Noi, esseri ecologici
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Noi, esseri ecologici

Timothy Morton, Giancarlo Carlotti

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Noi, esseri ecologici

Timothy Morton, Giancarlo Carlotti

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Timothy Morton è il profeta filosofico dell'antropocene, l'era in cui è l'uomo e solo l'uomo a modificare il clima, il territorio e l'ambiente."The Guardian"

Uno dei pensatori più originali e provocatori sui temi ambientali.Giuliano Aluffi, "la Repubblica"

È giunto il momento che noi, esseri ecologici, decidiamo in favore della vita, presente e futura. Essere ecologici comporta un cambiamento imponente, ma di segno differente da quello seguito fin qui: se hai una vaga idea che ci sia un dentro di te e un fuori di te, sei sulla buona strada.

Dobbiamo imparare a pensare a noi stessi come un tutt'uno con l'ambiente in cui viviamo: dobbiamo concepirci come esseri ecologici. Perché noi siamo l'ambiente e l'ambiente siamo noi.

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Information

Year
2020
ISBN
9788858140963

1.
E potresti trovarti a vivere
in un’era di estinzione di massa

Qual è esattamente l’attuale stato dei lavori, parlando di ecologia? Per prima cosa, vediamo di esaminare questo aspetto. Quando mi è capitato di discutere con alcune persone del titolo di questo capitolo, sono stato accusato di mosceria. Esatto: questo capitolo è davvero moscio. Certuni avrebbero preferito che dicessi «stai vivendo in un’era di estinzione di massa», come se il condizionale «potresti trovarti a vivere» fosse sinonimo di «non stai vivendo».
È già di per sé interessante questo interpretare un condizionale come se fosse un «non». Ha a che vedere con la «legge» logica del tertium non datur che influenza ogni ambito della vita. La regola invalsa, come in alcuni tipi di votazione, è di interpretare l’astensione come un «no» quando si arriva alla conta dei suffragi. Non puoi interpretarla come un «forse che sì, forse che no». Viviamo nell’era dell’indicativo, in realtà un indicativo attivo, in cui il word processor è lesto a punirti con l’ondina verde sotto ciò che hai scritto perché hai usato la voce al passivo. Dio poi non voglia che usiamo il condizionale, come in «potresti».
Non poter stare nel mezzo è un grosso problema per il pensiero ecologico.
Ma anche non poter usare il condizionale è un grosso problema per il pensiero ecologico. Non poter usare la modalità «potrebbe». Tutto è quindi bianco o nero. E si amputa così qualcosa di essenziale per la nostra esperienza dell’ecologia, qualcosa di cui non possiamo realmente fare a meno: l’esitazione, la sensazione di irrealtà o di realtà distorta o alterata, la sensazione di arcano, di strano.
La sensazione di non-è-del-tutto-reale è esattamente quella che provi quando finisci nel bel mezzo di una catastrofe. Se sei mai stato coinvolto in un incidente stradale, o hai vissuto quella catastrofe minore che è il jet lag, probabilmente capisci che cosa intendo.
In pratica, l’amputazione «potrebbe» escludere la stessa esperienza in quanto tale. «Tu sei» significa che se non ti senti così, se non senti qualcosa di ufficialmente convalidato riguardo all’ecologia, c’è in te qualcosa di sbagliato. Dovrebbe essere trasparente. Dovrebbe essere ovvio. Dovremmo offrire questa ovvietà in maniera ovvia, come un ceffone. «Potresti trovarti a» comprende invece l’esperienza. In un certo senso, è addirittura molto più forte di una semplice asserzione. Perché non puoi sbarazzarti di te stesso. Puoi essere d’accordo o meno con ogni genere di cose. Eccoti, essere d’accordo o meno. Per usare le parole del grande fenomenologo Buckaroo Banzai, Dovunque vai, lì tu sei1.

Filo-sofia

La verità ha qualcosa di approssimativo, proprio come c’è qualcosa di approssimativo nella filosofia. Filosofia significa amore della sapienza, non la sapienza in quanto tale. È diventato un vero e proprio stile filosofico togliere la parte philos. Sono troppi i filosofi che potrei citare, e arrossisco nel ricordarli, però hai capito il tipo: il genere di persona che sa che loro hanno ragione e che tu dici solo sciocchezze se non sei d’accordo con loro. Non c’è bisogno di aggiungere che è uno stile che non mi piace per niente. Amore significa che non afferri l’amato e non puoi afferrarlo: è quello che provi, è quello che capisci quando ami qualcuno o qualcosa, «non posso toccarlo con mano... semplicemente amo quel quadro...».
Nelle pagine di questo libro vedremo in che modo l’esperienza dell’arte ci fornisce un modello per il genere di coesistenza tra umani e non umani che la politica e l’etica ecologica vorrebbero ottenere. Perché?
Sul finire del Settecento il grande filosofo Immanuel Kant distingueva tra le cose e i dati sulle cose, come abbiamo visto poco fa. Una ragione che ti permette di capire che qui c’è una netta distinzione, sosteneva Kant, è la bellezza, che il filosofo indagava come esperienza, il tipo di momento in cui esclamiamo: «Wow, che bello». (Quella che chiamerò «esperienza del bello».) Questo perché la bellezza ti dà un fantastico, «impossibile» accesso all’inaccessibile, alle qualità aperte e chiuse delle cose, alla loro realtà misteriosa.
Kant descriveva la bellezza come una sensazione di inafferrabilità, questo perché l’esperienza del bello va oltre il concetto. Non mangi il quadro di una mela; non lo trovi moralmente buono; esso ti dice invece qualcosa di strano sulle mele in sé. La bellezza non deve essere in sintonia con concetti prefabbricati di «carino». È strana, questa sensazione. È come quello che provi quando concepisci un pensiero senza concepirlo realmente. Nel marketing alimentare c’è una categoria messa a punto negli ultimi due decenni circa chiamata mouthfeel [da mouth = bocca, e feel = sensazione], che si riferisce a una sensazione oro-tattile diversa dal gusto, per esempio l’astringenza. È un termine abbastanza disgustoso per indicare la texture, la struttura di un cibo, il modo in cui interagisce con i denti, il palato e la lingua. In un certo senso la bellezza kantiana è thinkfeel, una sensazione mentale, l’impressione di avere un’idea; e dato che siamo tanto legati al dualismo mente/corpo, come lo era Kant, non possiamo fare a meno di pensare che questa faccenda sia un tantino malata, psicopatica: le idee non dovrebbero produrre suoni, non è vero? Eppure parliamo di continuo di come suona un’idea: Questa mi suona giusta. È possibile che ci sia una certa qual verità in questa frase colloquiale?
Il filosofo tedesco Martin Heidegger è una figura controversa, perché per parte della sua carriera fu iscritto al partito nazista. Questa nube nerissima è una vera disdetta, perché impedisce a tanta gente di affrontarlo seriamente, nonostante il fatto che Heidegger, piaccia o non piaccia, abbia scritto il manuale sulla strada che il pensiero avrebbe seguito alla fine del Novecento e nei primi anni del Duemila. Spero di riuscire a dimostrarlo nel corso del volume, e per giunta spero di dimostrare che il nazismo di Heidegger è un grosso errore: ovviamente, ma anche dal punto di vista del suo stesso pensiero.
Heidegger sostiene che non esistono cose come la verità e la non verità, rigidamente distinte come il bianco e il nero. Tu sei sempre nella verità. Sei sempre in un qualche genere di verità a risoluzione più o meno bassa, una mediocre versione jpeg a un certo valore di dpi (punti per pollice), un qualche tipo di versione comune, pubblica, la quasi-verità (abbiamo già incontrato questa comoda definizione di Stephen Colbert nell’Introduzione). So che l’analogia con il jpeg non funziona al millimetro. Nessuna analogia funziona al millimetro. L’analogia per cui la verità è più o meno pixellata è a sua volta più o meno pixellata.
E la bellezza è quasi-vera. In realtà, non essendo io Kant oserei dire che non è thinkfeel ma piuttosto truthfeel, una «sensazione di verità». Se preferisci usare il linguaggio utilizzato dagli scienziati odierni puoi anche dire truth-like, vero-simile. E così, se ci pensi, siamo arrivati a un punto in cui dobbiamo ammettere una subdola capriola nella nostra tesi. Abbiamo criticato i fattoidi perché sono fuorvianti, ma perché possono fuorviare? Perché in qualche maniera non sempre riconosciamo come false le cose false. Significa che non esiste una sottile o rigida separazione tra vero e falso. Stranamente, tutte le affermazioni vere sono in un certo senso quasi-vere. Non esiste un punto di svolta netto o un rigido confine dove il quasi-vero diventa vero e basta. Le cose sono sempre un po’ goffe e impedite. Avanziamo a tentoni. Le idee suonano giuste, suonano bene. Truthfeel, sensazione di verità. E potresti ritrovarti a vivere in un’era dell’estinzione di massa.

Il fenomeno dell’Antropocene

Antropocene è il nome che diamo a un’era geologica nella quale i materiali prodotti dall’uomo hanno creato un vero e proprio strato nella crosta terrestre: una galassia di plastiche, calcestruzzi e nucleotidi, solo per fare qualche esempio, ha formato uno strato geologico evidente e distinto. L’Antropocene è stato ufficialmente datato, anno di nascita il 1945. È sbalorditivo. Ti viene in mente un’altra era geologica con una data d’inizio tanto precisa? E riesci a pensare a qualcosa di più inquietante dell’accorgerti che ti trovi in un’epoca geologica tutta nuova, contrassegnata dagli umani che diventano una forza geofisica su scala planetaria?2
Ci sono state cinque estinzioni di massa nella storia della vita sulla Terra. La più recente, quella che spazzò via i dinosauri, fu provocata da un asteroide. Quella precedente, l’Estinzione del Permiano, fu causata dal riscaldamento globale e cancellò quasi tutte le forme di vita. Le estinzioni sembrano semplici punti in una linea temporale quando le cerchi su Wikipedia, ma in realtà sono spalmate nel tempo, tanto che mentre si svolgono sarebbe decisamente arduo notarle. Sono come invisibili esplosioni nucleari che durano millenni. Adesso è il nostro turno di assumere il ruolo dell’asteroide dato che il riscaldamento globale che stiamo causando sta per portare alla Sesta estinzione di massa. Forse tutto diventerebbe più chiaro se la smettessimo di parlare di «riscaldamento globale» (e la smettessimo senz’altro di chiamarlo «cambiamento climatico», davvero loffio), optando invece per «estinzione di massa», che è l’effetto finale.
Ora può suonare strano, ma qualcosa nella vaghezza del ritrovarsi così nell’Antropocene – che è la ragione per cui è in corso oggi sulla Terra la Sesta estinzione di massa – è in realtà essenziale e intrinseco al fatto che noi ci troviamo a vivere immersi in tale era. Sarebbe come dire che il jet lag ti dice qualcosa di vero su come sono le cose. Quando arrivi in uno strano posto molto lontano, tutto sembra un tantino fuori registro: strano eppur familiare, eppure familiarmente strano, eppure stranamente familiare. L’interruttore della luce sembra un po’ più vicino del normale, posizionato in un punto un tantino diverso del muro. Il letto è stranamente stretto e il cuscino non è quello a cui sei abituato – per inciso, sto descrivendo quello che provo ogni volta che arrivo in Norvegia. In inverno le giornate iniziano verso le dieci. Alle nove è ancora buio pesto. È pur sempre giorno, ma non quello che sei abituato a vedere.
Il termine usato da Heidegger per indicare il modo in cui l’interruttore della luce è lì sul muro alla stregua dei personaggi di contorno nei quadri espressionisti è vorhanden, che significa «semplicemente presente». Di solito, le cose circostanti in qualche modo spariscono quando sei concentrato nelle tue attività. L’interruttore è solo parte della tua routine quotidiana, lo fai scattare, e metti su il bricco del caffè: in altre parole, ti aggiri brancolando in cucina nella luce di quasi-verità del primo mattino. Le cose in qualche modo scompaiono: semplicemente ci sono; non risaltano. Non è che non esistano del tutto. È che sono versioni meno vistose, meno ossessivamente evidenti di sé stesse. Questa qualità delle cose che semplicemente accadono attorno a noi e basta, al di là del fatto che noi non vi prestiamo tanta attenzione, ci dice qualcosa su come sono fatte le cose: esse non sono direttamente, costantemente presenti. Sembrano emergere a esistenza soltanto quando non funzionano a dovere o sono versioni diverse della medesima cosa alla quale siamo abituati. In conformità con queste considerazioni, sbrighi i tuoi affari nella camera d’albergo norvegese, vai a dormire e quando ti svegli tutto è tornato normale: e così sono davvero le cose; sono, come dice Heidegger, zuhanden, «utilizzabili, pronte a disposizione»3. Le puoi afferrare, le controlli come nell’imperativo stai calmo! o nella versione inglese – un po’ più divertente – keep your hair on! (come dire, pressappoco, «non strapparti i capelli», prima che ti renda conto che indossi una parrucca...).
Le cose sono presenti a noi quando spiccano, quando non funzionano bene. Stai correndo nell’inferno del supermercato tutto indaffarato a concludere il tuo giro della spesa quando scivoli su un punto sdrucciolevole del pavimento (qualcuno ha steso troppa cera). Mentre cadi rovinosamente al suolo noti per la prima volta il pavimento, il suo colore, i disegni, il materiale, anche se per tutto...

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