Guida alla lettura della «Critica della ragion pratica» di Kant
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Guida alla lettura della «Critica della ragion pratica» di Kant

Filippo Gonnelli

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Guida alla lettura della «Critica della ragion pratica» di Kant

Filippo Gonnelli

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Un altro volume della serie «Guide alla lettura», che introduce il lettore a una delle opere più importanti del pensiero kantiano, attraverso la trattazione analitica delle tematiche fondamentali dell'opera e la ricostruzione della sua genesi e della sua fortuna.

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Information

Year
2015
ISBN
9788858121641

Capitolo terzo.
Analisi dell’opera

1. Prefazione e Introduzione

1.1. Che cosa significa ‘critica della ragione pratica’?

Nella Fondazione della metafisica dei costumi, Kant aveva definito «critica della ragione pura pratica» il procedimento incaricato di risolvere i problemi sorti nel corso della ricerca del principio supremo della moralità. Questa critica costituiva lo stadio ultimo della fondazione della metafisica dei costumi, lo stadio più specificamente fondativo di essa, e consisteva nel tentativo di spiegare come il soggetto morale potesse agire in base a leggi autonomamente definite dalla ragione, quindi di spiegare come fosse possibile la libertà della volontà. Questa spiegazione si dimostrava impossibile, e l’impossibilità veniva indicata da Kant come il limite estremo su cui l’indagine intrapresa nell’opera doveva consapevolmente arrestarsi (IV 446 sgg., 459-60). Se ne sarebbe dovuto dedurre che la «critica della ragione pura pratica» aveva come risultato l’attestazione non dei limiti della facoltà che essa aveva studiato (la ragione pura pratica) – come accadeva nel caso della critica della ragione pura speculativa – ma dei propri limiti.
Con la Critica della ragion pratica, questo risultato viene lasciato da parte: l’obiettivo dell’opera è diverso da quello della «critica della ragione pura pratica» così come essa viene svolta nell’opera del 1785, ed è inverso rispetto a quello della critica della ragione pura, che appunto dimostrava l’impossibilità dell’uso conoscitivo della ragione pura: qui si tratta di dimostrare che la ragione pura ha in quanto tale un uso pratico, ossia che la ragione pura è pratica.
Non sembra perciò avere senso la vecchia espressione ‘critica della ragione pura pratica’, usata nella Fondazione, perché appunto questo è l’oggetto di cui si deve dimostrare la realtà. Ora l’obiettivo è criticare la ragione pratica in quanto non sia consapevole, o non voglia essere consapevole, di poter essere pratica in quanto pura. La vera illusione della ragione pratica, in altri termini, è credere di poter essere realmente pratica come ragione non pura. Il concetto nuovo ed essenziale dell’opera del 1788 (anche se utilizzato non sempre in modo chiaro) è dunque quello di ragione pratica in generale, di ragione pratica non solo pura.
La seguente trattazione [s’intende la Prefazione stessa, N.d.A.] spiega abbastanza bene il motivo per cui questa Critica non è intitolata Critica della ragion pura pratica, ma semplicemente Critica della ragion pratica in genere, benché il parallelismo di essa con la ragione speculativa sembri richiedere il primo titolo. Essa deve semplicemente dimostrare che vi è una ragion pura pratica, e a questo fine ne critica l’intera facoltà pratica (A 3).
La seconda Critica non è una critica della ragione pura pratica perché, inversamente rispetto alla prima Critica, qui si tratta di affermare la possibilità dell’uso della ragione pura come uso pratico. Ossia, detto diversamente: l’uso pratico è l’unico uso legittimo, non illusorio, della ragione pura. Si deve dare dunque una critica della ragione pratica «intera», così come viene concepita, ad esempio, nella morale comune o nelle filosofie morali tradizionali, per distinguere al suo interno ciò che è puro da ciò che è empirico, e per dimostrare, infine, che la ragione pura è pratica in quanto tale, senza bisogno di rivolgersi a elementi esterni a essa (ossia a quegli elementi che distinguono la ragione pratica in generale dalla ragione pratica pura).
L’Introduzione (intitolata «Dell’idea di una critica della ragion pratica») spiega il compito dell’opera e inquadra in forma architettonica – ossia nelle loro relazioni con il complesso del sistema – i problemi che essa deve affrontare. La domanda fondamentale della critica della ragione pratica è la seguente:
Se la ragion pura basti per sé sola alla determinazione della volontà, oppure se soltanto come condizionata empiricamente possa essere un motivo determinante di essa (A 30).
Si deve fare attenzione a non fraintendere Kant. La determinazione della volontà da parte della sola ragione pura non implica che l’azione sia, secondo tutti i suoi rapporti, priva di qualsiasi condizionamento empirico, quasi fosse prodotta dal nulla. L’alternativa non è fra un agire assolutamente puro – a rigore impensabile – e un agire interamente condizionato – a rigore altrettanto impensabile. Il problema di Kant è se vi siano azioni che abbiano come fondamento, come autentica causa, come «motivo determinante», la ragione in quanto tale (nonostante queste azioni restino empiricamente condizionate per ogni altro rapporto che non sia il loro fondamento di determinazione), oppure se ogni azione, anche razionalmente progettata, abbia infine come motivo determinante uno stimolo, un istinto, un desiderio, insomma un elemento naturale e immediato, non veramente fondato sulla ragione come tale, sulla ragione pura. L’alternativa è chiara: se non si dà una ragione pura pratica, ma solo una ragione pratica in generale, essa non farà che regolare – per quel che può – istinti, desideri, pulsioni, e gli uomini saranno infine animali che sanno calcolare meglio degli altri; e, si badi, Kant ritiene che resterebbero tali – come si vedrà nella Dialettica – anche se fossero in grado di pensare un essere infinito che fosse il vero autore delle loro azioni. Se, invece, si dà una ragione pura pratica, allora gli uomini sono effettivamente liberi, integralmente responsabili delle loro azioni. In nessun caso, però, questa libertà implica il controllo sulla natura e la creazione ex nihilo di qualcosa. Se offriamo il nostro aiuto a qualcuno esso sarà comunque costituito da cose empiricamente condizionate (denaro, un’opera, una dichiarazione, ecc.); inoltre avverrà in un certo contesto di sentimenti, di paure, di speranze, ecc., e in certe condizioni sociali (ricchezza, povertà, dominio, subordinazione, ecc.) – tutti elementi che Kant ha ben presenti, e di cui non c’è alcun bisogno di parlare in una critica della ragione pratica; ma l’azione in cui si esprime questo aiuto dovrebbe secondo Kant essere morale, e dunque libera, quando ha come fondamento la legge formulata dalla ragione pura e non, invece, un altro qualsiasi motivo determinante (come la compassione, l’interesse o magari il desiderio di sembrare solidali). Il problema è dunque quello di comprendere se la ragione operi semplicemente per affinare o giustificare a posteriori un fondamento che resta, nella sua radice, irriflesso e naturale, oppure se la ragione possa costituire come tale (come ragione pura) il vero fondamento delle azioni dell’essere che la possiede, l’«essere razionale» (vernünftiges Wesen).
Kant dà anche una definizione dell’uso pratico in generale della ragione, che corrisponde del resto al suo concetto comune: «la ragione si applica ai motivi determinanti della volontà, la quale è una facoltà o di produrre oggetti corrispondenti alle rappresentazioni, oppure di determinare se stessa, cioè la propria causalità, all’attuazione di essi» (A 29). La ragione come facoltà «intera» ha un uso pratico, semplicemente, quando essa determini la volontà; questa ragione pratica è perciò in gioco ogni volta che si agisca sulla base di un principio, di un obiettivo pensato in precedenza, di un calcolo, e così via; dunque ogni volta che si agisca in senso proprio, non per riflesso istintivo (un problema che non può essere contemplato in una critica della ragione pratica, ma solo in una psicologia empirica). Come è chiaro, agire in base a un principio, in generale, non significa affatto che il motivo dell’azione venga dalla ragione pura: posso determinare razionalmente, ad esempio, le azioni necessarie a ottenere un certo oggetto del mio desiderio, e ottenerlo è appunto il principio che sta a fondamento delle mie azioni, ma ciò che ha motivato l’azione è l’oggetto e il mio desiderio per esso, non la ragione pura. È appunto questa ragione pratica in generale, in questa molteplicità e dunque anche opacità di significati, che viene sottoposta a critica:
Perciò noi avremo da trattare una critica, non della ragion pura pratica, ma soltanto della ragion pratica in genere, poiché la ragion pura, quando si sia dimostrato che vi è una tale ragione, non ha bisogno di critica. Essa stessa contiene la regola per la critica di tutto il suo uso. La critica della ragion pratica in genere ha dunque l’obbligo di distogliere la ragione condizionata empiricamente dalla pretesa di dar essa solo esclusivamente il motivo determinante della volontà (A 30-31).
Dimostrare la realtà della ragione pura pratica è il compito positivo della critica della ragione pratica. Una volta dimostrato che vi è una ragione pura pratica, sarà essa stessa a dare i criteri del suo uso (attraverso i suoi principii), e dunque a definire i suoi compiti e i suoi limiti. Il compito negativo della critica della ragione pratica in generale consiste infatti nel togliere fondamento alla pretesa che la ragione operi solo facendosi strumento della sensibilità (Kant pensava, ad esempio, a Hutcheson, all’epicureismo, al sensismo francese di De La Mettrie e Hélvetius, ma anche all’istintivo empirismo dell’intelletto comune). Si è perciò in una situazione inversa rispetto all’uso teoretico della ragione pura: mentre quest’uso è «trascendente» e dunque non produce conoscenza (non determina nulla di essa), l’uso pratico della ragione pura è il suo unico uso «immanente», ossia non illusorio, efficace, rivolto ad azioni reali che devono avere luogo nel mondo; viceversa, l’uso empiricamente condizionato della ragione pura pratica è sempre «trascendente» (A 31): concepire l’uso della ragione pratica come un uso semplicemente strumentale, che in fondo non opera se non organizzando finalità istintive meglio di quanto facciano gli animali, significa secondo Kant non considerare, illusoriamente, la condizione grazie alla quale è realmente possibile l’esperienza pratica, ossia appunto significa ‘trascendere’ questa condizione (in direzione inversa a quella in cui ‘trascendeva’ il preteso uso conoscitivo della ragione pura).

1.2. L’imperativo categorico nella «Fondazione»

La Fondazione, come abbiamo visto, era rivolta a definire e a fondare il supremo principio della moralità, che veniva espresso nelle formule (tre, in senso stretto) dell’«imperativo categorico»1. Ma cosa significa «imperativo categorico»?
«Imperativi», in generale, sono le regole pratiche oggettive, che contrastano con le inclinazioni; essi hanno perciò validità solo per quegli esseri la cui volontà non sia «assolutamente buona» (IV 413), gli esseri razionali finiti, la cui volontà può avere (e anzi di preferenza ha) come fondamento di determinazione stimoli sensibili.
La rappresentazione di un principio oggettivo, in quanto sia costrittivo per una volontà, si chiama comando (della ragione) e la formula del comando si chiama imperativo (ibid.).
Gli imperativi affermano in generale la necessità di un’azione, senza tenere conto delle inclinazioni del soggetto. Lo fanno però in due modi fondamentali, già accennati in precedenza. Quelli che affermano la necessità oggettiva del loro comando in modo subordinato a una certa condizione, e cioè un fine ulteriore rispetto all’azione, sono imperativi ipotetici. La loro forma generale è: se voglio A, devo fare B, dove allora B è necessario sotto la condizione che A sia il fine (ovviamente anche ‘voglio A, dunque devo fare B’, senza condizionale, è un imperativo ipotetico). Gli imperativi ipotetici sono regole pratiche oggettive (ossia la connessione che esprimono è necessaria, ed eventualmente costrittiva), ma non hanno nulla di intrinsecamente morale, seppure possano anche essere rivolti a un fine morale. Ad esempio, posso fare del bene a una persona, e costringermi perciò a un’azione contraria ai miei impulsi, con il fine della mia convenienza; ma posso anche farlo con il fine della santità.
L’imperativo categorico, al contrario,
rappresenta una azione, senza riferimento ad altro fine, come in se stessa oggettivamente necessaria (IV 414).
L’imperativo categorico è dunque l’espressione del concetto di un dovere assoluto e incondizionato, del dovere come tale, e l’azione che esso rappresenta è «buona in sé» (ibid.).
Alle regole oggettive in generale si oppongono le «massime», un termine che Kant utilizza per definire le proposizioni che enuncino il «principio soggettivo del volere» (IV 400, nota). Questo significa che tutti i principii pratici, tutti i principii che enunciano una regola dell’agire, qualunque contenuto abbiano, immorale o morale (ad es. ‘fare sempre i propri calcoli’, ‘non impicciarsi degli affari degli altri’, o ‘fare sempre il bene del prossimo’), in quanto vengano assunti dal soggetto come sue regole di comportamento, sono «massime». Non perché il soggetto non possa che concepire «massime» (può infatti anche formulare imperativi), ma perché quando il sog...

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