Blues
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Edoardo Fassio

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Blues

Edoardo Fassio

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È il blues. È il suono più onesto e imitato della storia della musica popolare. Sgorga dal cuore pulsante della popolazione nera degli Stati Uniti dAmerica e incorpora sofferenza, disagio, dubbio, inquietudine, fatalismo. Come un rimedio omeopatico è in grado di liberare chi lo canta e chi lo ascolta dalle tensioni e dalle amarezze. Il blues, la musica, è il miglior antidoto ai blues, alla malinconia, alle preoccupazioni, allo spleen esistenziale. E invariabilmente piace a quelli che ne hanno più bisogno.

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A due passi dal blues. L’età del rock ’n’ roll

Non fa nessuna differenza quello che tu fai o dici / io sono qui a perdonare / sono così stanco di abitare / a due passi dal blues. (Bobby Bland – autori: Deadric Malone, Johnny Brown)
Composta dal chitarrista Texas Johnny Brown, la ballad Two Steps From The Blues consacrò definitivamente Bobby Bland sovrano indiscusso tra il pubblico nero. Come metrica si collocava a ben più di soli due passi dal blues, caso mai era più prossima al languido ballo liscio di borgata. Eppure, al di là della forma, l’ouverture orchestrale curata da Joe Scott, imbarazzantemente dark, le terzine di accordi del chitarrista Wayne Bennett, spezzate come il cuore del cantante, la paziente eleganza nell’enunciazione rappresentano un esempio tra i più sinceri del blues moderno.
Bobby «Blue» Bland è l’archetipo dello stand-up singer, che esegue il repertorio «all’impiedi», salvo l’occasionale coup de théâtre durante la sua interpretazione di Stormy Monday, che lo porta a genuflettersi quando è ora di «mettersi in ginocchio e pregare».
La peculiarità di cantare e basta, senza suonare alcuno strumento né assumere atteggiamenti stravaganti o travestimenti glamour, oltre alle evidenti derivazioni dai manierismi di Bing Crosby, Tony Bennett e Perry Como, sicuramente gli ha a lungo alienato l’affezione dei cultori bianchi, puritani, passatisti, solitamente in ritardo di qualche dente sulla ruota della storia. Eppure le referenze di Robert Calvin Bland erano più che impeccabili. Iniziò a mettersi in luce verso il 1951, quando fu cooptato nella frizzante scena musicale di Memphis dominata da un elastico team di giovani, promettenti musicisti. Attivi nei locali attorno a Beale Street, la Broadway nera della città, erano collettivamente noti come «Beale Streeters». Il leader ufficioso era B.B. King, che stava capitalizzando la sua popolarità di dj alla wdia per affermarsi come interprete; accanto a lui c’erano personaggi che presto avrebbero assaggiato briciole di notorietà: il torch singer Johnny Ace, Rosco Gordon, estroverso pianista e collega radiofonico di King, il batterista Earl Forest e l’armonicista Junior Parker. Quando il ventenne Bland diventa un Beale Streeter è grezzo e imbranato, ma sta già studiando i segreti dell’entertainer. Era in familiarità fin da bambino con le stelle bianche del versante hillbilly, Ray Acuff e Hank Williams, stava rapidamente aggiornando la sua cultura in blues grazie alle nuove entries delle radio nere come T-Bone Walker, Roy Brown e Lowell Fulson e sicuramente non gli aveva nuociuto il breve apprendistato in un quartetto gospel. Aveva serissimi problemi negli attacchi e nel tenere il tempo, di conseguenza rimase in panchina, limitandosi a fare da autista, valletto o assistente di B.B. King e di Rosco. Le prime registrazioni, con Parker e Ike Turner, pur primitive e sfuocate, gli forniranno le credenziali sufficienti per una scrittura con la neonata Duke Records, che si accaparrò l’intera carovana con l’eccezione di B.B. King.
È ancora fresca la firma del contratto che Bland se ne parte per il militare. Nei due anni e mezzo di sua assenza la Duke era stata rilevata da Don Robey, l’affarista di Houston che coltivava un’attenzione particolare per Johnny Ace. Fenomeno in irresistibile ascesa e idolo del pubblico femminile, Ace era il suo pupillo, un’apparente miniera d’oro sul punto di fare breccia anche oltre gli steccati delle platee rhythm and blues, nell’indistinto ma sconfinato mercato pop. Invece, la notte di Natale del 1954, trova una fine assurda nell’intervallo di uno spettacolo al City Auditorium di Houston. Un tragico incidente, forse una mano di roulette russa giocata sul numero sbagliato, riferirono le cronache dell’epoca, ma permangono dubbi che quella morte, «l’unico caso di suicidio con quattro pallottole nel cranio», fosse stata procurata perché Ace aveva intenzione di passare alla concorrenza. La fama di Don Robey è controversa, ed episodi di brutalità da piccolo gangster sono ricorrenti nelle memorie dei suoi collaboratori almeno quanto indubbie testimonianze di generosità e altruismo. Fatto sta che, scomparso il romantico Ace (ma non dimenticato: persino Paul Simon dedicherà alla sciagura una soffice ballata nel 1983), dovette trovarsi un nuovo asso, e la scelta cadde sul neocongedato Bobby Bland.
In studio di incisione un talentuoso team di arrangiatori, strumentisti e orchestratori sperimentarono su di lui un rifinito stile urbano. Il direttore artistico Joe Scott lavorò a fondo sulla dizione e sulla pronuncia di Bland, perfezionando il naturale calore e lo studiato intimismo delle sue prestazioni di gola, e lo circondò di un suono vigoroso, da piccola big band. Inserì complesse voci strumentali, assegnò un ruolo essenziale alla chitarra e diede una turgida, drammatica pienezza al sound grazie a una scintillante sezione di ottoni. Occorrono anni per raffinare l’artista, ma alla fine dei Cinquanta l’elaborazione del personaggio è pressoché compiuta, e il pubblico ha già preso a esserne ipnotizzato. Il primo successo è Farther Up On The Road, un jump a tempo moderato in cui l’amante defraudato lancia un sinistro avvertimento alla sua ex: «Più avanti, lungo la strada, dovrai raccogliere quel che hai seminato». Il bluesman Bland proietta sull’ascoltatore (specie sul bel sesso) un’immagine ambigua, iperrealistica, amplificando doti e difetti del maschio nero americano. È un ruolo distante dalla vanagloria del Muddy Waters di Hoochie Coochie Man o di I’m Ready. Il macho Bland è pronto a proteggere la sua pupa in I’ll Take Care Of You e Call On Me, brani dall’inquietante tenerezza, ma diventa un fragile, vulnerabile ragazzino da difendere in Little Boy Blue o You’re All I Need. Verace precursore della soul music, il «playboy con a whole lot of soul» (come si proclama in Good Time Charlie) emana un persistente, profano sentore di chiesa in opere d’arte come Turn On Your Love Light, Yield Not To Temptation e Don’t Cry No More. Una trilogia sublime, in cui al sottofondo pulsante, col nervosismo quasi isterico delle funzioni fondamentaliste, il paterno predicatore in r&b infonde sentimenti quasi troppo intensi per le parole, con la comunicativa di B.B. King e il clamore rauco di Ray Charles. A differenza di altri interpreti soul, non ricorre a un fraseggio improvvisato, a strepiti o a toni spezzati. Il suo baritono pattina su un tessuto di coinvolgente, melanconica colloquialità. Fumoso come i club che lo hanno portato alla gloria, è melodicamente liscio come il velluto in alcune parti, brusco come carta vetro in altre, e, oltre alle inflessioni evangeliche di Ira Tucker dei Dixie Hummingbirds e del reverendo C.L. Franklin, padre di Aretha, denuncia influenze del chiaro, elegante fraseggio dei crooner bianchi del suo tempo.
Nello scrutinio sintetico delle charts della rivista «Billboard» nei decenni Cinquanta-Sessanta, Bobby Bland figura al quarto posto in popolarità tra gli artisti del periodo, dietro a James Brown, Ray Charles e Fats Domino, ma prima di B.B. King, Aretha Franklin e Marvin Gaye. Trentasei entrate nei best seller del rhythm and blues tra il 1957 e il 1970 mostrano il leale, continuativo seguito di Bobby tra la sua gente. Rari sono invece gli sfondamenti presso il pubblico al di fuori del ghetto, se si esclude il considerevole seguito di studenti delle fraternities universitarie meridionali; Bland in scena è statico, non ricorre agli istrionismi di James Brown o Little Richard, non è un chitarrista da cui gli imitatori bianchi possano apprendere lezioni ed è restio a viaggiare in aereo. Il suo stile, sofisticato, multiforme e moderno, è stato snobbato dai cultori del blues revival che non volevano correre rischi. Spostarsi a «due passi dal blues» era fuori questione, e il re del chitlin circuit veniva frettolosamente derubricato come «troppo commerciale».
Vecchio socio degli esordi a Beale Street, Junior Parker tornò a dividere le scene con Bland nel pacchetto itinerante «Blues Consolidated», che presentava con orgoglio almeno due attrazioni al prezzo di una. Viaggiarono insieme per sette anni, fino al 1961, quando ciascuno si convinse di essere abbastanza famoso da poter fare a meno dell’altro. Cantore morbido e suadente, Parker fu innovatore al pari del collega; si era specializzato nell’accostare a rifinite partiture orchestrali il suono un po’ demodé dell’armonica, che aveva imparato direttamente alla scuola di Sonny Boy Due. Al suo esteso, seminale repertorio attingeranno parecchi successori. Le sue riprese di classici ante bellum – soprattutto Sweet Home Chicago e Driving Wheel – hanno segnato un’epoca che da Magic Sam arriva ai Blues Brothers. Si è già detto di quanto Elvis Presley, ma pure il regista Jim Jarmusch, abbiano valorizzato a dovere Mystery Train. Dal canto loro, i postmoderni manchesteriani Chemical Brothers a introduzione delle performance ancor oggi non possono fare a meno di Tomorrow Never Knows, pezzo dei Beatles, d’accordo, ma nella squisita versione junior-parkeriana con l’organo di Jimmy McGriff.
Bland e Parker, più o meno consciamente, sono stati strumenti di un’evoluzione del blues in un’era poi definita «di transizione». L’impalcatura della loro arte era strettamente legata alla tradizione, ma preferenze personali e l’attenzione al gusto mutevole del pubblico (quella che più tardi, e non sempre in termini denigratori, sarà detta «propensione al mercato») li convinsero ad accogliere elementi diversi: accenti pop, country, gospel e del parallelo universo della canzone commerciale – non solo nera. Ironicamente, talento e duttilità non furono sufficienti a includerli nel firmamento del rock ’n’ roll. Per lo più ignoti al pubblico generalista, oggetto di tarde e dubbiose attenzioni da parte dei guru del blues revival, sono rimasti delle stelle prevalentemente nere.
Una sorte curiosa accompagnò l’ultimo dei ragazzi di Beale Street, Rosco Gordon. Il pianista e cantautore autodidatta era stato per tutti gli anni Cinquanta alfiere di uno shuffle ginnico e spensierato, con preferenza per testi allampanati e tempi in levare, come nella spiritosa No More Doggin’. L’amabile rhythm and blues che aveva tenuto in pista era di stampo più rustico e approssimativo di quello degli ex colleghi di Memphis, assai popolare alle feste e con confortevoli riscontri di vendite e assidue rotazioni per radio. Proprio le onde radio delle potenti emittenti del Sud degli States avevano fatto giungere il suo beat infettivo agli intraprendenti dj di piazza e manipolatori di sound system in Giamaica, che si rifornivano di dischi con regolari puntate in Tennessee. Già innamorati dell’agile boogie e jump blues di Louis Jordan, Amos Milburn e Fats Domino, nell’isola adottarono Gordon come padre putativo della nascente via giamaicana al r&b, lo ska. Alcuni critici lo considerano addirittura «il seme del reggae, non la radice ma il seme». Rilocalizzato negli anni Sessanta nell’area di Rego Park a Queens, New York, Gordon si era nel frattempo fatto da parte, incidendo qualche 45 giri in un business privato che gestiva con la moglie. Ospite di una trasmissione radio, gli ca...

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