La Repubblica degli italiani
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La Repubblica degli italiani

1946-2016

Agostino Giovagnoli

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La Repubblica degli italiani

1946-2016

Agostino Giovagnoli

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Immigrazione, guerre, terrorismo e crisi dell'Europa sembrano oggi problemi insormontabili. Di fronte a queste sfide, gli italiani appaiono incerti tra ripresa di un forte progetto comune e rassegnazione al declino. Dopo la Seconda guerra mondiale, sulle rovine lasciate dal fascismo, dal disastro bellico, dal crollo politico-istituzionale, la Repubblica italiana nasceva sulla spinta di un fortissimo slancio ricostruttivo, cui contribuì anche un inedito coinvolgimento della Chiesa. Nonostante lo scontro fortissimo tra comunismo e anticomunismo, la democrazia consensuale della Prima repubblica – con De Gasperi e Moro, Togliatti e Berlinguer, Nenni e La Malfa – ha poi unito gli italiani di fronte alla sfida di un cambiamento economico-sociale rapidissimo. Il tramonto della 'Repubblica dei partiti' – con Craxi e Andreotti – e il bipolarismo iperconflittuale della Seconda hanno rispecchiato invece divisioni e impotenza davanti a problemi come debito pubblico e rallentamento dell'economia. In entrambi i casi, le vicende nazionali sono state strettamente legate all'evoluzione del sistema internazionale. Al nuovo ordine economico post-bellico imperniato sugli Stati Uniti è poi subentrata, a partire dagli anni settanta, una globalizzazione che ha cambiato le società occidentali, travolto il blocco sovietico e imposto un 'nuovo disordine mondiale'. In queste ultime trasformazioni si radicano anche la crisi della democrazia rappresentativa, la fine dei partiti di massa e il tramonto di classi dirigenti in grado di rappresentare i popoli e governare gli Stati. Alle origini del nostro presente, insomma, c'è la trama profonda della storia repubblicana.

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Information

Year
2016
ISBN
9788858126929

VI.
Il pentapartito

Il Congresso del «preambolo»

Con la fine della solidarietà nazionale, è iniziata una crisi dei partiti che questi non sono stati più in grado di fermare1. Uno dei principali protagonisti della stagione finale della Prima repubblica è stato indubbiamente Bettino Craxi. Eletto segretario nazionale del Psi dopo l’umiliazione subita da questo partito il 20 giugno 1976 – quando ottenne il 9,6% dei voti mentre sia la Dc sia il Pci si attestavano oltre il 30% – Craxi spinse i socialisti verso un cambiamento radicale2. Il Psi craxiano non sarebbe tornato né all’alleanza organica con i democristiani, né alla subalternità ai comunisti3. Il dibattito sulla «questione democristiana», acceso alla metà degli anni settanta, ha lasciato in questo senso un’eredità permanente. Craxi – che pure ha liberato il suo partito da una vecchia tradizione anticlericale, non ha mai accettato di identificarsi in pieno con le posizioni del Partito radicale e ha realizzato l’accordo finale per la revisione del Concordato nel 19844 – raccolse a suo modo la spinta secolarizzante e modernizzante, emersa dopo il referendum del 1974, ad eliminare la «centralità» della Dc5.
Per quanto riguarda i rapporti con il Pci, tra i segnali più clamorosi del cambiamento socialista ci fu un’intervista in cui il segretario del Psi ripudiava totalmente Marx e rilanciava gli ideali del socialismo premarxista6. In questo modo Craxi confermò l’orientamento di sinistra del Psi, ma contemporaneamente prese anche le distanze da gran parte della storia del suo partito, denunciò l’anacronismo del comunismo e si pose in un atteggiamento di superiorità culturale rispetto al Pci, che ne presupponeva un’inevitabile «annessione» al Psi7. Il nuovo leader socialista si propose, insomma, l’obiettivo ambizioso di rovesciare i rapporti di forza rispetto ai due partiti maggiori e di lanciare un ruolo decisivo del Psi in alternativa ad entrambi. Nel linguaggio dell’epoca si parlò di uscire dal «bipolarismo».
La svolta craxiana ha comportato anche un radicale rinnovamento interno del suo partito, con l’emarginazione del vecchio gruppo dirigente e l’affermazione indiscussa della sua leadership8. Nella fase iniziale, Craxi è stato affiancato da un gruppo di giovani intellettuali, molti dei quali raccolti intorno alla rivista «Mondoperaio»9. Grazie al loro contributo, il Psi ha abbandonato gran parte del fardello ideologico che lo appesantiva ed è diventato recettivo alle novità che venivano emergendo in Italia e nel mondo. Quando Craxi ha acquistato un controllo pieno del partito, il ruolo degli intellettuali è stato drasticamente ridimensionato10; diversi di loro però sono diventati i suoi principali collaboratori, nel Psi e al governo. Abbandonare le vecchie incrostazioni ideologiche ha significato anche perdere molti vecchi militanti e una parte dei vecchi elettori. Craxi però non ha rilanciato una nuova realtà organizzativa del partito, né ha curato un suo nuovo radicamento nella società italiana. È un elemento di debolezza, che è diventato evidente con Tangentopoli, espressione di un intreccio tra politica e affari che rifletteva la debolezza a livello di base dei grandi partiti nazionali, in primo luogo di quello socialista11.
Il tentativo di rovesciare i rapporti di forza con Dc e Pci imponeva a Craxi di rendere il Psi indispensabile per la formazione di qualsiasi di governo. Ciò significava, in primo luogo, evitare che Dc e Pci intraprendessero la strada di un accordo che avrebbe reso il peso del Psi ininfluente. Era dunque nell’interesse di Craxi sottolineare la persistenza del fattore K – come venne chiamato negli anni ottanta – che escludeva i comunisti dal governo a causa dei loro legami con l’Urss. Il leader socialista, inoltre, non contemplava un rinnovamento del Pci che passasse per un avvicinamento di questo partito alla Dc come quello che si era realizzato con la solidarietà nazionale e che aveva favorito un alleggerimento dei loro tradizionali legami ideologici e internazionali.
Con un Pci condannato all’opposizione, la Dc era obbligata a cercare la collaborazione di governo con il Psi, che infatti si è realizzata – tra alterne vicende – fino al 1992. Ma la strategia di Craxi puntava a sviluppare tale collaborazione senza dimettere una forte concorrenzialità con questo partito. Era perciò impossibile che il rapporto tra Psi e Dc si trasformasse in un’alleanza vera e propria. Non a caso, il pentapartito non è mai stato, a differenza del centro-sinistra degli anni sessanta e settanta, una vera e propria coalizione politica.
Con la sua azione, insomma, Craxi ha portato una linfa nuova nella politica italiana e contribuito a costruire inediti collegamenti tra società e partiti, ma ha anche contribuito ad accentuare una conflittualità che ha logorato il sistema politico. Da un lato, infatti, ha esercitato in modo esasperato il suo potere di coalizione, ostacolando – soprattutto quando non è stato alla guida dell’esecutivo – la formazione di maggioranze coese e un’efficace azione di governo. Dall’altro, ha sviluppato una conflittualità con il Pci che ha reso più difficile un incontro tra le «due sinistre» e la costruzione di un soggetto socialdemocratico compatibile con il sistema, in grado di competere per il governo12. Craxi, insomma, ha legato il successo del suo partito al declino della democrazia consensuale e alla fine della Prima repubblica che egli ha contribuito a preparare. Ma non è riuscito ad operare efficacemente per un nuovo modello politico-istituzionale, in cui il Psi avesse un ruolo centrale, finendo schiacciato sotto le rovine del vecchio sistema.
L’iniziativa politica craxiana si è sviluppata con la maggiore intensità innovativa tra il 1979 e il 1983, mentre si consumava il tramonto della centralità democristiana ed emergeva una crescente instabilità del sistema politico. Dopo le iniziative socialiste durante il sequestro Moro – che irritarono fortemente la dirigenza democristiana13, anche se non dispiacquero a quanti nella Dc vivevano con insofferenza il rapporto con il Pci, tra cui Fanfani e Donat Cattin – e le dimissioni forzate di Leone, che avevano aperto la strada all’elezione di un socialista alla Presidenza della Repubblica14, i democristiani si trovarono nel 1979 prima davanti all’interruzione anticipata della legislatura, per la fine della collaborazione con il Pci e subito dopo le elezioni davanti all’incarico conferito a Craxi da Pertini15. Per quanto destinato al fallimento, quell’incarico era rivelatore di un’evoluzione della situazione politica che rafforzava la posizione socialista in presenza di una divaricazione crescente tra i due partiti maggiori. Antonio Maccanico, stretto collaboratore di Pertini, notò allora: «Craxi è il vero responsabile del naufragio della politica di solidarietà nazionale e cioè della politica che vede la soluzione dei problemi del paese in una forma di collaborazione tra i due maggiori partiti (Dc e Pci). Dalle ceneri del fallimento di questa politica Craxi viene fuori con un incarico di formare il governo. Qual è il significato di questo fatto e quali saranno i contraccolpi? Sicuramente una maggiore divaricazione tra Dc e Pci»16.
La maggioranza della Dc prese l’incarico a Craxi del 1979 come uno schiaffo17: lo giudicò politicamente ingiustificato e ispirato alla volontà punitiva di ridimensionare il ruolo del partito di maggioranza relativa18. Il tentativo fallì immediatamente, ma costituì un segnale delle nuove dinamiche in cui era entrata la politica italiana. Inaspettatamente, infatti, nel Congresso della Dc che si svolse nel febbraio 1980 prevalse la chiusura verso i comunisti e il riavvicinamento ai socialisti. Si verificò una spaccatura tanto imprevista quanto profonda, evento inusuale nella storia di questo partito, e prevalse con il 57,7% dei voti la linea del «preambolo»19. A proporlo fu Carlo Donat Cattin, da tempo polemico nei confronti dei comunisti – in particolare durante il sequestro Moro – e padre di un militante nel gruppo terroristico di sinistra Prima linea, arrestato alla fine del 1980 per l’assassinio del giudice Alessandrini. Per questo leader democristiano, a carico del Pci si sommavano la responsabilità storica della nascita del terrorismo rosso e quella di aver imposto, durante il sequestro Moro, limiti severi ai tentativi sia di colpire con durezza le Br sia di salvare il presidente della Dc.
Non tutti, nella Dc, condividevano risentimento e ostilità nei confronti del Pci e non tutti ritenevano utile insistere sul passato per uscire dalla stagione del terrorismo20. Ma al Congresso del 1980 la componente che avrebbe voluto riprendere la «solidarietà nazionale» si scoprì improvvisamente minoritaria. Pesò certamente in questo senso il ritiro di Zaccagnini, duramente provato dalla vicenda Moro, che privò questa componente – da Andreotti alla sinistra Dc – del suo leader naturale. A favore del preambolo votarono – oltre ad una parte di Forze Nuove, la corrente di Donat...

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