Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo
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Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo

Storia illustrata della Grande Guerra

Emilio Gentile

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Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo

Storia illustrata della Grande Guerra

Emilio Gentile

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Emilio Gentile, tra i più internazionali dei nostri storici, racconta la Grande Guerra coniugando la meticolosità del ricercatore alla brillantezza del narratore. Cinquantatré mesi che per molti studiosi rimangono un 'mistero', una singolare mescolanza di odio e amore (ci fu anche quello) che ci riconduce al mistero della vita umana. Simonetta Fiori, "la Repubblica"

La Grande Guerra segnò la fine di un mondo, pose le premesse di un altro spaventoso conflitto, aprì la fase storica che, un secolo dopo, continua a svolgersi sotto i nostri occhi. Uno dei più autorevoli storici della contemporaneità ricostruisce con un piglio narrativo notevole le cause e gli sviluppi dell'attentato di Sarajevo. Corrado Augias, "la Repubblica"

Fotografie, dipinti, pagine di giornale, immagini di propaganda. Per Emilio Gentile le immagini non sono illustrazioni, ma materiali di ricerca. Questo racconto delle principali vicende della prima guerra mondiale porta l'inconfondibile impronta del suo prestigioso autore. Alessandro Zaccuri, "Avvenire"

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Information

Year
2016
ISBN
9788858125397

VII.
Guerra senza fine

Durante il 1915, sul fronte occidentale, che fu il principale campo di battaglia durante la Grande Guerra, francesi e inglesi avevano tentato più volte, con ripetute offensive, di infrangere la “fortezza” del sistema di trincee costruito dai tedeschi, pagando un costo altissimo in vite umane: fra morti e feriti, le perdite francesi, nel 1915, ammontarono ad oltre un milione e mezzo di uomini. Altrettanto gravi furono le perdite inglesi. Il 19 dicembre, il governo britannico decise di sostituire il generale French con il generale Douglas Haig a comandante del corpo di spedizione britannico, mentre Joffre conservò il suo posto di comandante in capo di tutte le armate francesi.

Una carneficina per Verdun

Il 6 dicembre, i capi militari alleati si erano riuniti presso il quartiere generale francese a Chantilly sotto la presidenza di Joffre, per cercare di coordinare le strategie dei loro eserciti, predisponendo per il nuovo anno di scatenare tre offensive sul fronte francese, italiano e russo, così da prevenire la possibilità che il nemico potesse spostare le sue riserve da un fronte all’altro.
A nuove offensive sul fronte occidentale pensavano anche gli alti comandi degli imperi centrali. Mentre Conrad si apprestava a lanciare la “spedizione punitiva” contro l’Italia, Falkenhayn preparava l’offensiva contro la Francia, illustrandola in una lettera scritta al Kaiser nel dicembre del 1915. Il generale riteneva che la chiave risolutiva della guerra fosse nella disfatta dell’esercito francese, contro il quale era necessario concentrare il massimo delle forze tedesche, anche riducendo quelle operanti sul fronte russo. In Russia, spiegava Falkenhayn, “anche se forse non possiamo aspettarci una rivoluzione in grande stile, siamo egualmente portati a credere che i problemi interni russi costringeranno il paese ad arrendersi entro breve tempo”. Neppure gli altri fronti, nei Balcani e in Medio Oriente, avevano rilevanza per il generale tedesco, il quale sosteneva pertanto la necessità di sferrare una grande offensiva sul fronte francese, “perché la Germania e i suoi alleati non possono resistere indefinitamente”, ritenendo che la Francia fosse prossima al punto di rottura, “anche se il paese è sostenuto indubbiamente da una straordinaria devozione”. Bisognava pertanto costringere i francesi a impiegare tutti gli uomini disponibili su “un punto vitale”: “Se faranno così le forze della Francia saranno dissanguate fino alla morte”.
Il “punto vitale” scelto da Falkenhayn fu la fortezza di Verdun, una città protetta da diverse fortezze, ma non sufficientemente armata per resistere a una grande offensiva, perché, al contrario del generale tedesco, Joffre non la considerava “un punto vitale” del fronte francese. L’offensiva, chiamata “operazione Giudizio” (Gericht), iniziò il 21 febbraio con un massiccio bombardamento effettuato da 542 cannoni pesanti per due giorni consecutivi, riversando sulle trincee francesi tonnellate di proiettili. Quindi i tedeschi attaccarono in forze e occuparono facilmente il forte di Douaumont il 25 febbraio, e furono vicini a conquistare anche Verdun. Il primo ministro francese Aristide Briand intervenne personalmente su Joffre, che aveva sottovalutato l’offensiva tedesca, per ordinare la difesa della città a qualsiasi prezzo: “Può darsi che per voi la perdita di Verdun non voglia dir nulla, ma tutta la Francia la riterrà una sconfitta. Se cedete Verdun siete dei vili, dei vili, e io vi spazzerò tutti via!”. Verdun divenne il simbolo della resistenza francese al nemico.
La difesa della città fu affidata a Philippe Pétain, un generale che non aveva creduto alla dottrina dell’offensiva: egli diede l’ordine alla truppa di resistere a tutti i costi. Per rifornire la guarnigione della fortezza di materiale e di uomini, fu utilizzata l’unica via disponibile, in seguito battezzata “la Via Sacra”, che fu percorsa ininterrottamente giorno e notte, per settimane, da 3.500 camion requisiti in tutta la Francia. La resistenza fu efficace: a sei giorni dall’inizio, dopo aver avanzato per soli sei chilometri, l’offensiva tedesca si trovò in una situazione di stallo, e la battaglia di Verdun si protrasse per cinque mesi con accaniti combattimenti su un fronte ampio circa otto chilometri. Alla fine di giugno, quando l’offensiva tedesca era ormai fallita, fra morti e feriti, i francesi avevano perduto 315.000 uomini, i tedeschi 281.000. La battaglia di Verdun proseguì fino a dicembre, quando i francesi riuscirono a riconquistare gran parte del territorio. In agosto, Hindenburg, osannato dai tedeschi come l’eroe di Tannenberg, insieme con Ludendorff, prese il posto di Falkenhayn come capo di Stato Maggiore. A dicembre anche Joffre fu sostituito.

La carneficina della Somme

Mentre era ancora in corso la battaglia di Verdun, nel luglio iniziò una nuova grande battaglia nella regione della Somme. Questa volta l’iniziativa dell’offensiva fu del comandante del corpo di spedizione britannico, il generale Haig. L’offensiva fu preceduta da un bombardamento ininterrotto per cinque giorni, effettuato da 1.000 cannoni da campagna, 180 cannoni pesanti e 245 obici su un fronte di ventotto chilometri, per distruggere il più possibile le barriere di filo spinato e la prima linea di trincee tedesche. Ma gli effetti del bombardamento non furono quelli sperati, perché le linee nemiche non furono gravemente colpite mentre gli innumerevoli crateri aperti dalle bombe furono usati dai tedeschi per meglio reagire all’assalto. L’attacco inglese iniziò la mattina del 1° luglio e fu subito una carneficina. Nel primo giorno dell’offensiva, le perdite inglesi furono 60.000. Nel solo mese di luglio, gli inglesi e i francesi persero oltre 200.000 uomini, i tedeschi 160.000, mentre la linea del fronte si era spostata solo di cinque chilometri. Come per Verdun, la battaglia della Somme durò cinque mesi: nel settembre, gli inglesi usarono per la prima volta 36 carri armati, alcuni dotati di mitragliatrici, altri di cannoni, che consentirono alla fanteria inglese di avanzare per oltre tre chilometri, prima di essere messi fuori uso dall’artiglieria tedesca, da guasti meccanici o dal terreno devastato. Quando la battaglia della Somme si concluse a novembre, senza modificare di molto la linea del fronte, fra morti e feriti gli inglesi avevano perso 419.654 uomini, i francesi 194.451, i tedeschi forse 600.000.
67. Caduti francesi e soldati tedeschi in azione in un campo di battaglia nella regione della Somme
67. Caduti francesi e soldati tedeschi in azione in un campo di battaglia nella regione della Somme.

L’offensiva Brusilov

Mentre sul fronte occidentale avvenivano carneficine di massa durante inutili offensive, sul fronte orientale, per aiutare i francesi impegnati a Verdun, in giugno i russi presero l’iniziativa di una nuova offensiva sia in Polonia contro i tedeschi, che avevano promesso ai polacchi la costituzione di un regno indipendente, sia contro gli austro-ungarici in Galizia: qui il generale Brusilov con un attacco a sorpresa, e grazie anche a un notevole vantaggio in uomini e cannoni, riuscì a sopraffare gli austro-ungarici facendo oltre 200.000 prigionieri.
L’offensiva Brusilov demoralizzò ancora di più l’esercito austriaco, dopo il sostanziale fallimento della “spedizione punitiva” nel Trentino, nel maggio del 1916, compiuta da Conrad impiegando divisioni tolte dal fronte in Galizia. L’ambasciatore tedesco a Vienna avvertì Berlino che l’Austria-Ungheria non avrebbe potuto reggere più a lungo per aver quasi esaurito le riserve di truppe, mentre la popolazione viennese cominciava a patire la fame. Anche la coesione del multietnico esercito austro-ungarico cominciò a cedere. Inoltre, la vittoria di Brusilov incoraggiò la Romania a entrare in guerra contro gli imperi centrali, persuasa dalla Russia e dalla Francia alleata con la promessa di ingrandimenti territoriali a danno dell’Ungheria. Ancora una volta furono i tedeschi ad aiutare il loro alleato: Falkenhayn fece trasferire sette divisioni sul fronte orientale, per contrastare l’avanzata russa. L’“offensiva Brusilov” proseguì fino a settembre, facendo 400.000 prigionieri e infliggendo 600.000 perdite. Il suo successo provocò in agosto la destituzione di Falkenhayn da capo di Stato Maggiore e il suo trasferimento sul nuovo fronte della Romania, dove diede ancora buona prova delle sue doti, respingendo una offensiva rumena e occupando Bucarest il 5 dicembre. La Romania perse 310.000 uomini, fra morti e prigionieri, e gran parte del suo territorio. I tedeschi inoltre riuscirono a contenere l’avanzata russa, perdendo però 350.000 uomini e parte del territorio russo che avevano occupato. Tuttavia, la carenza di munizioni e la difficoltà di approvvigionare le truppe impedirono al generale russo di consolidare il successo della sua offensiva, che comunque era costata ai russi un milione di perdite.

Trogloditi in trincea

Dopo mesi passati al fronte, i soldati subivano una sorta di regressione antropologica, si sentivano degradati ad una esistenza primitiva, costretti a vivere come selvaggi trogloditi. La condizione dei soldati in trincea fu descritta con crudo realismo nel libro Il fuoco, scritto alla fine del 1915 e pubblicato nel 1916 dal francese Henri Barbusse, socialista e pacifista militante, che volle tuttavia partire volontario per condividere la sorte dei suoi compatrioti, e dopo essere stato ferito chiese nuovamente di tornare al fronte: “Si distinguono intersecazioni di lunghi fossati ove s’accumula un residuo di notte. Sono le trincee. Il fondo ne è pavimentato d’uno strato vischioso donde il piede si scolla rumorosamente ad ogni passo, e tutt’attorno ad ogni ricovero è puzzolente, causa le orine. [....] Da questi pozzi laterali vedo emergere, e muoversi, delle ombre: masse enormi e deformi: specie d’orsi che s’impantanano e grugniscono. Siamo noi. [...] Da più di quindici mesi, da cinquecento giorni, in quest’angolo di mondo in cui siamo, la fucileria e il bombardamento non si sono mai fermati dalla mattina alla sera e dalla sera alla mattina. Siamo sotterrati nel fondo di un enorme campo di battaglia”.
Quando non era sconvolta dai bombardamenti e dai combattimenti, la vita quotidiana del soldato in trincea si svolgeva per giorni e settimane con ossessionante monotonia, nell’attesa di andare all’assalto o di resistere ad un attacco nemico. “Si aspetta sempre, in stato di guerra. Si diventa delle macchine da attesa”, osservava Barbusse: “Per adesso, quel che si aspetta è il rancio. Poi, sarà la posta. Ogni cosa però al suo momento: quando sarà finita col rancio, si penserà alla posta. Dopo, ci si metterà ad aspettare qualche cosa d’altro”. Ma spesso accadeva che il rancio tardava ad arrivare o non arrivava per giorni perché impedito dai bombardamenti.
I soldati conducevano una esistenza primordiale, senza lavarsi per settimane, dormendo in fosse o nicchie scavate nelle pareti delle trincee, esposti alla calura estiva, al freddo invernale, alle piogge torrenziali che inondavano di acqua e di fango le trincee. In trincea, essi vivevano circondati da grossi ratti famelici, tormentati da pidocchi e pulci, nauseati dalle esalazioni dei propri escrementi e dal fetore dei cadaveri di commilitoni e di cavalli in putrefazione, assistendo talvolta all’agonia dei propri camerati che giacevano feriti nella “terra di nessuno”, senza poter soccorrerli.

Vita quotidiana di orrori

Fra i milioni di soldati in trincea era diffuso un dominante senso di impotenza di fronte al meccanismo feroce di una guerra che pareva sfuggita al controllo degli uomini per perpetuarsi come una forza autonoma che si alimentava con sempre più numerose masse di esseri umani. La guerra, scrisse un soldato...

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