Sotto il segno del leone
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Sotto il segno del leone

Storia dell'Italia musulmana

Amedeo Feniello

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Sotto il segno del leone

Storia dell'Italia musulmana

Amedeo Feniello

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La penisola italica è un molo naturale, un ponte e un'antica via di scorrimento tra Africa, Asia Minore ed Europa e ha generato nei secoli un'infinita vicenda di approdi, di razzie, d'insediamenti, di scontri e d'incontri. Amedeo Feniello racconta magistralmente come l'Italia, tra IX e XIV secolo, sia divenuta parte integrante d'un mondo di terra, d'acqua, di vele e di vento, dominato dalla presenza arabo-berbera. Storie di guerrieri, d'incursori, di principi, di mistici, di mercanti, di schiavi: dall'epica degli emiri e dei conquistatori normanni allo splendore delle corti di Ruggero e di Federico fino alla tragedia dei musulmani di Lucera. Franco CardiniDura più di un sogno la presenza musulmana in Italia: quasi cinquecento anni, dall'inizio del IX secolo al 1300. Periodo in cui gran parte della Penisola diventa più Oriente che Occidente, più Africa e Asia che Europa, estrema propaggine, civilizzata ed evoluta, di un mondo che, tutto intero, andava da Cordova alle rive del Gange. Un'Italia per molti versi scomoda, dove tante generazioni vissero e pregarono lo stesso Dio da orizzonti diversi. Un mondo posto all'intersezione di culture, costumi, mentalità, credenze contrapposte, sempre in conflitto tra loro ma che, talvolta, convissero, alla ricerca di un comune equilibrio e di un rispettivo spazio di tolleranza e sopravvivenza.

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Information

Year
2014
ISBN
9788858112540

III. Quando in Italia c’era il «jihad»

Quelli che credettero
e che emigrarono
e lottarono sulla via di Dio,
possono sperare la misericordia di Dio, in quanto Dio perdona misericorde
(Corano, sura II, v. 218)

1. Il «jihad»

Ci sono storie, nel nostro Medioevo, che si fa fatica a raccontare, ridotte all’interesse di un pugno di specialisti. Come la storia del jihad che, per più di un secolo, i musulmani scatenano contro la Penisola. L’Italia marittima e il Mezzogiorno sono un obiettivo facile. Nel IX secolo, la frantumazione al Sud tra i tanti potentati locali rende la resistenza insufficiente, impalpabile. Per Ibn Kaldun, «in quel tempo i popoli cristiani si limitavano a navigare nelle coste settentrionali e orientali del Mediterraneo, oltre le quali i musulmani si avventavano su di loro e li sbranavano, come il leone fa con la preda». Ci si muove parzialmente liberi, dunque, solo nell’Egeo e nell’Adriatico. Ma i mari di fronte all’Africa sono tutti nelle mani musulmane. Almeno per ora. La nuova, grave crisi siciliana cominciata nell’827, non crea, nel Meridione cristiano, quasi alcuna reazione. Gli interessi sono volti altrove: agli scontri interni, a riaprire antiche e mai sopite rivalità, soprattutto tra la popolazione dell’interno, i longobardi, e le città tirreniche, che restano nell’orbita greco-bizantina. Nella politica meridionale non c’è concordia né unità di intenti. I principati longobardi di Benevento, Capua e Salerno vivono in una situazione di perenne contrasto, in continua tensione tra loro, che sfocia in estenuanti guerre civili. Nell’estrema punta della Penisola, il potere bizantino vacilla e lascia molti vuoti di potere. I ducati tirrenici, con a capo Napoli, vivono una situazione difficile, di oscillante equilibrio per la sopravvivenza, che spesso si traduce in aperta alleanza coi musulmani. Un mondo in frantumi, che diviene teatro di una guerra tra civiltà.
In questo tormentato secolo, i musulmani attaccano il Sud in massa. È uno scontro epocale di cui spesso si sono persi i contorni, quasi facendolo sembrare un fatto accidentale ed episodico. Ma non è così e lo testimoniano decenni e decenni continui di raids e di attacchi. Ce ne furono di vario tipo. I primi, espressione di una guerra quasi privata, di corsa, compiuta individualmente da gruppi più o meno organizzati, con obiettivi rapidi e spostamenti veloci. Altre volte, invece, si tratta di incursioni pianificate, con scopi determinati, anche all’interno di conflitti che utilizzano il Meridione d’Italia come teatro di una guerra più grande, di scala mediterranea. Però, talvolta, le due modalità si intersecano: il raid serve a saggiare la capacità del nemico, a sondarne le forze, per lanciare un attacco più grande, più efficace e organizzato.
Gli aggressori vengono chiamati dalle popolazioni locali in modo differente. Sono gli agareni, i figli di Agar, la moglie ripudiata di Abramo, madre di Ismaele, colui che prende il posto di Isacco nel sacrificio di Abramo (sura 37, vv. 101-106), ritenuto da Isidoro di Siviglia uno dei due inventori dell’idolatria. Da cui l’altro termine per identificare i musulmani, gli ismaeliti. Oppure sono i barbari o menzires, figli di Manzer, sempre in rapporto con Agar. La parola più conosciuta, più comune, è però saraceni, forse da saraka, parola spiccia che denota saccheggio, ruberia, attività da banditi. Vocaboli generici, che nascondono invece la grande varietà di etnie musulmane che danno l’assalto: berberi, sudanesi, spagnoli, magrebini, egiziani, mauri, musulmani di Creta e di Sicilia come anche latini e bizantini apostati e neo-convertiti.
La conquista della Sicilia rende tutto più facile. Diventa, per i corsari saraceni, la principale base da cui trarre capacità logistica, sostegni, uomini e mezzi. Ma gli agareni trovano terreno fertile e proficue alleanze in alcune città del Sud, come Amalfi, Gaeta e specialmente Napoli, le quali traggono vantaggio dalle buone relazioni che intraprendono col mondo musulmano. I saraceni non si limitano alle scorrerie. Alla rapina. Al mordi e fuggi, per ritornare in fretta nelle proprie tane siciliane, cretesi o spagnole. Cercano qualcosa in più. Di creare proprie autonome teste di ponte sulla Gran Terra, come chiamano il continente. Dei ribatat. Delle colonie. Degli accampamenti fortificati. Credo che essi abbiano poco a che vedere con quelli collocati al porto di Palermo, covi di gente infida, di ladri e avventurieri. Questa è l’immagine più risaputa, secondo un cliché che ha fatto fortuna. Eppure un ribat è qualcosa di estremamente più complesso, che fa parte di un sistema tipico del mondo musulmano all’epoca.
Innanzitutto, c’è il movente religioso. Cos’è un ribat per un credente? È l’estrema propaggine del proprio mondo in territorio infedele, terreno di proselitismo e di guerra santa. Di islamizzazione, come i tanti altri che sorsero in Siria, in Marocco, nel Sahel tunisino, in Sicilia, secondo un modello di successo: posti di guardia, a carattere militare, dotati di torri di avvistamento e di altre strutture difensive, che albergavano comunità di devoti. Molti degli uomini che li frequentavano erano spinti sia dalla sete di bottino sia dalla certezza coranica che chi muore combattendo per la fede evita la prova del Giudizio e può entrare direttamente in Paradiso, qualsiasi siano stati i suoi peccati. In loro, si condensa il miraggio della preda e della santità, quanto il sogno di tracciare un nuovo confine per il dar al-Islam. Dei monaci-guerrieri, li definisce Lombard: secondo lui, un modello per gli ordini militari cristiani. Combattenti per l’Islam che, in molti casi, cercavano nel ribat una via religiosa di distacco e di rinnovata adesione al Corano: come accade ad autonomi gruppi sunniti in Nord Africa in opposizione al regime fatimide sciita. Comunità che si stringevano intorno a personaggi di grande autorità religiosa, ad imam, a capi militari di polso. La cui memoria, una volta morti, resta legata al ribat, che diviene meta di devozione e di pellegrinaggio; di perpetuazione dell’identità di un gruppo, della sua volontà condivisa di prosecuzione della guerra santa. Come il ribat descritto da Ibn Jubayr, molto tempo dopo, nel 1183, in Sicilia: «il Qasr Sad giace sulla costiera: grandioso ed antico, di costruzione che risale all’epoca della dominazione musulmana nell’isola, è stato e sarà sempre con la grazia divina soggiorno di servi di Dio. Questo luogo, intorno al quale giacciono molte tombe di musulmani pii e timorati, è celebre come luogo di grazia e di benedizione; onde vi concorre gente d’ogni parte».
Queste enclaves inoltre hanno un’importanza economica considerevole. Sono, all’epoca, uno dei principali punti di contatto economico tra musulmani e popolazioni cristiane indigene. Una terra franca, luogo di vendita e di smercio, soprattutto di schiavi. Ed è nei ribatat della costa che i potentati longobardi e gli esponenti delle città tirreniche vengono a cercare i mercenari per condurre le proprie guerre. Ma la loro portata economica non si limita a ciò. Essi rappresentano un collettore di entrate per le economie statali musulmane, anche per la Sicilia. Il versamento di parte dei proventi delle razzie rappresentava, insieme ai tributi che i saraceni raccoglievano taglieggiando le popolazioni circostanti, una voce di entrata di primo piano per il bilancio statale. Risorse che era un dovere per il mujaidin versare, misurate al dieci per cento, pena il castigo divino.
A questo proposito, Ibn al-Atir racconta quanto successe nel corso di una scorreria in Sardegna, tra 710 e 711:
quando ibn Usayr conquistò la Spagna, egli mandò per mare una banda del suo esercito contro la Sardegna. Sbarcati che furono i musulmani, i cristiani raccolsero tutto il vasellame d’oro e d’argento che avevano e lo buttarono in mare, entro il loro porto. Nascosero poi altro danaro in un palco che costruirono nella loro chiesa maggiore. Ora accadde che un musulmano, bagnandosi nel porto, sentì al piede un inciampo, e cavato fuori l’oggetto vide che era un vassoio d’argento. Allora i musulmani presero tutti i tesori che vi trovarono. Entrato un altro musulmano nella chiesa di cui si è detto, vide una colomba e le tirò con un arco: ma fallito il colpo la saetta andò a rompere un asse del palco da cui cascarono alcuni denari. Cosa fecero i musulmani? Compirono grande frode contro lo Stato: perché essi rubarono tutto il danaro. Chi ammazzava un gatto, lo sventrava, lo riempiva di oro, ricuciva la pancia e buttava la carogna sulla via, per andarla a riprendere con comodità. Altri adattarono l’impugnatura della spada sopra al fodero, riempitolo prima d’oro. E così via. Ma quando rimontarono sulla nave e furono in alto mare, sentirono una voce che gridava «sommergili, o Sommo Dio» e tutti annegarono dal primo all’ultimo.
La maledizione insomma ricade sui trasgressori del jihad, sugli egoisti e gli approfittatori, su coloro che non rispettano le regole della legge civile e religiosa e dell’equa spartizione del bottino. Che rubano, come riporta con straordinaria sagacia il testo, facendo frode contro lo Stato. Pena che viene equiparata alla bestemmia contro Dio, punita con un castigo sovrannaturale, perché è dovere di ogni muslim «eseguire la preghiera, pagare la decima e tenersi stretto a Dio» (Corano, sura XXII, v. 78).
Di ribatat nel Mezzogiorno ve ne furono diversi. Il più celebre fu quello arroccato sul monte Argento, tra il Garigliano e Minturno, che durò dall’883 al 915. Una colonia temibile, che trasformò l’anfiteatro romano di Minturno in una vera e propria roccaforte, poco distante dal mare. Poi ve ne furono nel corso del IX secolo ad Ischia, pare per circa quarant’anni; ad Agropoli; forse a Ponza, occupata nell’846. Mentre, secondo Ibn al-Atir, fu lo stesso emiro di Sicilia, al-Abbas ibn al Fadl, a promuovere la formazione di ribatat a Tropea, a Santa Severina e ad Amantea, dove per breve tempo risiede anche un emiro. Un altro sembra sorgesse perfino alle porte di Roma, a Centocelle. I musulmani crearono anche insediamenti più importanti e duraturi, conquistando in Puglia, sullo Ionio e sull’Adriatico, Taranto e Bari, su cui ritorneremo.
Il periodo peggiore in cui aspettarsi una razzia è chiaramente la bella stagione. Per i musulmani è la saifa: il tempo della campagna d’estate. I corsari musulmani si preparano da febbraio. Per mare, hanno imbarcazioni veloci, a remi, come anche grosse navi da trasporto. Conoscono verosimilmente l’uso del fuoco greco. Anche a terra si difendono bene. La loro tattica è astuta. Quando affrontano in campo aperto i cavalieri cristiani, si apprestano a al-karr wa-l-farr, letteralmente attaccare e scappare. Per poi contrattaccare. E spesso i cristiani cadono nel tranello: «come una roccia che viene erosa dall’acqua che cade dalla montagna». Inoltre, sono bravi nelle imboscate, nelle tecniche di guerriglia. Aspettano, nei valichi, nei passaggi, e attaccano truppe che hanno difficoltà a muoversi in spazi brevi. Arrivano di notte. Di sorpresa, su città e villaggi. Massacrano e uccidono chi non serve. Gli altri, insieme con beni e ricchezze, vengono portati via come schiavi. O per richiedere un riscatto: come avviene per molti, grandi e piccoli. Tra questi l’abate di Cluny, san Maiolo, che nel 972, proveniente da Roma, viene catturato da una banda saracena. E, per riaverlo, sarà necessario far fronte con le ricchezze del potente monastero.
La gente del Sud sa quando comincia l’assalto: allora, ci si prepara e si scappa, verso le montagne, i luoghi fortificati, lontano dalla costa. E lì si aspetta che la bufera passi per poter ritornare a casa. Procedono così i monaci che circondano san Nilo che, spaventati dall’ennesima aggressione saracena, abbandonano il monastero e si rifugiano sulle montagne, mentre i cavalieri musulmani entrano negli edifici deserti. Al loro ritorno li trovano spogliati di tutto, anche dei beni più miserabili, tra cui il cilicio appartenente al santo. Ci si difende nell’unico modo possibile: non in bello, attaccando a viso aperto il nemico – non c’erano le forze sufficienti –, ma costruendo, in zone interne e più difficilmente aggredibili, dei castra, dei castelli (sed munitiones construentes) da usare come rifugio e come centro di salvaguardia e custodia. Spesso sono solo torri di avvistamento, da cui le scaraguaite, le sentinelle, davano, con particolari fumate, l’allarme. Ne parla una cronaca calabrese, la Cronica Trium Tabernarum et de civitate Catanzarii quomodo fuit edificata, che racconta come le popolazioni, una volta avvertite, «lasciassero le città e le fortificazioni costiere, alcuni scappassero verso i boschi e le montagne dell’interno, altri si rifugiassero in caverne pietrose e in forre, altri ancora verso rupi rocciose». Avviene un formidabile cambiamento nell’habitat, che ha grandi riflessi nel quotidiano. Trasformazione che è sotto gli occhi degli stessi contemporanei, i quali, coinvolti nel terribile gioco stagionale della guerra e dei raids, piangono i bei tempi di una volta, quando «in queste regioni i castelli erano rari, le città e le chiese erano piene, non c’era rumore di guerra e tutti godevano della pace». Ad un’età dell’oro, se ne sostituisce un’altra, del ferro e dei castelli.
Quando si ritorna a casa, cosa si trova? Un mondo in abbandono. Case bruciate. I coltivi distrutti e saccheggiati. Prende corpo un’altra storia, che spesso nei libri si dimentica. Ai danni di guerra, che strappano le maglie di un tessuto economico e sociale già precario, è difficile porre riparo. Occorre ritrovare un proprio assetto, in una situazione gravemente perturbata. Rinsaldare i propri sostegni civili, morali, religiosi. Ripianare le conseguenze dei gravi danni arrecati, non solo di natura pratica, ma etica, psicologica, di convivenza. Ci prova la chiesa greca, con una casistica singolare, che riguarda soprattutto le situazioni di stupro di mogli di religiosi, come si legge in un documento eccezionale: la lettera del patriarca Fozio inviata a Leone arcivescovo di Calabria alla fine del IX secolo. Una testimonianza preziosa e, soprattutto, unica nel suo genere, che rimanda ad un clima di cieca brutalità, dove episodi di questo tipo dovevano essere all’ordine del giorno e dove il ruolo della donna appare totalmente degradato:
a proposito delle spose dei preti e dei diaconi violentate dai barbari, se esse sono state consenzienti, i loro mariti dovranno separarsi da loro sia rinunciare al loro ministero, anche se il consenso è stato ottenuto col terrore, nel qual caso esse possono essere perdonate. Se esse invece hanno subito lo stupro attraverso un atto di forza pura, per esempio perché avevano le mani e i piedi legati, i loro mariti possono ricondurle a casa: sarebbe bene tuttavia che i mariti si separino in ogni caso da queste donne e che esse scelgano la via religiosa, per suscitare l’ammirazione, fare tacere i maldicenti e perché risulta difficile stabilire il loro grado di innocenza.
L’inverno per chi è scampato si preannuncia sospeso tra carestie, fame, terribili disagi. Chi resta fa fronte come può, anche ricorrendo all’antropofagia, al cannibalismo. Ne fanno cenno, ad esempio, le vite di diversi santi (e, come abbiamo visto in tutta la sua crudezza, anche la lettera del monaco Teodosio). Per altri, la vita si spezza. È meglio partire, che continuare così. Muovere verso zone ancora più sicure, verso montagne e castelli. Gruppi piccoli o grandi di fuggiaschi si uniscono a colonne di monaci, di pellegrini, di soldati. Ci si sposta in un incubo costante, perché l’attacco, la violenza, lo stupro può piombare addosso da qualunque parte, anche da chi si crede amico o alleato. Quello dell’emigrazione è un fenomeno sottovalutato, che ha invece risvolti importanti. Ad esempio, nelle regioni frontaliere dell’impero bizantino (e l’Italia meridionale è fra queste) inizialmente chi fugge, chi lascia la propria casa e non contribuisce più al pagamento delle imposte e alla leva militare, è considerato un disertore, un traditore. Si tratta di colpe gravi. Ma come fare ad imputarle a gente che è costretta a scappare sotto la spinta della violenza? Per ovviare a questo problema, lo statuto dei fuggitivi viene mitigato: se rientrano, gli si conserva la cittadinanza, basta che versino le tasse. Il problema inoltre è complicato dal fatto religioso. La fuga può significare anche passare dall’altro capo della barricata, cambiare divisa, convertirsi. Sappiamo da parte bizantina che talvolta grosse schiere di musulmani preferiscono passare sotto controllo dell’impero, insediandosi sul territorio come coloni, prendendo in moglie donne del luogo, cristianizzandosi. Nel X secolo addirittura tra i dieci e i dodicimila musulmani della tribù dei Banu Habib fanno questo passo e si convertono, sottoponendosi al controllo del governo di Bisanzio. E da parte islamica? Quanti sono i cristiani che preferiscono abiurare? Pochi? Molti? Mistero. Ci è rimasto solo il nome di alcuni di essi, di quelli che hanno raggiunto posizioni di vertice nel mondo islamico, tacciati dalla propaganda cristiana come rinnegati: ad esempio Leone di Tripoli, il Rasik al-Wardami delle fonti arabe, forse in origine uno schiavo; o Damiano di Tarso. In ogni caso, il numero maggiore sembra rappresentato da quelli che preferiscono scappare all’interno del proprio ambito, culturale e religioso, per ritrovare uno spazio nel quale ricreare con più facilità quel contesto di relazioni consueto. Nel Sud Italia, all’inizio, i nuclei più consistenti sono quelli che si muovono dalla Sicilia assalita. Più si riduce lo spazio bizantino sull’Isola, più aumenta il numero dei greci che guardano alla Calabria, alla Campania ma pure alle coste elleniche, a città come Corinto o Patrasso. Poi, lo spostamento avviene anche dalla Calabria. Ad ogni assalto saraceno corrisponde una spinta centrifuga. Si tratta spesso di uomini e donne dotati di un buon patrimonio di conoscenze che arricchiscono non di poco, in competenze e capacità, le attività dei luoghi dove termina questa loro diaspora: monaci basiliani, letterati, artigiani, aurifices, commercianti, contadini...
Le correnti migratorie, gli spostamenti non hanno però solo un carattere spontaneo. In Calabria e in Puglia, ad esempio, si assiste, ad opera delle autorità bizantine, al ripopolamento e al recupero delle zone che hanno maggiormente sofferto a causa delle incursioni musulmane. Alcune aree si giovano dell’innesto di nuovi abitanti provenienti dai territori greci come dall’Armenia. Si crea, laddove la frontiera era risultata più fluida e permeabile agli attacchi, un vero e proprio «fronte di colonizzazione», come lo chiama Ghislaine Noyé. Si rinsalda il tessuto bizantino, un sostrato sociale, culturale e spirituale, col forte contributo della chiesa greca, che alimenta la creazione di nuovi distretti religiosi, in Sila, nel nord della Calabria, nella Lucania orientale. Popolazioni inquadrate in centri già esistenti e ora ricostruiti come pure in nuovi abitati e nuove fortificazioni, che danno vita ad un vero e proprio incastellamento di stato.

2. Nel vivo della guerra santa

Questo è l’antefatto di una guerra che fu il jihad, con una sua lunga e terribile contabilità fatta di centinaia di attacchi, raids e scorrerie, sul mare come all’interno che interessano non solo il Sud Italia, ma tutta la costa e le isole tirreniche, dalla Calabria al Lazio fino alla Lunigiana, a Genova, alla Sardegna, alla Corsica. E l’Adriatico: la Puglia, con tutte le sue città, Ancona, le foci del Po, Grado, la Dalmazia. E i saraceni penetrano anche nell’interno, dal nord della Puglia fino agli Abruzzi e al ducato di Spoleto. Con incursioni che raggiungono il Piemonte, la Val di Susa, Asti. Ingaggiando numerose battaglie di terra e di mare, importanti o meno, tra cui Ostia e Milazzo. Citerò solo dei momenti di maggiore scalpore. Esemplari, per tutta la serie di addentellati che li caratter...

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