L'invenzione perfetta
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L'invenzione perfetta

Storia del libro

Federica Formiga

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L'invenzione perfetta

Storia del libro

Federica Formiga

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Il libro è stato paragonato da Umberto Eco a un cucchiaio: un oggetto perfetto e non ulteriormente migliorabile. Ma come si è arrivati a questo risultato? Federica Formiga spiega quali siano gli elementi che identificano il prodotto librario e propone, in un percorso sistematico attraverso i secoli, le tappe del suo sviluppo e i suoi maggiori protagonisti. È tra Quattrocento e Cinquecento che si stabilizza un'accezione di libro come oggetto in grado di contenere testo in quantità considerevoli, prodotto a costi relativamente bassi e capace di resistere nel tempo. Il Settecento e l'Ottocento sono invece i secoli di svolta per gli autori, che iniziano a vivere del lavoro della propria penna, mentre gli editori si aprono alle nuove tecniche di stampa, che hanno lanciato il libro verso la modernità, passando dalla censura e dai diritti editoriali. Infine, agli e-book è riservata l'ultima parte, in cui si cerca di capire quali, forse, nuovi scenari aspettano il libro.

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Information

Year
2021
ISBN
9788858145746

II.
L’era del consolidamento
e del perfezionamento
(1550-1700)

Dopo la sua apparizione il libro a stampa divenne oggetto di continui miglioramenti e dell’aggiunta o della trasformazione di parti che timidamente avevano già fatto la loro comparsa nel manoscritto, ma che avrebbero ricoperto un ruolo fondamentale a partire dall’applicazione dei caratteri mobili e contribuito a far emergere i suoi protagonisti e i suoi realizzatori. Il manoscritto, ad esempio, riportava un incipit (le prime parole con le quali iniziava un testo) assimilabile a quello che poi sarebbe diventato il titolo del libro e proponeva, nella stessa forma presentata in seguito negli incunaboli, il colophon, destinato poi a essere trasferito sul frontespizio e suddiviso tra la parte riservata al nome dell’autore e quella delle note tipografiche. Quando poi il libro divenne sempre più un prodotto in cerca di mecenati o sostenitori si aggiunsero testi destinati a elogiare persone di rango, le cui effigie o i simboli nobiliari erano richiamati nelle miniature, per tentare di ricavare profitti economici o riconoscimenti sociali. Anche il lettore non venne trascurato: gli avvisi a lui destinati, posti all’inizio degli esemplari, erano scritti dallo stesso stampatore o dall’autore in cerca di perdono per gli eventuali errori commessi, per i quali venne introdotto anche il foglio di errata da inserire nel volume stesso. Fu dato spazio quindi a nuove forme per accompagnare il testo, portarlo nelle mani del destinatario e facilitare la sua comprensione: in sostanza, si adottarono nuovi elementi che fungevano da entrata e soglia al contenuto.
Nel 1987 Gérard Genette ha pubblicato in Francia Seuils (poi tradotto in Italia nel 1989 per Einaudi con il titolo Soglie. I dintorni del testo), in cui analizza proprio le parti che determinano il modo in cui un lettore percepisce il testo e come il libro si presenta. Si tratta del paratesto, un «luogo privilegiato di una pragmatica e di una strategia, di un’azione sul pubblico, con il compito [...] di far meglio accogliere il testo e di sviluppare una lettura più pertinente»44. Il paratesto è un complesso di elementi appartenenti a un testo a stampa, come i titoli, l’introduzione, le dediche, la prefazione, la copertina, i risvolti, le illustrazioni, gli indici, strutturati e pensati per comunicare al meglio il contenuto del libro.
Le informazioni o le caratteristiche paratestuali migliorarono il libro e il suo utilizzo, e l’avvento della stampa non fece altro che potenziarle. Quando siamo di fronte a un libro a stampa generalmente non conosciamo il manoscritto da cui ha tratto origine e quindi non possiamo sapere se le scelte effettuate durante la composizione a caratteri mobili e la stampa hanno rispettato il codice originale o se gli editori e i tipografi vi hanno introdotto delle novità finalizzate alla promozione o a quello che oggi chiameremmo ‘marketing’. Sappiamo però che sono state adottate tutte le strategie e tutti i meccanismi perché il libro potesse essere comprato, ed è questa la funzione principale del paratesto, a partire dai frontespizi, la grande novità rispetto al mondo del manoscritto, pensata per convincere qualcuno a investire del denaro per comprare un’opera.

Dal colophon al frontespizio

Nel mondo degli incunaboli la maggior parte degli editori adottarono nelle loro pubblicazioni l’incipit o un’intitolazione, oppure solo il colophon, per dare le informazioni bibliografiche e tipografiche sull’opera. L’incipit dei primi incunaboli poteva essere espresso in forma assoluta di titolo, come nelle Meditationes stampate a Roma nel 1467: «Meditationes reverendissimi patris domini Joahannis de Turrecremata»; oppure a mo’ di riassunto, conformemente all’uso dei manoscritti, come nella prima edizione della Commedia di Dante stampata a Foligno: «Comincia la Comedia di Dante Alighieri di Fiorenze nella quale tratta delle pene et punitioni de vitii et demeriti et premii delle virtù. Capitolo primo della prima parte de questo libro lo quale se chiama inferno». Anche l’epistola stampata in quattro carte di Cristoforo Colombo con l’annuncio della sua scoperta apparsa a Roma nel 1493 presenta un’intestazione lunga, molto chiara ed esplicativa: «Epistola Christofori Colombi cui etas nostra multum debet: de insulis Indie supra Gangem nuper inventis».
Il colophon invece, in forma di triangolo, trapezio, rombo, o di altre figure geometriche, può essere considerato un antenato del frontespizio; l’uso fu però incostante nel tempo, come dimostrano molti libri sine notis. Non è scomparso con l’arrivo della prima pagina: infatti nei libri moderni le informazioni prima presenti nei colophon, quali il nome dello stampatore o la data di pubblicazione, sono inserite alla fine del libro oppure sul verso del frontespizio, sebbene non ricoprano più il ruolo che avevano nel libro antico, dove il colophon assecondava il desiderio del tipografo di comunicare la fine del lavoro manifestando anche una certa soddisfazione per l’improba fatica compiuta attraverso espressioni come «laus Deo, gratia Dei» o avverbi come «feliciter», tipici nella prassi dei copisti. La seconda funzione del colophon era quella di dichiarare la paternità dell’edizione, l’anno di produzione (nei manoscritti anche il giorno e il mese di fine della copiatura), il luogo di stampa, il nome dello stampatore, oltre a eventuali informazioni su altri personaggi che avevano contribuito a costruire il libro, come i miniatori o gli esecutori delle immagini incise o infine il libraio che lo aveva in vendita. Il colophon, in sintesi, non era altro che una dichiarazione di proprietà anche di carattere intellettuale, come dimostra il Plinio stampato a Venezia nel 1469 da Giovanni da Spira dove finge che sia lo stesso autore a parlare: «da così raro e fragile che ero divenuto, adesso Giovanni da Spira mi ha restituito ai Veneti».
L’abitudine di concludere con questi dati potrebbe risalire al II millennio a.C., alla civiltà mesopotamica, mentre esempi più tardi si possono trovare nelle tavolette in scrittura cuneiforme della biblioteca di Assurbanipal a Ninive, che narrano l’epopea di Gilgamesh. Poi ci sono i colophon attestati in ambito greco, da cui proviene il loro nome, che deriva dalla parola κολοφών («cima, sommità») usata in epoca bizantina per indicare la formula finale con la quale il copista forniva indicazioni sul suo lavoro, passata poi in Occidente nei manoscritti e, successivamente, nei libri a stampa, nei quali le informazioni si trasferirono in seguito sul frontespizio; tra le funzioni ci fu quella di ricordare e di ‘glorificare’ l’opera e chi l’aveva resa pubblica, ossia l’editore.
Il frontespizio iniziò a svilupparsi solo agli inizi del Cinquecento, quando intorno al libro tipografico andò a costruirsi una rete commerciale sempre più fitta e furono necessari contrassegni per distinguerlo sulle grandi vie di comunicazione. L’elemento paratestuale – il cui nome era mutuato dal lessico architettonico del tardo Medioevo – fu una grossa novità, destinata a indicare stabilmente la pagina iniziale di un libro, anche se non ebbe ovunque uguale, uniforme e rapido sviluppo. I frontespizi furono da subito, e in buona parte lo sono ancora, in costante trasformazione e presentavano una ricca casistica: c’erano quelli con l’indicazione del solo autore o del titolo, oppure con entrambi, quelli con informazioni sull’edizione, sulla lingua del testo, sul privilegio, e così via. Anche i caratteri con i quali erano composti furono spesso soggetti a cambiamenti: nella prima fase presentavano lettere capitali molto grandi, poi modulate in corpi più piccoli o in corsivo. I nuovi caratteri fusi all’inizio del Cinquecento diedero la possibilità ai tipografi di migliorare l’apparato anche del frontespizio, che passò dal presentare raffigurazioni architettoniche con incisi all’interno gli elementi bibliografici a proporre immagini e motivi floreali, che però scomparvero durante il XVI secolo per lasciare spazio alle forme geometriche o ad altri ornamenti, come vasi, calici, putti, oppure al ritratto, veristico o idealizzato, dell’autore o del personaggio a cui era dedicata l’opera.
Il ruolo promozionale e comunicativo intervenne in un secondo momento perché, contrariamente a quello che si può pensare, in origine il frontespizio non era legato alla promozione di un’opera o all’esaltazione di un personaggio, ma assolveva solo al compito di protezione; non a caso, infatti, si presentava come una carta bianca posta sopra a tutti i fascicoli stampati per impedire alla prima pagina inchiostrata di sporcarsi all’interno dell’officina o durante il trasporto nella bottega del legatore e, in seguito, del libraio. Sul foglio veniva stampata una parte del titolo o solo una parola (celebre l’edizione della Vulgata stampata da Giorgio Arrivabene a Venezia nel 1487, preceduta da un foglio su cui era impressa solo la parola Biblia) per identificare il contenuto; tale sintesi troverà poi posto e si trasferirà nel contemporaneo ‘occhietto’ posto sui margini superiori delle pagine. Il 1500 è la data di affermazione del frontespizio, che da allora fu destinato a rispecchiare il gusto dei contemporanei oltre che le possibilità tecnologiche, perché dalle cornici xilografiche utilizzate da Erhard Ratdolt, spesso intagliate da artisti di fama come Dürer e Cranach, si passò alle immagini calcografiche. Il primo esempio di una calcografia in un libro a stampa è nel Monte santo di Dio, del 1477, mentre il primo esempio su un frontespizio è attestato nell’Opuscolo della purita della conscientia del 151245.
L’accostamento di un’immagine calcografica al testo composto tipograficamente non dava però un buon risultato estetico e soprattutto faceva alzare i costi di produzione perché richiedeva due passaggi sotto due torchi diversi: uno per la parte tipografica in rilievo, l’altro per l’illustrazione in incavo. Poiché era la parte incavata che doveva ricevere l’inchiostro (la parte della lastra che non doveva essere inchiostrata veniva ripulita) non era possibile accostarla nella forma ai caratteri tipografici in rilievo e quindi era necessario un ulteriore passaggio per la tiratura sotto un altro torchio a cilindro munito di una grande ruota a stella. A far lievitare i costi era anche l’usura della lastra dopo diversi passaggi al torchio.
Anche i frontespizi mutarono, perché dalla semplice enunciazione del titolo (come ad esempio Biblia) si passò alla forma didattica del Rinascimento, fino al Manierismo e al Barocco del Seicento, quando i frontespizi divennero verbosi e prolissi. Di strada ne era stata fatta dai manoscritti, nei quali le forme di presentazione erano condizionate dall’estetica e non da ragioni informative o promozionali. Il codice era legato a una committenza stabilita e chi lo ordinava sapeva cosa gli sarebbe stato confezionato e consegnato dai pazienti copisti; si trattava di una produzione non in serie, che non dovendo essere immagazzinata non necessitava neppure di essere pubblicizzata per la vendita. Inoltre i titoli erano finalizzati a presentare un singolo e unico oggetto e riguardavano solo l’opera e quel preciso esemplare. L’introduzione dei caratteri mobili contribuì invece a costruire un nuovo contenitore, un frontespizio autonomo da destinare al titolo, all’autore, allo stampatore e al tipografo per descrivere l’opera e contemporanea­mente per pubblicizzarla. Con il tempo il frontespizio divenne anche lo spazio per dare risalto ai finanziatori, ai produttori e ai distributori:
Si avvertirà l’esigenza crescente di esaltare le virtù del libro che si presenta, magnificandone il contenuto, cantando le lodi della cura filologica o della traduzione, sottolineandone la novità e l’aggiornamento, talvolta anche in modo poco corretto, come per le edizioni ‘rinfrescate’, quelle cioè nelle quali un nuovo frontespizio veniva a presentare come rinnovato materiale stampato in realtà precedentemente. In poche parole bisognerà promuovere una merce e le aziende che agiscono sul mercato46.
Talvolta era l’editore a dare il titolo all’opera, come ci ricorda il caso della Commedia intitolata da Aldo Manuzio nell’edizione del 1502 Le terze rime di Dante. A tratti i titoli erano fortemente esplicativi, come quello apposto al Polifilo: «Hypnerotomachia Poliphili, ubi humana omnia non nisi somnium esse docet. Atque obiter plurima scitu sane quam digna commemorat». Non mancarono dei veri e propri componimenti in versi che fungevano da pubblicità come gli endecasillabi sul frontespizio del già citato Calendario del Regiomontano:
Questa opra da ogni parte e un libro d’oro / non fu più preciosa gemma mai / dil Kalendario: che tratta cose asai / con gran facilita: ma gran lavoro / qui numero aureo: e tutti i segni fuoro / descripti dil gran polo da ogni lai: / quando ti sole: e luna eclipsi fai / quante terre se reze a sto thexoro. / In un instanti tu sai qual hora sia: / qual sara lanno: giorno tempo e mexe / che tutti ponti son dastrologia. / Ioanne de monte regio questo fexe: / coglier tal frutto acio no...

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