparazione con l'ordinamento francese che persegue espressamente la valorizzazione del patrimonio pubblico e l'incremento della capacità di autofinanziamento. Vengono analizzati anche i modelli britannici e statunitensi in cui i musei, formalmente organizzati come enti non-profit, svolgono un'intensa attività commerciale e di raccolta di fondi privati così da conseguire il massimo livello di rendimento economico con il minimo supporto di contributi pubblici.

Oltre alle riflessioni giuridiche, il volume è ricco di dati statistici e finanziari in gran parte inediti.

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Information

Year
2019
ISBN
9788858139738

II.
Immagini e spazi del patrimonio culturale:
disciplina giuridica e ricavi economici

1. Concessioni di beni culturali pubblici e redditività

Il tema delle concessioni di uso dei beni culturali rappresenta un’area di mediocre interesse investigativo per gli studiosi. Eppure, la scarsa attenzione della dottrina1 e i rari interventi della giurisprudenza2 sono inversamente proporzionali all’applicazione dell’istituto nella prassi amministrativa realizzata dai diversi enti pubblici consegnatari di beni del patrimonio culturale che ricorrono agli istituti disciplinati dagli artt. 106 e 107 Codice dei beni culturali e del paesaggio (d’ora in avanti, Codice) che disciplinano l’uso individuale dei beni culturali, rientrante nel concetto di fruizione di cui al Capo I («Fruizione dei beni culturali») del Titolo II («Fruizione e valorizzazione») del Codice.
L’interesse verso l’approfondimento della tematica risiede nei seguenti e non trascurabili profili.
In primo luogo, stante l’inalienabilità del demanio culturale (che a sua volta ricomprende la massima parte del patrimonio culturale offerto alla fruizione pubblica), la concessione dei beni culturali realizzata secondo il combinato disposto degli artt. 106 e 57-bis Codice può rappresentare un serio ed equilibrato punto di mediazione tra riserva della proprietà pubblica e sollecitazione dell’iniziativa economica privata, secondo il mai applicato modello della sussidiarietà orizzontale (art. 118, comma 4, Cost.) e di alcuni trascurati principi del Codice (artt. 6, comma 3, e 111, comma 4, del Codice3). La scarsezza delle risorse economiche e la fisiologica incapacità degli enti pubblici di amministrarle secondo canoni realmente aziendalistici (che, presi sul serio, implicherebbero scelte radicali con un costo reputazionale che nessun rappresentante politico o alto dirigente ha inteso o intenderà sostenere mai), in uno con la vastità del patrimonio culturale pubblico4, impediscono che le amministrazioni pubbliche possano garantire la cura ottimale del patrimonio culturale nel ciclo tutela-fruizione-valorizzazione. Attesi tali vincoli dimensionali, finanziari e funzionali, l’unica alternativa ragionevole a una improduttiva e insistente riserva pubblica nella gestione del patrimonio culturale e, nel contempo, rispettosa della demanialità (e del suo attributo più importante: l’inalienabilità) è rappresentata dalla concessione dell’uso dei beni culturali a terzi soggetti, indipendentemente dalla natura giuridica di questi, con conseguente mantenimento della proprietà pubblica dei beni.
In linea generale, infatti, attraverso l’istituto concessorio e il connesso trasferimento delle facoltà di godimento e utilizzazione di beni demaniali culturali da parte di terzi soggetti privati si concretizza quell’indifferenza del soggetto gestore del patrimonio pubblico di cui parla la più avvertita dottrina: come è stato condivisibilmente affermato, proprietà soggettivamente pubblica e pubblica destinazione sono ormai poste non come elementi necessariamente congiunti ma in combinazione funzionale con l’utilizzazione economica dei beni da parte di terzi soggetti privati5. In tal modo è possibile conciliare utilizzazione economica da parte di privati, destinazione alla pubblica fruizione e mantenimento della proprietà pubblica del demanio culturale: l’insieme di tali concetti descrive, quindi, non concetti antitetici ma tra di loro funzionali e orientati sia alla migliore fruizione per il pubblico sia alla massima redditività per l’amministrazione titolare di quei beni (sia esso il ministero per i Beni e le Attività culturali, d’ora in avanti MiBAC o altre amministrazioni consegnatarie). In altri termini, «quello che conta è la disciplina dell’utilizzazione, del godimento delle diverse categorie di beni pubblici, la quale deve tener conto dei vari modi di godimento e di utilizzazione, che dipendono anche dalle caratteristiche intrinseche dei beni stessi»6.
La sostenibilità di tale linea direttrice può essere confermata, nello specifico settore del patrimonio culturale, anche dalla riscoperta di un dato normativo assolutamente pacifico ma passato inosservato per ben undici anni: l’art. 1, commi 303-305, legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Legge Finanziaria 2005)7.
Con valenza generale per tutti gli immobili culturali, appartenenti sia allo Stato sia alle Regioni e agli enti locali «per l’uso dei quali attualmente non è corrisposto alcun canone e che richiedono interventi di restauro», il comma 303 dell’art. 1, legge n. 311, 2004 prevede la possibilità (invero, già ricavabile dal sistema generale, anche extracodicistico) di conferimento «in concessione a soggetti privati con pagamento di un canone fissato dai competenti organi». Al trasferimento del potere di uso del bene immobile culturale fa da pendant l’impegno del concessionario «a realizzare a proprie spese gli interventi di restauro e conservazione»8. La fattispecie consiste essenzialmente in una concessione di uso/gestione e restauro e, dunque, in un caso di finanza di progetto applicato ai beni culturali. Dimenticata per undici anni, la norma primaria è stata riscoperta nel 2015, quando l’allora ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo ha prescritto con il d.m. 6 ottobre 2015 le condizioni per la «Concessione in uso a privati di beni immobili del demanio culturale dello Stato»9.
Ebbene, tale cornice giuridica, che utilizza principalmente l’istituto concessorio, ben potrebbe essere usata per donare al sistema museale nazionale qualità ed efficienza economica di gestione attraverso la progressiva erosione del monopolio pubblico nella gestione del patrimonio culturale, a tutto vantaggio dei bilanci pubblici e della cura del patrimonio culturale.
L’indagine sul tema delle concessioni d’uso dei beni culturali è suggerita anche dalla valutazione dei relativi profili economici e, in particolare, della redditività potenziale: il quadro dei ricavi da concessioni d’uso è decisamente marginale nella serie delle voci che compongono i ricavi complessivi derivanti dalle gestioni (pubbliche) degli istituti e dei luoghi della cultura statali. Rispetto alla totalità di ricavi dei diversi istituti e luoghi della cultura (a esclusione di archivi e biblioteche), nell’anno 2017 mediamente oltre il 90% deriva dai proventi della vendita dei biglietti di ingresso, mentre dai canoni concessori deriva una trascurabile percentuale del 3,16% (se rapportati al totale netto degli introiti) e il 2,77% (se posti a raffronto al totale lordo degli introiti).
In particolare, se il volume complessivo dei ricavi da concessioni ex artt. 106 e 107 Codice (spazi e riproduzioni di immagini) è stato pari nel 2017 a € 5.743.360,59, i soli istituti dotati di autonomia speciale hanno generato ricavi per € 4.759.109,73, ossia il 3,09% rispetto al totale degli introiti netti da essi stessi generati; diversamente, i Poli museali regionali sono stati in grado di generare ricavi da fattispecie riconducibili a concessioni per soli € 984.250,80, ossia il 3,55% rispetto al totale degli introiti netti da essi generato. In particolare, per entrambe le tipologie museali, è sempre dall’uso degli spazi che si ricava la (interna) percentuale maggiore: sempre nel 2017, gli istituti dotati di autonomia speciale hanno incassato per la concessione d’uso degli spazi € 3.003.003,95 mentre solo € 438.421,11 dai corrispettivi dovuti dalle riproduzioni. Analogamente, i musei dei Poli museali regionali – se hanno ricavato € 898.071,31 dalla concessione in uso degli spazi – dalle riproduzioni delle immagini nello stesso periodo hanno incassato la trascurabile cifra di € 58.602,08.
Tali valori sono confermati anche dagli andamenti degli anni precedenti. Se si analizza l’esercizio 2016, ad esempio, può notarsi che pure per tale annualità i ricavi da queste fattispecie sono stati trascurabili: solo € 3.628.514,40 (il 2,30% del totale degli introiti netti) di cui ben € 3.273.495,05 ottenuti dai soli istituti dotati di autonomia speciale (2,44% dei loro ricavi al netto), mentre € 355.019,35 dai Poli museali regionali (1,52% dei loro introiti al netto). Anche nell’anno 2016 si conferma, poi, che la voce maggiormente rilevante è rappresentata dalla concessione d’uso degli spazi da cui gli istituti dotati di autonomia speciale hanno ottenuto € 2.061.808,74 mentre i musei aggregati nei Poli € 302.828,03; minimi, poi, sono i ricavi dalle riproduzioni di immagini: € 233.760,54 nel caso degli istituti dotati di autonomia speciale e € 50.191,32 nel caso dei Poli museali regionali.
All’interno di queste percentuali, la capacità redditiva dei diversi musei e parchi archeologici è assai variabile: nella tipologia dei ricavi da concessioni d’uso ex artt. 106 e 107 Codice, infatti, nell’anno 2017, i primi cinque siti sono rappresentati dalle Gallerie degli Uffizi (€ 1.068.021,70), dalla Pinacoteca di Brera (€ 799.304,65), dai musei del Polo museale della Campania (€ 391.145), dal Parco archeologico del Colosseo (€ 373.426,14) e dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia (€ 318.784,92), mentre gli ultimi, in questa ideale classifica di redditività sono, invece, i musei del Polo museale della Basilicata (€ 8.020), quelli del Polo museale della Sardegna (€ 8.050) e del Polo museale delle Marche (€ 6.100), il Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria (€ 5.195, nonostante i notissimi Bronzi di Riace), il Museo archeologico nazionale di Taranto (€ 1.950), nonché i Musei del Polo museale del Molise (€ 500).
A ciò si aggiunga che vi sono siti che non riescono a ricavare un solo euro dalle riproduzioni di immagini e dalle concessioni degli spazi: la Galleria nazionale dell’Umbria, il Museo nazionale etrusco di Villa Giulia nonché i musei aggregati nei Poli museali della Liguria e del Friuli-Venezia Giulia (nel 2017).
Nel 2016, invece, i siti maggiormente redditivi sono stati le Gallerie degli Uffizi (€ 930.484,18) la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma (€ 398.782,54), la Reggia di Caserta (€ 311.838,04), il Parco archeologico del Colosseo (263.894,62) e l’area archeologica rappresentata dai siti di Villa Adriana e Villa d’Este, a Tivoli (€ 208.630), mentre gli ultimi – in ordine di ricavi da tali fattispecie – il Polo museale del Lazio (€ 2.500), il Polo museal...

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