L'Europa del diritto
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Paolo Grossi

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L'Europa del diritto

Paolo Grossi

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«Vogliamo sottolineare al lettore che il diritto, anche se le sue manifestazioni più vistose sono in solenni atti legislativi, appartiene alla società e quindi alla vita, esprime la società più che lo Stato, è il tessuto invisibile che rende ordinata la nostra esperienza quotidiana, consentendo la convivenza pacifica delle reciproche libertà. Consapevoli di tutto questo, cercheremo nelle pagine che seguono di dominare l'interezza del paesaggio giuridico. Non dimenticheremo mai cioè che il diritto è una mentalità, esprime un costume e lo ordina. Per questo dedicheremo una prevalente attenzione al diritto che ordina la vita quotidiana dei privati. Il nostro cammino è lungo: più di millecinquecento anni.»Paolo Grossi ripercorre una dimensione della storia generalmente trascurata, quella giuridica. Il criterio metodologico che guida il suo percorso di rigorosa sintesi è quello di comparare e distinguere le diverse esperienze giuridiche dell'Europa medievale, moderna e postmoderna. Non un itinerario filato e continuo, ma piuttosto tre momenti di forte discontinuità, tre maturità di tempi da contemplare e decifrare nel pieno rispetto delle loro autonome fondazioni.

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Information

Year
2016
ISBN
9788858126073

II. Fondazioni della modernità giuridica

1. Il Trecento agli occhi dello storico del diritto: sconvolgimenti socio-economici e crisi di valori. Alla ricerca di un nuovo ordine giuridico

Noi siamo avvezzi a guardare al Trecento come al culmine dei secoli medievali, abbacinati dal fulgore che ci ostentano con pienezza di messaggio la storia delle arti plastiche e la storia letteraria; per me – toscano – Dante, Boccaccio, Giotto son lì a dimostrarlo. Quelli trecenteschi sono, invece, decennii che ci indicano uno scompiglio profondo, sol che si modifichi l’angolo di osservazione, puntando il nostro occhiale sulle vicende a livello strutturale, guardando a cosa avviene sul terreno della storia agraria alimentare demografica sanitaria, sul terreno basso ma determinante della vita quotidiana dell’uomo comune.
Sono decennii di guerre rovinose, di carestie, di epidemie, con la generale presenza corrosiva della fame; la protagonista occulta del secolo è la peste, che ha il suo acme fra il 1347 e il 1351 ma che devasta tutto il suo svolgersi e tutto il continente falcidiando la popolazione. Il risultato è un massiccio abbandono delle terre, una rapida eclissi delle culture agrarie, una crescente anche se sterile urbanizzazione. Al fondo di questo vortice strutturale c’è una sopravvivenza diventata per l’uomo comune assai stentata, difficoltosissima, ma anche uno scossone demolitivo che comincia a percorrere la coscienza collettiva.
Non è certamente un trapasso improvviso, come una esposizione frettolosa potrebbe far credere, né un capovolgimento brusco della clessidra storica. Nel vecchio organismo, come sempre avviene, con segni di stanchezza, fanno capo le cellule tumorali che lentamente prenderanno sempre più campo e in esso trovano ancora ospitalità e nutrimento. Il vecchio reca in sé il germe del nuovo, nutre la sua morte. E il Trecento appare quello che storicamente è: un tempo di transizione, dove vecchio e nuovo si mescolano, e dove si cominciano a disegnare le linee di un edificio futuro. Nessuno ha, forse, meglio di Francesco Petrarca (1304-1374) espresso l’atteggiamento di chi possiede la consapevolezza di trovarsi su un crinale; il grande poeta, ma uomo di cultura in cui già cominciano ad allignare germi del prossimo rivolgimento umanistico, confessa – in una pagina dalla straordinaria lucidità – di vivere in un terreno di confine che lo stimola a guardare simultaneamente all’indietro e in avanti, un mondo morente e un mondo nascente: «velut in confinio duorum populorum constitutus, ac simul ante retroque prospiciens»1.
È ovvio che la coscienza collettiva sia spinta a mettere in dubbio i pilastri portanti del vecchio ordine medievale fino a riconoscervi degli pseudo-valori. Cose e comunità hanno tradito, non sono riuscite a garantire la sopravvivenza, e comincia a imporsi la necessità di una rinnovazione essenziale del vecchio assetto socio-politico-giuridico puntando su valori decisamente nuovi. Il Trecento è un singolare nodo temporale: alla crisi strutturale risponde con immediatezza di sforzo costruttivo una riflessione teologica e filosofica, che cerca di disegnare un’antropologia completamente rinnovata: si punta sull’individuo, ma gli si può dare fiducia solo se lo si libera dalle catene che per tutto il tempo medievale lo hanno tenuto prigioniero.
Il processo, che, in questo crocevia affollato di movimenti strutturali e di progetti intellettuali, si sta avviando, è un processo di liberazione. La nuova antropologia ha un carattere spiccatamente liberatorio. Liberazione dalla natura bruta, liberazione dai tanti lacci sociali, da quell’ordine sociale che proteggeva il soggetto singolo e insieme lo vincolava, dalle stesse cose che avevano deluso nella loro pretesa virtù salvifica. Le dispute filosofiche, che arrivano ad avere pienezza di voce durante il corso del secolo, se le si colgono nel nucleo essenziale del loro messaggio, a questo mirano: isolare il soggetto dal mondo e sul mondo, riconoscèndolo capace di cercare e trovare all’interno di sé le forze per dominare la realtà.
Il soggetto medievale, interpretato con fedeltà e puntualità da Tommaso d’Aquino, è un uomo intelligente, identificato soprattutto nella sua dimensione razionale, munito soprattutto della conoscenza, che lo proietta al di fuori di sé, con un gesto di umiltà psicologica verso il reale circostante, che lo inserisce nel reale e lo rende in qualche modo anche tributario del reale. L’uomo nuovo, che saranno prevalentemente la teologia e la filosofia francescane a disegnare, è individuato in un soggetto che ama e vuole, un soggetto che tra le molte dimensioni psicologiche punta sulla più autonoma, sulla più auto-referenziale – la volontà – per reperirvi una identità ma anche la propria cifra vincente. Tutto sembra soggettivizzarsi e risolversi all’interno del soggetto, che afferma il suo distacco ontologico dal mondo e reclama la propria libertà sul mondo.
È illuminante come viene cementata questa ritrovata libertà: è auto-determinazione della volontà ed è concepita come dominium. Se si rilevasse che non siamo di fronte a qualcosa di nuovo e che già nel diritto classico romano il dominium non ha soltanto una grossa valenza politica ma è strettamente collegato con la libertà del soggetto (a differenza delle analisi schiettamente economico-giuridiche dei medievali), ciò non sarebbe smentibile. Il nuovo, però, che si profila da questo fertile Trecento in poi, sta nella onnivalenza del dominium, che diventa la generale categoria interpretativa sia della realtà intersoggettiva che di quella intrasubbiettiva. Accanto alla proprietà delle cose del mondo esterno (dominium rerum), assistiamo alla enfatizzazione del dominium sui, della proprietà che ciascuno ha sulle proprie membra e sui proprii talenti, di quella proprietà prima che la divinità ha inserito dentro ognuno a tutela della sua individuale esistenza e che, essendo contrassegnata da una formidabile forza espansiva, fa di ognuno un personaggio vocato a dominare il mondo cosmico e sociale. Volontà, insomma, come carattere essenziale del soggetto e garanzia della sua libertà; libertà come dominium, l’intrasubbiettivo concepito come un insieme di meccanismi proprietarii.
Se a un lettore impaziente i discorsi sin qui fatti sono sembrati viziati di genericismo, ribatterei che è in questa nicchia di riflessioni antropologiche trecentesche (riflessioni nate in polemica con le certezze medievali) l’origine prima di quella dimensione individualistica che sarà assolutamente dominante per tutta la modernità; sono, inoltre, riflessioni che ci consentono di sorprendere l’avvìo di quell’altra cifra tipizzante della modernità costituita dalla commistione fra essere e avere, fra me e mio, con l’avere individuato quale contributo allo stesso essere. Ma avremo agio di riparlarne più distesamente.
Un’altra obbiezione riterrei, a questo punto, probabile e anche legittima: che si è parlato sino ad ora di storia agraria demografica sanitaria a proposito della crisi strutturale del Trecento, o di supreme scelte filosofiche a proposito del ribaltamento antropologico, ma non di diritto; e nemmeno di quella dimensione più ravvicinata che è la politica. Rubando a Hegel un’immagine che ho sempre ritenuto efficacissima e trasferèndola dalla filosofia al diritto, risponderei che quest’ultimo è come l’uccello di Minerva, la civetta, che non ama l’incandescenza dei meriggi assolati e attende, per levarsi in volo, che l’accesa vicenda del giorno sia terminata. Il diritto – l’abbiamo detto molte volte – è realtà di radici, alligna negli strati profondi di una civiltà, strati dove riposano i valori di questa civiltà, ed emerge alla luce del sole solo dopo che, dalle inquietudini della superficie socio-economico-politica, i rivolgimenti discendono e investono le radici stesse.
Ripetiamo qui, quando stiamo analizzando una terra di confine fra diverse esperienze giuridiche, due considerazioni rilevanti per la nostra comprensione storica: che ‘esperienza giuridica’ è un modo tipico di concepire, sentire, vivere il diritto, non è racchiusa e non è racchiudibile nelle leggi di un monarca o nei comandi degli organi di polizia, è invece un fatto di civiltà; che l’esperienza giuridica medievale non è una inconsistente e innocua età di mezzo, ma è durata secoli e secoli, è penetrata nelle coscienze, è riuscita a plasmare lentamente i suoi valori basandoli su un’antropologia assolutamente tipica. La crisi strutturale trecentesca è stata l’occasione storicamente provvida, che ha permesso l’avvìo di un rinnovamento a livello di coscienza collettiva, di una nuova visione del ruolo dell’uomo nel mondo cosmico e nella società. Il rinnovamento non può che essere innanzi tutto antropologico: alla antropologia reicentrica medievale si deve sostituirne una antropocentrica, ed è proprio il movimento che filosofie e teologie volontaristiche cominciano a propugnare dal secolo XIV. Il diritto, in perfetta coerenza, verrà dopo, ma si nutrirà e si impregnerà di quella nuova visione.
Ora che ci apprestiamo a percorrere i sentieri della modernità giuridica in Europa, dobbiamo avvertire il lettore che la ricerca di un nuovo ordine giuridico durerà secoli, si concreterà in una lenta ma progressiva crescita, dandoci un modello compiuto, un ordine ormai interamente rinnovato, solo alla fine del Settecento, quando la ventata risolutiva della rivoluzione francese spazzerà definitivamente il vecchiume dalle strade di Parigi e dell’Europa continentale. Per inerzia, quell’assetto socio-politico che siamo soliti in Francia chiamare Antico Regime, ossia fino al 1789, serba ancora parecchie reliquie giuridiche medievali che si mescolano con parecchie novità emergenti e sempre più crescenti, ma un ordine giuridico nuovo apparirà netto e totale solo con la grande rivoluzione.

2. Un processo liberatorio: macro-individuo e micro-individuo quali nuovi protagonisti. Alle origini dello Stato moderno

Sul piano della coscienza collettiva, il volontarismo filosofico e teologico, che circola nella più viva cultura trecentesca e che diventa anche una vera e propria teoria politica, è una prima ventata liberatoria che rompe la grande ragnatela medievale frazionandola inesorabilmente, ragnatela di relazioni fra individualità che impediva a ciascuna di esse di affermarsi in una propria posizione di indipendenza; e ciò a ogni livello, del soggetto civile, del soggetto religioso, del soggetto economico, del soggetto politico.
La nuova avventura liberatoria, che comincia nel Trecento, ha di mira la liberazione di ogni individualità prima compressa. La cifra essenziale della modernità sta tutta nella tentata riscoperta di un nuovo ordine che, mettendo da parte natura cosmica e comunità (tutto il vecchio ammasso comunitario), pretende di fondarsi su una dimensione tutta umana costituita da individualità, ciascuna delle quali è riconosciuta e rispettata nella sua libertà e nella sua carica dominativa della realtà naturale e sociale, ciascuna delle quali viene dotata di una virulenta carica psicologica.
Innanzi tutto, il soggetto fisico, un soggetto psicologicamente liberato, che non ha più bisogno di rannicchiarsi all’interno di protettivi assetti comunitarii e che sempre più sente il peso di strutture ormai per lui soffocanti. La società, che sino alla fine dell’Antico Regime è società di società, un crogiuolo complesso e complicatissimo di formazioni intermedie, è considerata per quel che ormai è effettivamente divenuta, e cioè un impedimento sia per il micro-soggetto privato sia per il macro-soggetto pubblico, un impedimento per la libera azione dell’uno e dell’altro.
L’individuo fisico, psicologicamente affrancato, conquisterà tra breve, come vedremo, robusti capisaldi sul piano culturale, religioso, economico, giuridico, ma, poiché la sua libertà è fondata su una volontà dominativa e si identifica nella proprietà che lui ha di se stesso e dei beni esterni, sarà particolarmente la dimensione economica a giocare un ruolo rilevante. Protagonista dell’esperienza moderna sarà, infatti, l’abbiente.
Abbiamo ora accennato al macro-soggetto pubblico, una entità politica parimente soffocata dalla società, da una costituzione sociale ingombrante perché nata prima e dalla quale il principe non può prescindere. All’inizio del nostro volume abbiamo insistito su un potere politico incompiuto che non ci siamo sentiti di qualificare ‘Stato’ per evitare equivoci falsanti, perché si trattava di un potere che doveva fare i conti con una realtà enorme, sovrastante: l’articolatissima società medievale.
Ecco. Nel Trecento anche il macro-soggetto pubblico ha qualche freccia in più al suo arco. Tra le ragnatele che cominciano a essere lacerate ci sono anche quegli ampii tessuti universali di cui la civiltà medievale si era compiaciuta, la Santa Romana Chiesa e il Sacro Romano Impero, la prima con grosse pretese e con la forza derivante dal monopolio del sacro, il secondo ormai ridotto a creatura larvale ma che era pronto ad avanzar pretese quando sul trono imperiale sedeva un personaggio intraprendente. La dimensione politica è pienamente investita dal processo di liberazione delle individualità, e dalla frantumata ragnatela prendono forma delle entità politiche individue cariche di una volontà mai riscontrata prima. Non sono ancora degli Stati, ma degli embrioni di Stato. Siamo, però, certamente alle origini dello Stato moderno, all’inizio di un itinerario che, d’ora in avanti, corre continuo verso il pieno statalismo sette-ottocentesco, che può essere adeguatamente fissato in questa immagine: sempre più Stato, sempre meno società.

3. Il principe e il diritto. In particolare, del regno di Francia: un laboratorio politico-giuridico della modernità

Tra queste entità politiche che affermano la propria indi­vidualità scrollandosi di dosso i pesanti mantelli universali spicca il regno di Francia, un vero laboratorio politico-giuridico, dove quello che sarà – di lì ...

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