Storia della filosofia del diritto. III. Ottocento e Novecento
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Storia della filosofia del diritto. III. Ottocento e Novecento

Guido Fassò, Carla Faralli

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Storia della filosofia del diritto. III. Ottocento e Novecento

Guido Fassò, Carla Faralli

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Un classico della cultura giuridica che ha fatto dire a Norberto Bobbio: «Finalmente esiste in Italia (dico in Italia, ma potrei dire sulla faccia della terra) una storia della filosofia del diritto, non angustamente scolastica, non puramente nozionistica e per di più completa». Il lettore vi troverà un panorama rapido, ma chiaramente delineato, della storia della filosofia del diritto occidentale; il ricercatore potrà farne il punto di partenza di una ricerca approfondita. Carla Faralli, allieva di Fassò, ha curato quest'edizione aggiornandola fino ai giorni nostri.

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Information

Year
2020
ISBN
9788858143278

XVI.
La filosofia giuridica dei nostri giorni

[Si è deciso di mantenere inalterato il titolo del capitolo e di dividerlo in due parti, la prima, Dal dopoguerra agli anni Sessanta, corrispondente all’intero capitolo della versione originale, la seconda, Dagli anni Settanta all’inizio del XXI secolo, da me aggiunta alla presente edizione a fini di aggiornamento (N.d.C.)].

Parte prima. Dal dopoguerra agli anni Sessanta

1. Dominio e decadenza dell’idealismo

In Italia e in Germania la reazione al positivismo aveva condotto, come si è visto, ad una rinascita dell’idealismo hegeliano, che portò questo ad una posizione di egemonia culturale non minore di quella esercitata nella seconda metà dell’Ottocento dal positivismo. Ciò particolarmente in Italia, dove la filosofia idealistica aveva espresso le due figure eccezionalmente autorevoli del Croce e del Gentile, che, pur nel loro dissenso, dominarono a lungo la cultura italiana.
Circa l’influsso dell’idealismo in Germania nel campo della filosofia del diritto, abbiamo veduto come esso abbia operato soprattutto sotto l’aspetto politico, fornendo strumenti filosofici, nella cornice della concezione hegeliana dell’eticità dello Stato, a quella politicizzazione del diritto che fu perseguita assiduamente dal regime nazionalsocialista. In Italia, benché, come pure abbiam visto, per opera del Gentile e dei suoi seguaci abbia esercitato una certa funzione politica quale fondamento dottrinale del fascismo, l’idealismo non influì in tale senso sulla filosofia del diritto; nel campo di questa generò invece problemi di altro ordine, puramente teorici, suscitati dalla negazione – operata tanto dal Croce quanto dal Gentile – di un’autonoma sfera filosofica del diritto.
Si può dire infatti che il periodo fra le due guerre mondiali sia stato caratterizzato in Italia, per ciò che riguarda la filosofia giuridica, dai tentativi degli idealisti di ricuperare la legittimità di essa, dettati dalla ripugnanza ad ammettere l’elisione del diritto come realtà: ripugnanza che nasceva, a dispetto di tutti gli schemi dialettici dell’idealismo tanto gentiliano quanto crociano, dall’esperienza stessa del diritto, che è esperienza di una realtà storica non eliminabile da parte di nessuna dialettica. Proprio perché nell’idealismo trovavano, secondo le esigenze dell’epoca, i motivi più validi per combattere il positivismo – si ricorderà che già le prime reazioni a questo nel campo della filosofia del diritto si richiamavano a un più o meno precisato idealismo – e perché la filosofia idealistica appariva loro la sola entro la quale si potesse fondare la filosoficità di una ricerca, i filosofi del diritto italiani si ribellavano alle conseguenze estreme che dalle premesse idealistiche il Croce e il Gentile avevano tratto in tema di indagine filosofica intorno al diritto.
Venne perciò criticata come arbitraria ed artificiosa la partizione crociana dello Spirito nei «distinti», e venne per contro contestata la risoluzione gentiliana di tutta l’attività dello Spirito in una indistinta morale; oppure venne rivendicata l’autonomia della realtà giuridica, affermandosene la non risolvibilità in altre per l’irriducibilità ad altri di taluni suoi elementi o caratteri. Di tale travaglio del pensiero idealistico italiano non è materialmente possibile dare qui un resoconto1: dovremo limitarci a ricordarne alcune delle espressioni più eminenti o il cui magistero sia stato particolarmente fecondo.
Fra i nomi da ricordare è quello di Widar Cesarini Sforza (1886-1965), che nell’accogliere la posizione del Croce vi apporta una sostanziale modifica perché intende il momento della generalità, o tipicità (quello, proprio del diritto, per l’astrattezza del quale il Croce ne negava la realtà), come essenziale al processo della conoscenza, e, attraverso questa, dell’azione2. Al Cesarini Sforza era presente, in questo suo sforzo di ricondurre la norma astratta alla concretezza della storia, la connessione del fenomeno giuridico a quello della socialità, manifestantesi in particolare nella pluralità degli ordinamenti giuridici: alla cui teoria, nella formulazione che ne avevano dato l’Hauriou ed il Romano, egli aveva prestato grande attenzione, e di cui compì un’elaborazione che è fra le sue cose migliori3. In relazione appunto alla socialità in quanto relazione tra una pluralità di individui egli riconosce nell’attività astraente del diritto l’elemento mediatore fra le esistenze particolari.
Dall’esame congiunto del pensiero del Croce e del Gentile e della critica di entrambi del momento dell’astrattezza del volere muove Felice Battaglia (1902[-1977]), il quale giudica per contro astratte l’economicità e l’eticità per sé prese, così come sono astratti, di per sé presi, l’individuale e l’universale. Soltanto nella loro relazionalità essi sono reali, e solo nella loro relazione, che è concretezza e storia, è reale la volontà di essi. Volontà dell’individuale e volontà dell’universale, economia ed etica, in tanto sono reali in quanto si implichino e siano mediate in una volontà dell’individuale universalizzato, o, che è lo stesso, dell’universale individualizzato. Questo, che il Battaglia chiama hegelianamente ethos, l’universale concreto, la storia in atto, è per lui proprio la giuridicità: l’ethos o attività pratica e l’attività giuridica nella sua pienezza sono una cosa sola. Lungi dall’essere elisa come momento astratto, come momento di irrealtà, la giuridicità viene così intesa come il momento dello Spirito in cui questo trova la sua attuazione concreta4.
All’attualismo gentiliano, che risolve nella filosofia tutta la realtà, si riconnette il radicale formalismo di Angelo Ermanno Cammarata (1899-1971), formalismo essenzialmente filosofico, e assai diverso perciò da quello delle teorie generali del diritto. Tale formalismo si pone soprattutto come antiteleologismo, escludendo dalla filosofia del diritto ogni considerazione finalistica, e quindi ogni concetto che, implicando uno scopo, non sia la qualificazione esclusivamente formale di un contegno5.

2. L’idealismo e il problema della scienza giuridica

L’egemonia del pensiero idealistico nella filosofia italiana tra le due guerre portò, come già si è accennato, a un divorzio tra filosofia del diritto e scienza giuridica ancora più profondo di quello che le aveva divise quando la filosofia del diritto era rappresentata, agli occhi dei giuristi, dal giusnaturalismo. Il motivo di reciproca incomprensione era del resto questa volta assai più profondo: perché l’idealismo negava valore alla scienza in generale, se intesa, come la intendevano gli scienziati e, guardando all’esempio di questi, i giuristi, quale conoscenza di tipo naturalistico costituita da un sistema di concetti astratti dall’esperienza. Appunto perché formata da concetti astratti – gli «pseudoconcetti» crociani – essa era per gli idealisti conoscenza astratta, cioè non-conoscenza: conoscenza vera essendo solo quella dell’individuale (la storia) o quella dell’universale (la filosofia), e non mai quella del generale od astratto.
Già prevenuti, per opera del positivismo – al quale, come professanti il «positivismo giuridico», ritenevano di appartenere – contro la filosofia, i giuristi si sentivano dire ora che il loro lavoro era «empirico» (aggettivo che consideravano spregiativo, e che effettivamente in bocca agli idealisti lo era), e addirittura che l’oggetto del loro studio, il diritto, non aveva realtà; e giudicavano i «filosofi» (parola a cui a loro volta attribuivano significato di spregio e di scherno) venditori di fumo e parlatori a vuoto: al che per vero il linguaggio di alcuni fra gli idealisti offriva qualche giustificazione.
Tutto ciò era frutto di un equivoco, dovuto anche all’arcaica concezione della scienza a cui i giuristi si riferivano. Ancora abbagliati dai celebrati trionfi della scienza della natura dell’Ottocento positivista, essi continuavano a proporsi come modello una scienza di tale tipo, senza neppure avvedersi che gli scienziati stessi stavano rivedendo il loro concetto di scienza. Così i giuristi, e in particolar modo quelli italiani, continuavano a costruire sistemi di concetti sulle tracce della Begriffsjurisprudenz: magari,...

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