Storia degli Stati Uniti dal 1945 a oggi
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Storia degli Stati Uniti dal 1945 a oggi

Giuseppe Mammarella

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Storia degli Stati Uniti dal 1945 a oggi

Giuseppe Mammarella

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La storia degli Stati Uniti è in larga misura la storia del nostro tempo. Dalla seconda guerra mondiale in poi tutti i principali avvenimenti della nostra epoca vedono la partecipazione degli Stati Uniti e si svolgono sotto il segno della politica americana. Lo stesso per i grandi fenomeni sociali: l'America ne ha anticipato la nascita come il tramonto. I principali momenti dell'economia e della finanza nel bene e nel male nascono negli Stati Uniti e si comunicano al resto del mondo, non ultima la grande crisi finanziaria di questi anni. L'opera di Mammarella, che per anni nei suoi libri e nelle sue esperienze di lavoro ha seguito da vicino la storia degli Stati Uniti, è una poderosa e scorrevole sintesi che dalle origini della guerra fredda (1945) arriva a Barack Obama. La politica estera, le tematiche sociali e quelle economiche e finanziarie sono trattate nei loro reciproci rapporti come parte di un'unica realtà.Un libro indispensabile per comprendere i radicali mutamenti della scena mondiale, anche nei suoi momenti di rottura e di conflitto, e il ruolo decisivo che l'America svolge ancora nella politica planetaria.

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Information

Year
2013
ISBN
9788858110478

XIV. Rivolta nei ghetti e rivoluzione nei campus

Lyndon Baines Johnson

Il 22 novembre 1963, a Dallas, durante l’ultima tappa di un viaggio nella Florida e nel Texas fatto per raccogliere consensi al suo programma per i diritti civili, veniva assassinato John F. Kennedy. Mentre il corteo presidenziale percorreva la strada che collega l’aeroporto al centro cittadino, il presidente, che viaggiava in una macchina scoperta con la moglie e il governatore del Texas, John Connolly, veniva raggiunto da alcuni colpi di fucile sparati dal tetto di uno stabile vicino. L’autore materiale del delitto fu identificato in un ex marine, Lee Harvey Oswald, psichicamente instabile e dal passato politico oscuro. Attorno all’episodio, che colpì duramente l’America riproponendo al paese il problema della violenza politica, si manifestarono le ipotesi più diverse sui motivi dell’assassinio e l’identità di eventuali mandanti. La tesi del complotto, imputato a Castro e all’Unione Sovietica oppure a elementi razzisti o di estrema destra, secondo gli orientamenti politici di chi la formulava, sembrò trovare nuovo credito quando qualche giorno dopo, durante la traduzione da un carcere all’altro, Oswald veniva ucciso da Jack Ruby, un impresario di night-club; né l’uno né l’altro dei due assassini aveva apparentemente motivazioni personali nel compimento del duplice delitto e il secondo sembrava giustificarsi con la preoccupazione di chiudere la bocca a un pericoloso sicario dopo che esso aveva servito allo scopo. Per far luce su una vicenda che continuò ad angosciare il paese per molti mesi, veniva nominata una commissione speciale diretta da Earl Warren, presidente della Corte suprema. Dopo un lungo e minuzioso lavoro, la commissione Warren presentava un ponderoso rapporto in cui si escludeva la tesi della cospirazione e si riconfermavano la fortuità dell’episodio e la casualità di una serie di circostanze che parevano legate da un’unica trama212. Ma l’autorità della commissione e la mole del lavoro da essa svolto non furono sufficienti a sciogliere i dubbi e mettere a tacere le voci che attribuivano le conclusioni della commissione Warren a considerazioni di opportunità e alla ragione di Stato213. Quindici anni dopo, nel 1978, in un clima politico diverso, una nuova commissione, questa volta parlamentare214, arrivava a conclusioni opposte: essa affermava che da un nuovo esame di tutta la faccenda scaturivano ragionevoli, anche se non decisivi, indizi che si fosse trattato di un complotto, da cui venivano tuttavia esplicitamente esclusi sia Castro che l’Urss. Non rimaneva che individuare le motivazioni dell’assassinio, nell’odio razziale o in quello ideologico, e i mandanti in quella «lunatic fringe» di esaltati estremisti, la cui presenza, pur marginale, costituisce un fenomeno caratteristico della caleidoscopica realtà americana e che proprio nel corso degli anni Sessanta assumeva nuova consistenza. La John Birch Society e il gruppo dei «Minutemen», con le loro manifestazioni di fanatismo patriottico e i loro rituali militaristi, ne erano i più noti, anche se non gli unici, rappresentanti.
Più recentemente veniva ripresa la tesi, già altre volte avanzata, di un assassinio, se non organizzato, ispirato dal vicepresidente Johnson che a Dallas aveva amici e sostenitori. Johnson entrava in carica appena qualche ora dopo l’assassinio di Dallas, prestando il giuramento di rito sull’aereo che lo riportava a Washington insieme al corpo del presidente assassinato.
Tutti gli storici americani che si sono occupati di questi anni hanno sottolineato le profonde differenze di personalità, educazione ed esperienze politiche tra Kennedy e Johnson, ma altrettanto unanimemente, insieme alle diversità di stile, hanno riconosciuto la continuità di programmi, di orientamenti e di personale politico tra le due presidenze, talché anche gli anni di Johnson fanno parte dell’«epoca kennediana»215. Fondamentalmente diversi, invece, i risultati conseguiti durante le due presidenze: mentre quella di Kennedy è caratterizzata da molte enunciazioni programmatiche e da limitate realizzazioni sul piano della politica sociale, quella di Johnson è su questo terreno ricca di successi tali da attribuirgli nella tradizione riformista americana una posizione di eccezionale rilievo. Al contrario, mentre sul piano della politica estera Kennedy riportava, insieme a innegabili sconfitte anche dei grandi successi personali, l’esperienza di Lyndon B. Johnson, quasi esclusivamente polarizzata sul Vietnam, fu tragica e responsabile di un fallimento politico, apertamente riconosciuto con la decisione di non ripresentare la propria candidatura alle elezioni del ’68. Il disastro vietnamita eclissò i meriti e le realizzazioni della «Grande Società», erede del New Deal rooseveltiano, e specie all’estero Johnson verrà identificato con l’immagine scaturita dalla vicenda vietnamita di un’America aggressiva e imperialista che si sostituiva a quella, altrettanto parziale, di un’America pacifista e tradizionalmente ostile alla realpolitik, emersa nell’immediato dopoguerra e conservatasi nel corso degli anni Quaranta. In realtà, l’immagine di un Johnson guerrafondaio, attribuitagli dalle sinistre americane ed europee durante gli anni dei bombardamenti sul Nord Vietnam, come quella dell’abile e spregiudicato politicante che con le sue arti riesce a controllare il Congresso e ottenere i consensi per le cause più disparate, sono stereotipi che riflettono solo in parte una personalità molto più complessa in cui coesistono, in combinazioni varie secondo gli obiettivi e le situazioni, cinismo, freddo calcolo e arroganza, con passionalità, generosità e un profondo senso di insicurezza. Forse, come osserva il suo principale biografo, E. Goldman216, proprio in quest’ultima caratteristica, che lo portava a ricercare in modo quasi morboso la simpatia e la stima di tutti, sta la chiave dei successi e degli insuccessi di Johnson, nonché di un impegno sociale e di un patriottismo che appaiono di volta in volta superficiali e retorici o sembrano scaturire da una genuina ispirazione. Più spesso che da una coerente linea politica o da profonde convinzioni ideologiche, che non emergono dalla storia della sua lunga attività pubblica, il suo riformismo sembra nascere dal desiderio di popolarità e, secondo quanto ha scritto Leuchtenburg, dall’ambizione di essere ricordato come un grande presidente nella tradizione di Roosevelt217.

Johnson come Kennedy

Il nuovo presidente annunciava le sue intenzioni di proseguire puntualmente nella strada aperta da Kennedy, già qualche settimana dopo l’assassinio di Dallas, nel suo messaggio sullo stato dell’Unione dell’8 gennaio. «Intendiamo realizzare i piani e i programmi di J.F. Kennedy non per onorarne la memoria ma perché sono ciò di cui il paese ha bisogno»218.
E fu ancora nel nome di Kennedy che Johnson sollecitò il Congresso ad approvare quella legislazione che il defunto presidente aveva sostenuto con poca fortuna. A Johnson, maestro nell’arte di convincere, perfezionata nel corso di un trentennio di vita parlamentare, il Congresso concesse quasi tutto. Nell’arco di pochi mesi passavano la legge sui finanziamenti federali all’università (dicembre 1963), quella per la riduzione delle tasse, anch’essa proposta da Kennedy, che prevedeva tagli per 7,7 miliardi nel ’64 e 11 e mezzo nel ’65. A metà marzo, Johnson inviava al Congresso un messaggio speciale in cui dichiarava «guerra alla povertà»219; esso prevedeva un programma di qualificazione professionale e di borse di studio per istituti superiori destinato a giovani di famiglie indigenti, aiuti finanziari alle comunità povere per lavori diretti a migliorarne la qualità della vita. Stanziava fondi di varia consistenza per piccoli prestiti a piccole imprese, acquisti di terra a beneficio di famiglie di contadini bisognosi, ecc. Il tutto per quasi un miliardo di spesa, che veniva approvato nell’agosto dai due rami del Congresso con qualche emendamento e una riduzione di appena 15 milioni.
In giugno, dopo 83 giorni di dibattito con 73 voti a favore e 27 contro, il Senato approvava la legge sui diritti civili già proposta da Kennedy e discussa e votata dalla Camera nel febbraio: grazie a un compromesso dell’ultima ora, che non ne alterava la sostanza, la legge diventava bipartitica.
I leader della comunità nera la salutarono come «una delle più importanti misure legislative degli ultimi decenni» e un «gigantesco passo avanti a vantaggio non solo dei cittadini neri, ma di tutto il paese»220. Meno ottimisti gli esponenti dell’ala radicale, come Malcolm X, secondo cui la soluzione del problema razziale era affidata non tanto alle nuove leggi – «non si può creare buona volontà per decreto» – ma alla presa di coscienza del paese. Intanto, gli scontri razziali continuavano e si intensificavano negli Stati del Sud, giustificando il commento di Martin Luther King, secondo il quale la legge avrebbe portato «una fresca e serena brezza in una estate fin troppo calda». In realtà, essa non bastava a raffreddare l’atmosfera e qualche giorno dopo scoppiavano aspri conflitti a sfondo razziale ad Harlem, e nelle settimane successive a Rochester, nello Stato di New York, e a Jersey City, nel New Jersey. I torbidi non avevano ancora la violenza che raggiungeranno nelle estati successive, ma indicavano che l’azione dei gruppi più radicali stava facendo progressi e che la protesta nera stava montando dagli Stati del Sud, dove era rimasta contenuta fino allora a quelli del Nord e tra il proletariato urbano.

Goldwater e la sconfitta della destra repubblicana

La candidatura di Johnson alle elezioni del ’64 era scontata. Si dava per scontata anche una buona affermazione del Partito democratico, ma non nelle eccezionali dimensioni che assunsero ambedue. In realtà, i risultati del ’64 dovevano segnare per il Partito democratico e il suo leader una vittoria che non era esagerato definire di dimensioni storiche. Dopo quella conseguita da Franklin D. Roosevelt nel 1936, l’affermazione di Johnson era la più schiacciante mai riportata da un presidente americano nel XX secolo: 41,7 milioni di voti, pari al 61% del totale, e 486 voti elettorali che gli assicurarono 44 Stati – tutti meno l’Arizona, lo Stato dell’avversario repubblicano Barry Goldwater – e i quattro Stati del profondo Sud: Mississippi, Louisiana, Georgia e Sud Carolina. Stati come l’Indiana, il Nebraska, il Kansas e il Vermont, tradizionalmente repubblicani, venivano conquistati da un presidente democratico per la prima volta. Sulla scia della vittoria di Johnson, il Partito democratico si rafforzava alla Camera e al Senato; tra i nuovi senatori democratici verrà eletto Robert Kennedy, che vinse un seggio tradizionalmente repubblicano a New York.
La vittoria democratica, che sembrava riconfermare al di là di ogni dubbio la vecchia coalizione del New Deal nell’alleanza tra le masse urbane, i neri – che voteranno per Johnson con margini massicci, dall’85 fino al 99% in certe zone – e le minoranze etniche, nasceva in realtà da una situazione del tutto eccezionale: costituita dall’attribuzione della candidatura repubblicana al senatore Barry Goldwater, dalle sue idee e dalla sua personalità221.
La campagna per la nomination del Gop era partita con Nelson Rockefeller, governatore dello Stato di New York, come favorito, lo stesso Goldwater come secondo a parecchie lunghezze e con George Romney, governatore del Michigan, e Cabot Lodge, ambasciatore americano a Saigon, come candidati di riserva. Ma il secondo matrimonio di Rockefeller, che divorziato aveva sposato una divorziata, ne aveva fatto rapidamente cadere la popolarità presso l’elettorato repubblicano e ciò aveva aperto la strada a Goldwater, che dopo una serie di vittorie nelle primarie della primavera del ’64 otteneva la candidatura dalla Convenzione repubblicana di San Francisco alla prima votazione con ben 883 voti, più di 200 oltre i 655 necessari per la vittoria222.
In realtà, nonostante l’affermazione quasi plebiscitaria, il Partito repubblicano usciva dalla Convenzione profondamente diviso. La vittoria di Goldwater era quella della destra estrema che, grazie all’attivismo degli elementi più giovani e a una campagna ben finanziata, era riuscita a imporre al resto del partito il proprio candidato, sostenitore di una linea di estremismo esasperato in politica estera e interna. Goldwater era fautore da sempre di un programma che restituisse il massimo dei poteri agli Stati, smantellasse senza compromessi il Welfare State costruito dai presidenti democratici, riservasse ogni iniziativa in campo economico all’industria privata; inoltre il candidato repubblicano si era battuto contro la legge per i diritti civili del ’64, che pur era stata votata dal leader della minoranza repubblicana al Senato, il conservatore Dirk­sen223. In politica estera, Goldwater aveva sempre sostenuto una linea di assoluta intransigenza nei confronti del comunismo e dell’Urss. Nel 1960 si era espresso a favore dell’utilizzazione della bomba atomica per sostenere eventuali rivolte anticomuniste nell’Est europeo e dell’attribuzione ai comandanti delle unità americane di stanza in Europa della piena libertà di giudizio in merito all’uso dell’arma atomica in funzione tattica in caso di conflitto, una decisione che per legge era riservata al presidente. A proposito del Vietnam, era stato uno dei primi a chiedere l’intensificazione delle operazioni aeree al Nord, la defoliazione della giungla e il ricorso alle armi nucleari. Il successo di Goldwater alla Convenzione di San Francisco indicava che all’interno del Partito repubblicano era prevalsa la corrente «ultrà», particolarmente forte negli Stati del Middle-West e del Sud-Ovest, fatta di tradizionalisti e di accesi nazionalisti, ma anche di razzisti e di simpatizzanti della John Birch Society, il cui capo riconosciuto, Robert Welch, era arrivato ad accusare Eisenhower e Dulles di essersi fatti complici coscienti della cospirazione comunista in America e nel mondo. Le probabilità di vittoria di Goldwater alle elezioni di novembre erano chiaramente inesistenti talché ci fu chi parlò di suicidio del Partito repubblicano. Se era pur vero che le posi...

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