Dentro la globalizzazione
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Dentro la globalizzazione

Le conseguenze sulle persone

Zygmunt Bauman, Oliviero Pesce

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Dentro la globalizzazione

Le conseguenze sulle persone

Zygmunt Bauman, Oliviero Pesce

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La globalizzazione tocca la vita quotidiana e il destino di miliardi di individui. Perciò questi devono avere la possibilità di dire la loro... Zygmunt Bauman coglie con non comune acutezza come il globale finisca sempre per diventare locale e individuale. Luciano Gallino

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Information

Year
2017
ISBN
9788858128534

1. Tempo e classe

«L’impresa appartiene alle persone che investono in essa, non ai dipendenti, ai fornitori, e neanche al luogo in cui è situata»1. È Albert J. Dunlap, il famoso «razionalizzatore» dell’impresa moderna – un dépeceur, cioè un «tagliatore di teste», uno che fa a pezzi, che smembra le imprese, per dirla con la succosa ma precisa definizione coniata dal sociologo del Cnrs, Denis Duclos2 –, a sintetizzare in questa frase le proprie idee. L’abbiamo tratta dalla compiaciuta relazione sulle sue attività che la casa editrice Time Books ha pubblicato per orientare e formare quanti mirano al progresso economico.
Dunlap, naturalmente, non pensava alla semplice «appartenenza» nella pura accezione giuridica che diamo alla parola «proprietà» – una questione che ormai non si pone più e non ha certo bisogno di nuove spiegazioni, tanto più se così enfatiche –. Dunlap pensava, soprattutto, a quello che il resto della frase significa, e cioè che i dipendenti, i fornitori e gli esponenti di una località non hanno voce alcuna nelle decisioni che gli investitori possono prendere; che a questi spetta il vero potere di decidere, così come il diritto di respingere, di non tenere in alcun conto e non accettare qualsiasi commento o richiesta gli altri possano avanzare sul modo in cui essi gestiscono l’impresa.
Con questo messaggio – è bene notarlo – Dunlap non fa una dichiarazione d’intenti, ma constata dei fatti. Egli enuncia un principio che, a suo parere, ha superato tutte le prove cui possono averlo sottoposto le diverse realtà dei nostri giorni, economiche, politiche, sociali e altre ancora. Quel principio sarebbe ormai entrato a far parte delle verità di per sé evidenti: servono a spiegare il mondo, ma non hanno alcun bisogno di essere spiegate; consentono di formulare pensieri basilari sul mondo, ma non vengono più considerate proposizioni, enunciati che, in quanto tali, debbano essere discussi o confutati.
Ci sono stati tempi («non lontani», aggiungeremmo, se non fosse che la gente è sempre meno attenta, e anche una settimana appare un periodo lungo non solo nella politica, ma persino nella memoria dell’uomo) in cui i proclami di Dunlap non sarebbero apparsi scontati ai più; tempi in cui sarebbero risuonati piuttosto come grida di battaglia o cronache di guerra. Nei primi anni della guerra di annientamento che Margaret Thatcher sferrò contro le autonomie locali, gli uomini d’affari, l’uno dopo l’altro, sentirono il bisogno di salire sul podio del congresso annuale del Partito conservatore per lanciare più volte un messaggio che essi rimarcavano perché suonava inusitato e bizzarro per orecchie che non si fossero ancora assuefatte ad esso: le imprese, dicevano, avrebbero pagato volentieri le imposte locali per contribuire alla costruzione di strade, o alla manutenzione di discariche, di cui avevano bisogno, ma non pensavano proprio di dover contribuire al sussidio dei disoccupati locali, o al sostegno degli invalidi e di altri rifiuti umani, del cui destino non ritenevano di doversi assumere né responsabilità né oneri. Erano quelli gli esordi di una guerra che, solo un paio di dozzine di anni dopo, è stata vinta, o quasi, sicché Dunlap può oggi dettare il suo credo, e aspettarsi – a giusta ragione – che tutti gli ascoltatori lo condividano.
Non è molto importante chiederci: questa guerra è stata programmata, in forme malevoli e pretestuose, nelle asettiche sale dei consigli d’amministrazione di imprese in cui è vietato fumare? oppure l’hanno imposta, a industriali riluttanti e amanti della pace, i mutamenti determinati dalla miscela di forze misteriose della nuova tecnologia e della nuova competitività globale? Ancora, non è importante discutere: questa guerra è stata pianificata in anticipo, debitamente dichiarata e ha obiettivi chiari e definiti? oppure è consistita in una serie di semplici episodi sporadici e imprevedibili, ciascuno imposto da motivazioni proprie? Quale che sia, delle due, l’ipotesi più attendibile, possiamo darle entrambe per buone, e pensare anche che siano due fenomeni solo in apparenza diversi. Ma quel che più importa, comunque, è che l’ultimo quarto del nostro secolo passerà alla storia come la Grande guerra di indipendenza dallo spazio. Una guerra durante la quale i centri decisionali, insieme alle motivazioni stesse che determinano le decisioni, gli uni e le altre ormai liberi da legami territoriali, hanno preso a distaccarsi, in forma continua e inesorabile, dai vincoli imposti dai processi di localizzazione.
Esaminiamo con più attenzione il principio di Dunlap. I dipendenti sono reclutati tra la popolazione locale e, per i probabili legami imposti dalla famiglia, dalla proprietà di un’abitazione e da fattori simili, non possono facilmente seguire l’impresa quando questa decida di trasferirsi. I fornitori devono fornire merci, e tra essi quelli locali sono avvantaggiati dai bassi costi di trasporto, un vantaggio che però svanisce se l’impresa si trasferisce. Quanto alla «località» stessa, è persino ovvio che rimarrà dov’è e non si può certo spostare, quale che sia il nuovo indirizzo dell’impresa. Tra tutti quelli che hanno qualcosa da dire sulla gestione della impresa, solo gli «investitori» – gli azionisti – non sono allora in alcun modo legati allo spazio; possono comprare qualsiasi azione, in qualsiasi Borsa e per il tramite di qualsiasi agente e, nella decisione di comprare o vendere, la vicinanza o lontananza geografiche saranno, con ogni probabilità, la considerazione meno importante.
In teoria, nei processi di dispersione dell’azionariato non c’è nulla che possa essere definito e delimitato nello spazio. Gli investitori rappresentano il solo fattore veramente libero dai vincoli relativi allo spazio. Ad essi, e solo ad essi, «appartiene» l’impresa. Sta a loro quindi dislocarla nei luoghi in cui possono vedere o anticipare la possibilità di dividendi più elevati, lasciando agli altri – a quelli che restano legati al territorio – il compito di leccarsi le ferite, di minimizzare i danni e fare pulizia. L’impresa è libera di muoversi; ma le conseguenze del suo trasferimento sono destinate a permanere nel tempo. Chi può abbandonare i luoghi è anche libero di non preoccuparsi delle conseguenze. Sono queste le spoglie più importanti della vittoria conseguita nella guerra per lo spazio.

I proprietari assenti: la versione dei nostri giorni

All’indomani di questa guerra, la mobilità è diventata il più poderoso e apprezzato fattore di stratificazione sociale; il materiale con il quale ogni giorno si costruiscono e si ricostruiscono, sempre di più su scala mondiale, le nuove gerarchie sociali, politiche, economiche e culturali. Per chi si trova al vertice del nuovo ordine, i vantaggi derivanti dalla libertà di movimento vanno ben oltre le formulazioni di Dunlap. Il quale prende in considerazione, promuove o degrada solo quelli che, nella competizione, sono capaci di farsi sentire, di dar voce alle proprie lamentele e avanzare pretese – e che probabilmente, quindi, così faranno –. Ma di quelli che, anch’essi legati al territorio, vengono isolati e «seminati», senza collegamenti, Dunlap tace addirittura, perché è improbabile che possano farsi sentire.
La mobilità acquisita dagli investitori – coloro che cioè dispongono di capitali, del denaro per investire – è emblematica della nuova divaricazione tra potere e obblighi sociali, una cesura senza precedenti nella storia perché i potenti si sottraggono radicalmente a ogni vincolo: sono svaniti i doveri nei confronti non solo dei dipendenti, ma dei giovani e dei più deboli, delle generazioni che verranno e delle condizioni stesse che assicurano la vita di tutti noi; per dirla in breve, tutto ciò significa libertà dal dovere di contribuire alla vita quotidiana e al perpetuarsi della comunità civile. Sta così emergendo una nuova asimmetria tra la natura extraterritoriale del potere e la permanenza dei vincoli territoriali in quella che è «la totalità della vita», una asimmetria che il nuovo potere, libero com’è da legami e in grado di muoversi in tempi brevissimi e senza preavviso, può sfruttare senza preoccuparsi delle conseguenze. Liberarsi proprio di quest’ultima responsabilità è il vantaggio più evidente e apprezzato che il nuovo fattore della mobilità attribuisce al capitale fluttuante, non legato a un luogo. I costi derivanti dalla necessità di fronteggiare le conseguenze, quindi, non vanno più presi in considerazione nel valutare quanto sia efficace l’investimento.
La nuova libertà del capitale ricorda quella del proprietario terriero di un tempo, che era odiato – si sa – per il suo disprezzo dei bisogni delle popolazioni che lo nutrivano. «Scremare» le eccedenze di prodotto era l’unico interesse che i proprietari assenteisti nutrivano per le terre in loro possesso. Nelle due situazioni storiche possiamo rilevare delle analogie, ma il raffronto non mette nel giusto rilievo le diversità: quella libertà dalle preoccupazioni e dalle responsabilità che il capitale mobile del XX secolo ha acquisito ma che i proprietari assenteisti non ebbero mai.
Una proprietà agricola non poteva essere oggetto di scambio, perciò i proprietari restavano legati – anche se con fili sottili – alla località dalla quale traevano la propria linfa vitale; le circostanze stesse imponevano loro un limite pratico alle possibilità di sfruttare le terre, che in teoria e per via giuridica erano illimitate, perché non volevano rischiare di affievolire nel futuro i flussi di reddito, o inaridirli del tutto. È vero, anche, che i limiti reali tendevano a essere, nel complesso, più rigidi di quanto essi stessi riuscivano a percepire, e che le loro stesse percezioni, a loro volta, erano assai spesso più severe di quanto suggeriva la pratica: accadeva così che i proprietari terrieri assenteisti finivano col compromettere in modo irreparabile la fertilità del suolo e la produzione agricola in generale, rendendo estremamente precarie anche le loro fortune, che declinavano di generazione in generazione. E tuttavia quei limiti, che pure erano effettivi, si riproponevano con tanta maggiore crudezza quanto più non li si percepiva e non li si affrontava in modo corretto. Limite, secondo Alberto Melucci, «vuol dire confine, frontiera, separazione; e perciò vuol dire anche riconoscimento dell’altro, del diverso, dell’irriducibile. L’incontro con ‘l’alterità’ è un’esperienza che ci mette alla prova: da essa nasce la tentazione di eliminare le differenze usando la forza, mentre da essa può anche generarsi la sfida della comunicazione, come sforzo che si rinnova costantemente»3.
Diversamente da quanto accadeva ai proprietari terrieri assenteisti agli albori dei tempi moderni, i capitalisti e gli intermediari tardo-moderni, grazie alla nuova mobilità delle loro risorse, ormai liquide, non devono fronteggiare limiti sufficientemente reali – solidi, duri, resistenti – che dall’esterno impongano loro linee di condotta. Potrebbero farsi sentire e rispettare solo quei limiti che vengono imposti, per via amministrativa, alla libertà di movimento dei capitali e del denaro. Tali limiti, però, sono pochi e rari, e ci sono enormi pressioni per attenuare sempre più o, addirittura, spazzare via quelli residui. Dopo di che, ci sarebbero poche occasioni per quegli «incontri con l’alterità», con ciò che «è altro», di cui parla Melucci. E se anche fosse l’altra parte a imporli, se pure fosse «l’alterità» a mostrare i muscoli e a far sentire la propria forza, il capitale avrebbe poche difficoltà a fare i bagagli e a cercare un ambiente più ospitale, o che non opponga resistenze, che sia malleabile, soffice. E ci sarebbero, quindi, meno occasioni per scatenare ulteriori tentativi di «eliminare le differenze con la forza» o per indurre ad accettare la «sfida della comunicazione».
Entrambi questi atteggiamenti vorrebbero riconoscere che la diversità è qualcosa di irriducibile ma, perché sia considerata tale, l’alterità deve prima trasformarsi in una sostanza che abbia alcune qualità: sia cioè resistente, inflessibile, letteralmente «avvincente». Una possibilità, questa, che si va rapidamente restringendo. Per poter acquisire una capacità naturale e genuina di farsi entità capace di resistenza c’è bisogno che l’aggressore sia persistente ed efficace. Invece, accade che, per gli effetti complessivi della nuova mobilità, al capitale e alla finanza non si pone quasi mai l’esigenza di piegare l’inflessibile, di superare gli ostacoli e di vincerne o attenuarne la resistenza; ovvero, anche quando questa si manifesta, la si può tranquillamente spazzar via in favore di opzioni più morbide. Insomma, il capitale può sempre imboccare la strada di trasferirsi in siti più tranquilli se lo scontro con l’«alterità» richiede un costoso impiego di risorse o negoziati defatiganti. Perché scontrarsi, se...

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