Diritto sconfinato
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Diritto sconfinato

Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale

Maria Rosaria Ferrarese

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Diritto sconfinato

Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale

Maria Rosaria Ferrarese

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Lo scenario giuridico è oggi affollato da nuove modalità di diritto, che superano o eludono i confini statali, reinventando il proprio spazio e le proprie funzioni, nonché il rapporto con la politica e la tecnica. Diritto sovranazionale e diritto transnazionale sono le due principali incarnazioni di diritto 'sconfinato', che questo libro analizza. Emerge così l'identikit di un assetto giuridico globale mobile e interdipendente, dotato di inedite capacità comunicative.

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Information

Year
2015
ISBN
9788858118481

I. Globalizzazione e giochi di sconfinamento del diritto

1. Il mondo è una torta? Gli esordi del diritto internazionale tra spazi e linee

L’idea che il mondo si possa spartire come una torta è stata spesso rappresentata graficamente per esigenze illustrative di vario genere; ma essa ha anche significativamente animato il teatro umano specie durante quel pezzo di storia, detta moderna, che vide l’Europa, allora centro del mondo, irradiare i propri criteri di organizzazione politica nell’intero globo. La centralità politica dell’Europa si accompagnava d’altra parte a una parallela centralità economica: nei termini di Wallerstein, a partire dal XVI secolo si instaurò «un’economia-mondo europea», ossia una struttura organizzata attraverso la divisione tra «Stati del centro e aree periferiche», i cui confini non erano politici, ma economici1.
L’immagine della torta contiene in sé un implicito riferimento all’appetibilità della stessa, ai desideri di appropriazione che suscita. Alla base, tuttavia, non c’è solo il riferimento agli appetiti di potere, che accompagnavano la formazione delle varie potenze europee, ma anche, per così dire, due necessari presupposti per il destarsi di tali appetiti. Innanzitutto l’idea che gli spazi del globo (non europei, beninteso) fossero «vacanti» o «vuoti», res nullius secondo la definizione del diritto romano, ossia a disposizione di chi volesse o potesse appropriarli. Come nota Braudel, «la regola è normalmente che le civiltà giuochino e vincano: vincono sulle ‘culture’, vincono sui popoli primitivi, vincono anche sullo spazio vuoto»2. Ciò significava d’altra parte che tali territori «appropriabili» venivano percepiti come essenzialmente inanimati, puri oggetti destinatari di volontà, ricettori senza vita, incapaci di reattività. Contro questa percezione non ostava il fatto che quegli spazi spesso vuoti non fossero, in quanto erano abitati da popoli indigeni: si trattava di una «complicazione» che bisognava risolvere3.
Questa concezione non appartiene solo alla storia più remota: specialmente l’Ottocento, con le sue sfrenate pulsioni colonialiste4, ne è pienamente impregnato. La storia del Congo è esemplare ed estremamente istruttiva sotto tale profilo: vale dunque la pena di riprenderla, sia pure per sommi capi. Questo paese, rimasto in parte ignoto alle mappe geografiche per la sua complicata formazione orografica, in seguito a un’epica, lunga e avventurosa impresa, conclusa nel 1877 e costata non poche vite, fu infine «scoperto» dall’esploratore inglese Henry Stanley. Questi fu in seguito ingaggiato dal re dei belgi Leopoldo II per aiutarlo a realizzare insediamenti su quel territorio, che fu successivamente assoggettato a occupazione militare e venne infine riconosciuto come una «proprietà privata» di questo sovrano dalla conferenza di Berlino del 18855.
La vicenda del Congo d’altra parte, pur se estrema, fu tutt’altro che isolata o eccezionale, in un periodo in cui ci si spartiva l’Africa «come una torta». Negli stessi anni i francesi, grazie al «proprio» esploratore Pierre Savorgnan di Brazza, piantavano a loro volta le proprie bandiere negli interstizi di quel territorio non occupati dal Belgio. Contestualmente, dall’altra parte dell’oceano, sul suolo americano, in un diverso contesto coloniale, la «frontiera» veniva spinta in avanti, spesso anche a costo di sanguinosi arretramenti delle popolazioni indiane ivi residenti, senza che ciò costituisse il minimo problema, e anzi dando luogo a una colorita epopea nazionale intorno a quei fatti6.
La vicenda del Congo può essere caricata di un valore esemplare, non solo e non tanto per l’epilogo – che sanciva, con un atto di diritto internazionale, un’appropriazione territoriale in capo a una persona, compiuta in assoluto spregio dei diritti umani dei popoli residenti e dell’intero continente africano – ma ancor più, forse, per la sua complessiva «ingegneria». Il primo tratto degno di nota è che all’origine di tale vicenda vi era un contratto, un istituto di diritto privato, siglato tra Leopoldo II e Stanley7. Interi territori e comunità erano dunque a rischio di venire «scoperti» da qualche avventuroso esploratore per conto di potenze europee e di essere appropriati come puri oggetti. D’altra parte, com’è stato notato, gli stessi viaggi di esplorazione erano spesso «atti di appropriazione»: «Stanley non era troppo dissimile da un topografo impegnato a effettuare rilevamenti nel continente che attraversava per conto dei futuri proprietari»8. Dopo l’epoca dei grandi esploratori di oceani e di territori9, mossi volta a volta dallo spirito di avventura, dalla sete di conoscenza o dal desiderio di guadagni, una generazione di nuovi esploratori al servizio di Stati o uomini assetati di ricchezze, con l’avallo di soggetti pubblici riconosciuti della comunità internazionale, si faceva «fonte di potenza dei sedentari»10.
Il carattere tutto privato ed «economico» del movente a scoprire nuove terre, oltre a fare perfettamente il paio con l’idea che queste altro non fossero che mere «cose», res nullius a disposizione di chi – fosse uno Stato, un sovrano o un privato – avesse la forza e la voglia di piantarvi il proprio vessillo11, trovava espressione anche in vari percorsi di legittimazione delle appropriazioni12. In tal senso, l’idea dell’«occupazione», che accompagna lungamente la storia politica moderna, fino alle conquiste coloniali e alla frontiera mobile americana, rappresenta anche un’istituzione giuridica vera e propria, che si può considerare una sorta di ombra lunga e sinistra che accompagnava la costruzione dell’economia-mondo europea. Anzi, al confronto con l’epopea di appropriazioni di terre e popoli compiuta nell’Ottocento, il secolo delle pulsioni coloniali per eccellenza, il passato si presenta talora più attrezzato a riconoscere alcuni diritti alle popolazioni indigene: basta far riferimento al celebre trattato di Francisco de Vitoria, che negava che l’occupazione fosse valido titolo giuridico per acquisire nuovi territori13.

2. Mondo e confini

In secondo luogo, a rendere possibile l’assimilazione tra mondo e torta era una situazione di crescente «leggibilità» del mondo, ossia una più estesa possibilità di conoscerlo nella sua composizione, di rappresentarlo graficamente, di penetrarne usi e costumi, rispetto al passato. Questa storia non ha avuto uno svolgimento lineare e, all’interno di quella «riconquista dello spazio» che è l’essenza stessa della modernità, sarà la politica a dare ad essa un senso nuovo14. Ancora tra XV e XVIII secolo «nessuno conosce l’intera popolazione del mondo». Le sole conoscenze sicure, munite di cifre, riguardano l’Europa e, grazie a «pochi lavori di buona qualità, la Cina»15. Vi sono stati periodi di grande avanzamento e periodi di assoluta stasi. Ad esempio, la straordinaria e continua avanzata dell’impero romano portò con sé una parallela crescita nella conoscenza del mondo, soprattutto dell’intero continente europeo e di parti di quello asiatico e africano. La civiltà medievale, dal volto sicuramente più statico, non mancò tuttavia di proseguire in parte questa impresa di conoscenza, non solo dando luogo all’esordiente commercio internazionale, ma anche attraverso straordinarie figure di viaggiatori, come Marco Polo e, più tardi, Matteo Ricci, che si avventurarono nelle parti più sconosciute del continente asiatico16.
Sotto il profilo della leggibilità del mondo, assume un valore chiave l’era che si apre nel 1492 con la scoperta delle Americhe: grazie a tale «evento», «per la prima volta l’uomo poté reggere fra le mani l’intero, reale globo terrestre come una palla»17, ossia osservarlo nella sua interezza come un oggetto compiuto. Questa data inaugurava dunque, in un certo senso, una nuova situazione più adatta a permettere tentativi di dare «ordine al mondo». Non a caso, già nel 1493, un anno dopo, tale tentativo prese corpo attraverso l’editto emanato da Alessandro VI, in forza della sua autorità papale, che divideva il mondo con una semplice linea, attribuendone le due metà a Spagna e Portogallo, come se si trattasse, appunto, di una grande torta18.
In generale, le spartizioni che hanno accompagnato la storia europea del XVI e XVII secolo sono riconducibili a linee tracciate sul globo e il mondo si divideva tra coloro che potevano tracciare quelle linee e coloro che dovevano subirle. L’esordio del diritto internazionale è strettamente intrecciato con tali linee e avrà alle spalle proprio il «fatto predominante di una comune conquista europea del Nuovo Mondo». Come Carl Schmitt dimostra in quel vero e proprio trattato sugli spazi e sul potere che è il Nomos della terra, non solo l’atto di fondazione, ma anche «il senso e il nocciolo del diritto internazionale cristiano-europeo, il suo ordinamento fondamentale», stavano infatti proprio nella «spartizione della nuova terra»19, da una parte stava l’Europa, dall’altra il territorio non europeo inteso come territorio coloniale, attuale o potenziale, «oggetto di conquista e di sfruttamento» da parte dell’Europa20.
Le linee che venivano tracciate per spartire il mondo erano di due tipi: le rayas e le «linee di amicizia». Le rayas venivano tracciate sotto l’egida della Chiesa, di comune accordo da spagnoli e portoghesi per suddividersi, in nome della cristianità, le «zone di missione», che certo «non potevano essere separate da quelle destinate alla navigazione e al commercio»21. Le amity lines furono tracciate più tardi dagli inglesi, e poi riconosciute in molti trattati, pur in assenza di un’autorità comunemente accettata quale era stata la Chiesa, e definivano una zona di lotta extra-europea a disposizione delle potenze, che potesse servire «a limitare la guerra europea»22.
La chiusura dell’epoca delle guerre di religione siglata dalla pace di Westfalia all’insegna del motto Cuius regio eius religio inaugurò l’epoca che, a partire dagli imperi23, avrebbe condotto agli Stati e alla sovranità statale24. In queste linee di spartizione che decidevano le sorti dell’intero mondo, l’idea della sovranità che andava consolidandosi sembrava esprimere il proprio netto carattere eurocentrico25, proiettando ombre lunghe capaci di farsi avvertire ben al di là dell’Europa, in una sorta di capacità extraterritoriale prolungata fino ai confini stessi del mondo. La sovranità si apprestava a coincidere con i territori degli Stati, ma al contempo faceva arrivare la pr...

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