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Il momento populista
Vorrei chiarire da subito che il mio obiettivo non è aggiungere un ulteriore contributo al campo già pletorico degli «studi sul populismo» e non ho intenzione di entrare nello sterile dibattito accademico sulla «vera natura» del populismo. Questo libro vuole essere un intervento politico e riconosce apertamente la sua natura di parte. Nel suo svolgimento definirò ciò che intendo per «populismo di sinistra» e sosterrò che nella congiuntura odierna esso fornisce la strategia più adeguata per recuperare ed estendere gli ideali di uguaglianza e sovranità popolare, che sono costitutivi di una politica democratica.
Come studiosa di teoria politica devo il mio approccio a Machiavelli, che, come ci ha ricordato Althusser, si è sempre posizionato «nella congiuntura» anziché riflettere «sulla congiuntura». Seguendo l’esempio di Machiavelli, inscriverò la mia riflessione in una congiuntura particolare, ricercando ciò che egli chiamava «verità effettuale de la cosa», la verità effettuale del «momento populista» cui stiamo assistendo nei paesi dell’Europa occidentale. Limito la mia analisi a quest’area geografica perché, sebbene la questione del populismo sia senza dubbio rilevante anche in Europa dell’Est, quelle nazioni necessitano un’analisi a sé. Sono, infatti, segnate dalla loro storia sotto il comunismo e la loro cultura politica presenta caratteristiche differenti. Ciò vale anche per le varie forme di populismo latinoamericano. Anche se vi sono «somiglianze di famiglia» tra i vari populismi, ognuno corrisponde a una determinata congiuntura e deve essere compreso all’interno del suo contesto specifico. Mi auguro, comunque, che le mie riflessioni sulla congiuntura vissuta dall’Europa occidentale forniscano elementi utili per analizzare anche altre situazioni in cui il populismo è presente.
Per quanto l’obiettivo del libro sia di natura politica, una parte significativa della mia riflessione sarà di natura teorica, perché la strategia populista di sinistra che mi accingo a sostenere è permeata da un approccio antiessenzialista secondo cui la società è sempre divisa e costruita discorsivamente mediante pratiche egemoniche. Molte delle critiche rivolte al «populismo di sinistra» sono basate su una mancata comprensione di questo approccio, e per tale motivo è importante esplicitarlo in maniera precisa. In più punti farò riferimento ai principi centrali dell’approccio antiessenzialista e fornirò ulteriori chiarimenti in una appendice teorica posta alla fine del testo.
Per dissipare ogni possibile confusione, inizierò con lo specificare cosa intendo per «populismo». Ricusando il senso dispregiativo che è stato imposto dai media per screditare tutti coloro che si oppongono allo status quo, seguirò l’approccio analitico sviluppato da Ernesto Laclau, che permette di affrontare la questione in una maniera secondo me particolarmente proficua.
Nel suo libro La ragione populista, Laclau definisce il populismo come una strategia discorsiva per la costruzione di una frontiera politica, che opera attraverso la divisione della società in due campi e chiama alla mobilitazione «i derelitti», chi è sfavorito, contro «chi è al potere». Il populismo non è un’ideologia e non può essere ricondotto a un contenuto programmatico specifico. Né si tratta di un regime politico. È un modo di fare politica che può assumere forme differenti a seconda del momento e del luogo, ed è compatibile con diverse cornici istituzionali. È legittimo parlare di un «momento populista» quando, sotto la pressione delle trasformazioni politiche o socioeconomiche, l’egemonia dominante è destabilizzata dalla moltiplicazione di domande insoddisfatte. In queste situazioni, le istituzioni esistenti non riescono ad assicurarsi la fiducia delle persone, poiché tentano di difendere l’ordine costituito. Come risultato, il blocco storico che fornisce la base sociale della formazione egemonica si trova disarticolato ed emerge la possibilità di costruire un nuovo soggetto di azione collettiva – il popolo – capace di riconfigurare un ordine sociale sentito come ingiusto.
A mio avviso, ciò ben descrive quanto caratterizza la congiuntura attuale ed è dunque appropriato presentare quest’ultima come un «momento populista» che segnala la crisi dell’egemonia neoliberale progressivamente consolidatasi in Europa occidentale durante gli anni Ottanta del Novecento. La formazione egemonica neoliberale rimpiazzò il welfare state keynesiano di stampo socialdemocratico, che nei trent’anni successivi al secondo conflitto mondiale aveva rappresentato il principale modello socioeconomico per i paesi democratici dell’Europa occidentale. Il nucleo di questa nuova formazione egemonica è costituito da un insieme di pratiche politico-economiche che ambiscono a imporre la legge del mercato – deregolamentazioni, privatizzazioni, austerità fiscale – e limitare il ruolo dello Stato alla protezione dei diritti della proprietà privata, dei mercati liberi e del libero commercio. Neoliberalismo è il termine usato attualmente per riferirsi a questa egemonia che, lontana dall’essere circoscritta al campo economico, connota una concezione globale della società e dell’individuo fondata su un individualismo possessivo.
Questo modello, adottato in diversi paesi dagli anni Ottanta a oggi, non ha dovuto affrontare sfide particolari fino alla crisi finanziaria del 2008, quando ha iniziato a mostrare seriamente i suoi limiti. La crisi, iniziata nel 2007 negli Stati Uniti con il collasso del mercato dei mutui subprime, si sviluppò divenendo una conclamata crisi bancaria internazionale con il fallimento della banca d’affari Lehman Brothers nell’anno seguente. Fu necessario intraprendere salvataggi imponenti di diverse istituzioni finanziarie per impedire il crollo del sistema mondiale. La recessione economica globale che fece seguito influenzò profondamente le diverse economie europee e provocò una crisi del debito. Per affrontare questa crisi in molti paesi europei sono state messe in campo politiche di austerità, con gravi conseguenze, soprattutto nelle nazioni della parte meridionale del continente.
In occasione della crisi economica si condensarono una serie di contraddizioni, conducendo a ciò che Gramsci chiama un interregno: un periodo in cui sono messi in crisi diversi cardini del consenso stabilito intorno a un progetto egemonico. All’orizzonte non è ancora apparsa una soluzione ed è questo scenario a contraddistinguere il «momento populista» in cui ci troviamo oggi. Il «momento populista», dunque, è l’espressione di tutta una serie di resistenze alle trasformazioni politiche ed economiche viste negli anni di egemonia neoliberale. Queste trasformazioni hanno condotto a una situazione che potremmo chiamare «postdemocrazia», riferendoci così allo sgretolamento dei due pilastri dell’ideale democratico: l’uguaglianza e la sovranità popolare. Spiegherò tra un momento come abbia avuto luogo questa erosione, ma prima vale la pena soffermarsi su cosa si intende per «postdemocrazia».
Il termine, proposto per la prima volta da Colin Crouch, segnala il declino del ruolo dei parlamenti e la perdita di sovranità come conseguenza della globalizzazione neoliberale:
[…] ho tentato di mostrare come la causa fondamentale del declino della democrazia nella politica contemporanea sia il forte squilibrio in via di sviluppo tra il ruolo degli interessi delle grandi aziende e quelli di tutti gli altri gruppi, almeno in linea teorica. Accanto all’inevitabile entropia della democrazia, questo riporta la politica a essere una faccenda che riguarda élite chiuse, come accadeva in epoca predemocratica.
Anche Jacques Rancière utilizza il termine e lo definisce in questa maniera:
La post-democrazia è la pratica governamentale e la legittimazione concettuale di una democrazia del post demos, una democrazia che ha eliminato l’apparenza, il resoconto e il conflitto del popolo, ed è dunque riducibile al solo gioco dei dispositivi statali e delle mediazioni tra energie e interessi sociali.
Anche se non sono in disaccordo con nessuna delle due definizioni, l’utilizzo che farò dell’espressione è in parte differente perché, attraverso una riflessione sulla natura della democrazia liberale, intendo mettere in primo piano un’altra caratteristica del neoliberalismo. Come risaputo, sul piano etimologico «democrazia» deriva dal greco demos/kratos, ossia «governo del popolo». Quando parliamo di «democrazia» in Europa ci riferiamo, tuttavia, a un modello specifico: il modello occidentale che risulta dall’inscrizione del principio democratico in un contesto storico particolare. Questo modello è stato variamente denominato: democrazia rappresentativa, democrazia costituzionale, democrazia liberale, democrazia pluralista.
Si fa comunque sempre riferimento a un regime politico contrassegnato dall’articolazione di due tradizioni differenti. Da un lato, la tradizione del liberalismo politico: il governo della legge, la separazione dei poteri e la difesa della libertà individuale; dall’altro, la tradizione democratica, le cui idee centrali sono uguaglianza e sovranità popolare. Non c’è alcuna relazione necessaria tra le due tradizioni ma solo un’articolazione storica contingente che, come mostrato da C.B. Macpherson, fu prodotta dalle lotte congiunte dei liberali e dei democratici contro i regimi assolutistici.
Alcuni autori, tra cui Carl Schmitt, affermano che questa articolazione ha generato un regime non destinato a durare, perché il liberalismo nega la democrazia e la democrazia nega il liberalismo. Altri, seguendo Jürgen Habermas, mantengono la «co-originalità» dei principi di libertà e uguaglianza. Schmitt ha certamente ragione nell’evidenziare l’esistenza di un conflitto tra la «grammatica» liberale, che postula l’universalità e il riferimento all’«umanità», e la «grammatica» dell’uguaglianza democratica, che richiede la costruzione di un popolo e una frontiera tra un «noi» e un «loro». D’altra parte penso si sbagli nel presentare questo conflitto come una contraddizione che condurrà necessariamente ogni democrazia liberale pluralista all’autodistruzione.
In The Democratic Paradox ho concepito l’articolazione tra le due tradizioni – di fatto in ultima analisi non riconciliabili – a partire da una configurazione paradossale, come luogo di una tensione che definisce l’originalità della democrazia liberale in quanto politeia, una forma di comunità politica che garantisce il suo carattere pluralistico. La logica democratica della costruzione di un popolo e di difesa delle pratiche egualitarie è necessaria per definire un demos e sovvertire la tendenza del discorso liberale a un universalismo astratto. Tuttavia, la sua articolazione con la logica liberale ci permette di mettere in discussione le forme di esclusione insite nelle pratiche politiche di determinazione del popolo che governerà.
La politica liberale democratica consiste in un processo ininterrotto di negoziazione, mediante configurazioni egemoniche differenti, di questa tensione costitutiva. Tale tensione, espressa in termini politici lungo la linea che separa destra e sinistra, può essere stabilizzata solo temporaneamente per effetto di contrattazioni pragmatiche tra le forze politiche. Queste negoziazioni stabiliscono sempre l’egemonia di un polo sull’altro. Ripercorrendo la storia della democrazia liberale, scopriamo che in alcune occasioni è prevalsa la logica liberale, mente in altre quella democratica. Nondimeno entrambe le logiche restano attive e allo stesso modo la possibilità di una negoziazione «agonistica» tra destra e sinistra, caratteristica specifica del regime liberaldemocratico.
Le considerazioni precedenti riguardano la democrazia liberale intesa esclusivamente come regime politico, ma è evidente che queste istituzioni politiche non esistono mai in maniera indipendente dalla loro inscrizione in un sistema economico. Nel caso del neoliberalismo, per esempio, abbiamo a che fare con una formazione sociale che articola una forma particolare di democrazia liberale con il capitali...