Storia del Mediterraneo in 20 oggetti
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Storia del Mediterraneo in 20 oggetti

Amedeo Feniello, Alessandro Vanoli

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Storia del Mediterraneo in 20 oggetti

Amedeo Feniello, Alessandro Vanoli

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Fra arnesi un tempo quotidiani e oggi confinati nei musei e altri che sono sempre con noi, scopriamo, grazie a una vivace narrazione, che il Mediterraneo è la sede di un'unica civiltà, che è diventata la civiltà dell'Europa, e poi del mondo.Alessandro Barbero

La Storia del Mediterraneo in 20 oggetti è prima di tutto l'attestazione di un grande amore per il proprio oggetto di studio, il Mediterraneo, ed è percorsa dal desiderio di raccontarlo come veri e propri cantastorie.Carlo Vulpio, "Corriere della Sera"

Un libro originale che ripercorre quel che accadde nel piccolo oceano permeato di cultura del Mediterraneo. Un racconto che segue le tracce di alcuni oggetti: a volte ordinari, altre volte curiosi o strani, comunque in grado di raccontare la storia e infinite storie.Armando Torno, "Il Sole 24 Ore"

Seguiamo venti oggetti e la loro storia. Ci racconteranno l'anima di uno spazio geografico e culturale ricchissimo: il Mediterraneo.

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Information

Year
2020
ISBN
9788858141731

Il corallo

Mi racconti il mare?
Navighiamo lungo le coste del Maghreb, verso occidente, verso al-Andalus, che i cristiani chiamano Iberia e che malgrado qualche recente avanzata dei re del Nord è ancora in mano musulmana – grazie a Dio, aggiungono in coro qui sulla barca. L’uomo manovra il timone di poppa all’ombra di una grande vela triangolare.
Bizerta, comincia lui, è una bella città; quelle che vedi laggiù, alla tua sinistra, sono le sue mura, tutta solida pietra; un fiume d’acqua salata vi scorre all’interno, al centro della città vi è una grande moschea. Più avanti c’è Tabarka, che è dominata da un monte, la sua fortezza è oggi in rovina, gli uomini vivono nei dintorni e per bere utilizzano dei pozzi. Poco oltre si pesca il corallo, che forma come una montagna nel mare. Per raccoglierlo, gli abitanti escono sulle loro barche portando croci di legno intorno a cui avvolgono tele di lino; a ogni croce legano due corde, poi gettano il tutto nelle profondità del mare e i marinai fanno girare le barche, affinché le croci si attacchino al corallo; poi le tirano fuori. La quantità di corallo che si raccoglie va da diecimila a dieci dirham.
Lui si chiamava al-Muqaddasi ed era un viaggiatore, uno dei tanti viaggiatori e geografi arabi che attorno al X secolo consumavano la vita percorrendo in lungo e in largo la dar al-islam, il territorio dell’islam: un mondo che andava dal Marocco sino all’India, dove malgrado ogni tipo di differenza si cominciava a percepire una comune appartenenza, la partecipazione a uno stesso ordine, fatto di lingua, leggi, usi e pratiche quotidiane. Era quell’ordine che permetteva a un viaggiatore come lui di spostarsi su distanze immense, sempre ritrovando abitudini, cibi, modi di vita e soprattutto lavoro. «Non c’è avventura che capiti a un viaggiatore che io non abbia largamente provata – raccontava –, fuorché il mendicare e il commettere grave peccato: ho fatto il faqih e il maestro di scuola, l’asceta e il devoto, ho dato lezioni di diritto e di belle lettere, ho predicato sui pulpiti, ho fatto il muezzin e l’imam, e il concionatore nelle moschee cattedrali; ho frequentato le scuole, fatto propaganda nelle assemblee, parlato nei salotti; ho mangiato la harissa con i sufi, la zuppa con i cenobiti, la polenta con i marinai; sono stato cacciato via la notte dalle moschee, ho percorso le steppe, errato nei deserti...».
Ed ora misurava il Mediterraneo, veleggiando verso i limiti estremi del mondo, verso al-Andalus, la Spagna musulmana. Ci voleva parecchio per attraversare la costa dell’Africa settentrionale: una volta lasciato l’Egitto, si incontrava Tripoli di Libia, dopo 17 giorni si giungeva a Mahdia, poi 16 giorni in direzione nord per arrivare a Tunisi, ben 43 giorni per giungere sino ad Orano e ancora 28 per Tangeri, agli estremi confini del Mediterraneo. C’era tutto il tempo per fermarsi a considerare le meraviglie del luogo. A cominciare dal corallo, naturalmente.
Bossadh o marjan lo chiamavano gli arabi, con due parole entrambe di origine persiana: e dietro c’era l’idea più generale di gioiello del mare, visto che nel Corano la parola marjan indicava in realtà le perle. Naturalmente non si trattava di una scoperta dei tempi dell’islam. Il corallo era infatti un antico e ben noto tesoro mediterraneo.
Rosso, intenso: un ramoscello all’apparenza esile di poche decine di centimetri. Lo si trovava sotto il mare, a poca distanza dalle coste, fissato sulle scogliere in profondità. Cosa fosse esattamente non lo sapeva nessuno. Greci e latini, giudicando dalla forma, si erano per lo più convinti che fosse una pianta. Lo aveva detto il medico Dioscoride e l’aveva ribadito Ovidio nelle Metamorfosi, che al tutto aveva aggiunto un mito: dopo aver decapitato la Medusa, Perseo avrebbe posto la testa della Gorgone in un sacco, coprendola con alghe e giunchi nati sott’acqua, che al contatto col sangue si erano pietrificati assumendo il colore rosso, e ramificarono a mo’ di serpenti. E la natura dei coralli, aveva aggiunto il grande scrittore latino, conservava questa caratteristica, cioè di acquistare rigidità al contatto con l’aria, così che quello che sott’acqua era giunco, sopra diventava pietra. Ed è per questo che il corallo rosso, nato dal sangue di Medusa, ancora oggi è detto «gorgonia» o «pietra del sangue».
Qualunque cosa fosse, comunque, era bellissimo a vedersi e, come tutti i veri gioielli, desiderabile. Aveva forma d’albero, era rosso come il sangue, affiorava dagli abissi marini... naturale che i suoi poteri fossero eccezionali: ottimo per fermare le emorragie, perfetto contro i veleni e in generale di grande utilità come amuleto (una dote che la tradizione popolare ancora gli riconosce, a giudicare dai corni di corallo napoletani). Un vero e proprio oggetto del desiderio, insomma ricercato ed esportato in tutto il mondo conosciuto, dall’India, dove ve ne era un’enorme richiesta, sino all’estremo nord, in Gallia, dove veniva usato per ornare elmi, scudi e spade.
Lo pescavano ovunque nel Mediterraneo: San Vito lo Capo, Trapani, Tabarka, Marsiglia, Alghero, Sorrento. Ma quelle erano indicazioni di massima che andavano bene per i geografi: le zone di produzione, quelle precise, nascoste sotto gli scogli, erano un segreto gelosamente custodito dai pescatori. Quando era caduto l’impero romano, molte cose erano cambiate nel Mediterraneo ma non la tradizione della pesca del corallo: cristiani e musulmani avrebbero continuato a praticarla per secoli senza troppe differenze di tecnica e di tradizione.
La descrizione fatta da al-Muqaddasi del X secolo corrisponde a ciò che nel mondo latino si poteva leggere nello stesso periodo; ad esempio nel Lapidario, il libro sulle pietre di Marbodo di Rennes (m. 1123), che metteva assieme miti e pratiche legate a quel tesoro marino:
Il corallo è una pietra, ma una pianta quando vive in acqua.
Strappato dalle reti, o tagliato dal ferro aguzzo,
al contatto dell’aria diventa più duro e impietrisce;
e quello che era di color verde diviene rosso scuro.
Il corallo sembra un ramoscello di arbusto
lo si trova non più lungo di mezzo piede,
e se ne traggono gioielli adatti a molte persone,
dato che lo si ritiene giovevole a chi lo porta.
Ha potere mirabile, dice Zoroastro,
e come scrive Metrodoro ottimo scrittore
allontana fulmini, tifoni e tempeste
dalla nave, dalla casa, dal corpo, ovunque lo si porti.
Disperso poi tra le vigne o tra gli oliveti
o gettato dai contadini con i semi tra le zolle
allontana il flagello dei dardi della grandine,
moltiplicando i frutti e confermandone la fertilità.
Espelle le ombre demoniache e i tèssali mostri.
Offre facili accessi e vie favorevoli.
Forse anche per questo, per la moltitudine dei doni che esso offriva, il corallo era così difficile da ottenere. La sua pesca era infatti una pericolosa avventura: pochi uomini e una barcaccia. Quando si giungeva nel luogo conosciuto si buttava a mare lo strumento: una croce di legno tratta da una fune appesantita da una pietra, con reti agganciate alle braccia. Tutti pescavano così: la descrizione che ne fa al-Muqaddasi corrisponde alla perfezione anche agli usi dei latini cristiani, che lo strumento lo chiamavano ingenium. Sulla barca non c’era molto di più: una caldaia e i remi; poi, verso il XV secolo, una bussola e una lanterna.
Per molto tempo anche la lavorazione continuò ad essere la medesima: prima si intagliava il ramo di corallo con una lima, poi si tagliava con una tenaglia, quindi si perforava il ramo con un trapano, infine si arrotondava e si levigava. Quello che ne usciva erano grani rotondi e perforati, che tra i cristiani servivano per i Paternoster, il prototipo del rosario, e allo stesso modo tra i musulmani per il tasbih, con cui recitare i 99 nomi di Dio; ma andava bene, una volta esportato in Oriente, anche per recitare le preghiere buddhiste.
Il corallo era costoso, ovviamente: non stupisce che poco a poco cominciasse a far bella mostra di sé sulle tavole dei nobili. Grezzo, in rami, incastonato in argento; ma anche gemma, fermaglio, bottone, anello e così via. Ci volle tempo e un’arte tutta moderna perché la lavorazione del corallo diventasse vera scultura. In Italia attorno al Seicento si raggiunse un livello di grande raffinatezza, tra incisioni, bassorilievi e vere e proprie sculture. Di lì l’arte si diffuse un po’ ovunque, in Turchia, in Francia, in Spagna, anche se alcuni dei più importanti centri di lavorazione continuarono ad essere italiani, come Torre del Greco (Napoli) e Trapani.
Un bene di lusso, insomma, una pietra preziosa. Ma il corallo non è una pietra. E neppure una pianta, se è per questo. Il corallo è un animale, e si è dovuto arrivare sino al XVIII secolo per capirlo. Più precisamente, l’arboscello del corallo, detto cormo, è in realtà una colonia di animaletti impiantati lungo i rami. Animaletti minuscoli, cosine di uno o due millimetri, simili a fiorellini bianchi con otto tentacoli. Piccoli polipetti che a ogni movimento dell’acqua in cui vivono si retraggono rapidamente in quella sorta di nicchia in cui sono impiantati. I forellini che vediamo nei rami di corallo sono appunto la loro traccia.
Ed è qui che si scorge il problema. Crescita, sviluppo, sfruttamento: il corallo è un buon esempio del sottile equilibrio del mare e di come sia rischioso abusa...

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