Le pedagogie del Novecento
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Le pedagogie del Novecento

Franco Cambi

  1. 234 pages
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Le pedagogie del Novecento

Franco Cambi

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Per costruire un'immagine il più possibile obiettiva di sé in quanto scienza e disciplina riflessiva – sull'uomo, sulla cultura e sulla società – la pedagogia ha abbracciato sempre più il paradigma scientifico della critica, inaugurando così una fase storica ricca di scontri e polemiche, aperta a molteplici e articolati sviluppi. Il volume ripercorre questa complessa e decisiva ‘avventura' e offre l'immagine complessa di questo sapere. In appendice, una serie di schede sulle opere-chiave della pedagogia del Novecento consente al lettore un ulteriore approfondimento.

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Information

Year
2014
ISBN
9788858116616

1. L’avventura dell’attivismo

Nel XX secolo la scuola subisce processi di profonda e radicale trasformazione. Si apre alle masse. Si nutre dell’ideologia. Si afferma sempre più come centrale nella società (per offuscare questa centralità solo verso la fine del secolo, nell’età dei mass media). Questa visione rinnovata fu massima nell’ambito della tradizione attivistica, quando la scuola si impose come istituzione-chiave della società democratica e si alimentò di un forte ideale libertario, dando vita tanto a sperimentazioni scolastiche e didattiche fondate sul primato del «fare», quanto a teorizzazioni pedagogiche rivolte a fondare/interpretare queste pratiche innovative partendo da filosofie o da approcci scientifici nuovi rispetto al passato. L’attivismo è stato, quindi, una grande voce della pedagogia novecentesca, almeno fino agli anni Cinquanta, ed ha alimentato tutta una serie di posizioni che hanno lasciato il segno nella scuola contemporanea e nella pedagogia attuale. È stato, inoltre, un movimento internazionale – anche se soprattutto europeo e nordamericano –, che ha avuto larghissimo influsso nelle pratiche quotidiane dell’educazione, specialmente scolastica, e una continuità di sviluppo per almeno cinquant’anni e più. Infine, esso ha realizzato un rovesciamento radicale dell’educazione, mettendo al centro 1) il bambino, i suoi bisogni e le sue capacità; 2) il fare che deve precedere il conoscere, il quale si evolve dal globale al distinto e che quindi si matura inizialmente su un piano «operatorio», come ha sottolineato Piaget; 3) l’apprendimento che pone al centro l’ambiente e non il sapere codificato e reso sistematico. Si è trattato – come è stato detto – di una «rivoluzione copernicana» nell’educazione (e in pedagogia) della quale è necessario – ancora oggi – tenere conto e che rompeva, invece, radicalmente col passato, con una istituzione scolastica formalistica, disciplinare e verbalistica, e con una pedagogia deontologica, astratta e spesso metafisica, estranea allo spirito della sperimentazione e della teorizzazione interdisciplinare e antropologicamente centrata. Seguiamo, quindi, i due itinerari dell’attivismo: scolastico e pedagogico.

1. Le «scuole nuove» e l’educazione attiva

Tra l’ultimo decennio dell’Ottocento e il terzo decennio del nuovo secolo si affermano, nella pedagogia mondiale, alcune esperienze educative di avanguardia, ispirate a principi formativi assai difformi rispetto a quelli in vigore nella scuola tradizionale. Alla base di questa coscienza educativa innovatrice stavano sia le scoperte della psicologia, che era venuta affermando la radicale «diversità» della psiche infantile rispetto a quella adulta (alla quale invece era stata in genere sempre assimilata), sia il movimento di emancipazione di larghe masse popolari nelle società occidentali, che veniva a innovare in profondità il ruolo della scuola e il suo profilo educativo, accantonandone con decisione l’aspetto esclusivamente elitario. Anche se le «scuole nuove» nacquero e si svilupparono come esperimenti isolati, legati a condizioni particolari ed a personalità eccezionali di educatori, esse, proprio perché ebbero subito larga risonanza nel mondo educativo, avviarono una serie di richieste nel campo dell’istruzione, rivolte a trasformare profondamente la scuola, non solo nel suo aspetto organizzativo e istituzionale, ma anche, e forse soprattutto, in quello connesso agli ideali formativi ed agli obiettivi culturali.
Il carattere comune e dominante di queste «scuole nuove», che ebbero diffusione prevalentemente in Europa occidentale e negli Stati Uniti, va individuato nel richiamo all’attività del fanciullo. L’infanzia, secondo questi educatori, va vista come un’età pre-intellettuale e pre-morale, nella quale i processi cognitivi si intrecciano strettamente all’operare e al dinamismo, anche motorio oltre che psichico, del fanciullo. Il fanciullo è spontaneamente attivo e necessita quindi di esser liberato dai vincoli dell’educazione familiare e scolastica, permettendogli invece una libera manifestazione delle sue inclinazioni primarie. In conseguenza di questo presupposto essenziale la vita della scuola deve subire profondi cambiamenti: deve essere, possibilmente, allontanata dall’ambiente artificiale e costrittivo della città; l’apprendimento deve avvenire a contatto con l’ambiente esterno, alla cui scoperta il fanciullo è spontaneamente interessato, e attraverso attività non esclusivamente intellettuali, ma anche di manipolazione, rispettando in tal modo la natura «globale» del fanciullo, che non tende mai a separare conoscenza e azione, attività intellettuale e attività pratica. Alla base delle «scuole nuove» c’è quindi un comune ideale di educazione o di «scuola attiva» (come ebbe a definirla acutamente il ginevrino Pierre Bovet) di cui queste esperienze saranno, ad un tempo, gli alfieri e i modelli. Le «scuole nuove» sono, inoltre, anche una voce di protesta, a volte di sapore quasi tardo-romantico, contro la società industriale e tecnologica. Esse si alimentano in prevalenza, di una ideologia democratica e progressista, ispirata ad ideali di partecipazione attiva dei cittadini alla vita sociale e politica, di sviluppo in senso libertario dei rapporti sociali stessi, anche se connessa ad una concezione fondamentalmente individualistica dell’uomo, secondo la quale i rapporti di comunicazione con gli altri sono certamente essenziali, ma senza che vengano ad intaccare l’autonomia della coscienza e la libertà personale di scelta.
L’esperimento delle «scuole nuove» fu avviato in Inghilterra da Cecil Reddie (1858-1932) che nel 1889 aprì ad Abbotsholme (presso Derbyshire) una scuola per ragazzi dagli 11 ai 18 anni che diresse fino al 1927. Secondo Reddie l’insegnamento andava profondamente mutato per renderlo più idoneo alle esigenze della società moderna. È necessario in contrapposizione a un programma formativo antiquato (lingue morte al centro, lingue vive e scienze ai margini) «conseguire uno svolgimento armonico di tutte le facoltà umane». Il ragazzo deve diventare un uomo completo «per essere in grado di assolvere tutti gli scopi della vita». A tale fine la scuola deve divenire «un piccolo mondo reale, pratico» e collegare sistematicamente «l’intelligenza» e «l’energia, la volontà, la forza fisica, l’abilità manuale, l’agilità».
Una seguace di Reddie, Haden Badley, si staccò da Abbotsholme per fondare a Bedales, nel Sussex, una scuola-internato che si organizzava secondo principi ancora più radicali, in quanto valorizzava al proprio interno un sistema di autogoverno e il principio della coeducazione.
All’esperimento di Reddie si richiamò esplicitamente il francese Edmond Demolins (1852-1907) nella sua École des Roches, che sorse in Normandia nel 1899. La scuola è posta «in campagna», in un parco ancora semi-selvaggio che «lascia ancora molto daffare ai maestri e agli alunni». In esso i fanciulli si muovono «in piena libertà» ed abitano in case «confortevoli» che richiamano l’ambiente casalingo, in modo che sia mantenuta in tutto «la sensazione della vita reale quale si trova in una famiglia sana e felice». L’obiettivo della scuola fondata da Demolins, e proseguita poi da Georges Bertier (1877-1909), è quello di attuare una formazione globale del fanciullo, tanto intellettuale che fisica, morale e sociale. Lo spirito di socialità e di attiva collaborazione risulta come largamente incentivato anche dalla partecipazione dei ragazzi stessi alla organizzazione della vita in comune. Lo studio viene svolto secondo l’individuazione di «centri di interesse», che hanno alla base il legame dei ragazzi con «la terra», vista come elemento predominante nelle attività economiche e sociali. Ciò conduce anche alla valorizzazione delle attività pratiche, presenti sia nel corso di studi sia nelle occupazioni ricreative. Più volte dell’École des Roches, come di quella del Reddie, è stato messo in rilievo, e non a torto, il carattere di isola privilegiata, rivolta a pochi ragazzi fortunati di buona estrazione economica e sociale e radicalmente distante dai problemi emergenti con la scuola di massa, che andava affermandosi già agli albori del nuovo secolo.
Anche in Germania Hermann Lietz (1868-1910) con le sue Case d’educazione in campagna che si ispirano, ma in chiave ancora più aristocratica, alle esperienze di Reddie e Demolins e Paul Geheeb (1870-1961) con la sua scuola legata all’ideale di un neoumanesimo goethiano, avviano alcuni esperimenti significativi di «scuole nuove». Furono, però soprattutto Gustav Wyneken (1875-1964) e Georg Kerschensteiner (1854-1932) che svilupparono in forme più originali e coerenti gli ideali di un rinnovamento educativo e scolastico.
Wyneken elaborò un modello educativo antiborghese e libertario che esercitò larga suggestione sulla gioventù tedesca fino alla prima guerra mondiale (basta ricordare che Wyneken fu uno dei «maestri» di Walter Benjamin). Il suo ideale pedagogico, di carattere essenzialmente anarchico, poneva al bando l’autorità della famiglia, la tirannia degli adulti, i metodi scolastici mistificanti e conformistici e valorizzava invece la libera iniziativa dei giovani che dovevano organizzarsi in maniera autonoma (in un movimento, sorto nel 1896, che Wyneken chiamò dei Wandervogel o uccelli migratori, che si ispirava al motto rousseauiano del «torniamo alla natura» e organizzava il tempo libero domenicale dei giovani) ed esigeva una formazione scolastica che desse più spazio alle lingue moderne e alle conoscenze scientifiche. Con la rivista «Il Principio», fondata a Berlino nel 1913, e con le sue opere, da Scuola e cultura giovanile (1912) e Rivoluzione e scuola (1924), diffuse il suo messaggio rivolto alla gioventù tedesca e venne organizzando, in una età di profonda crisi spirituale e di vivaci inquietudini sociali, la «protesta» giovanile, alla quale aderirono specialmente i giovani borghesi e che si caratterizzava per l’esaltazione di un senso romantico della vita, per l’avversione alla vita della città, per il richiamo al popolare, al semplice, al naturale.
Kerschensteiner venne elaborando un modello di scuola nuova che chiamò «scuola del lavoro». La formazione pedagogica di Kerschensteiner avvenne attraverso Dewey e il suo richiamo alla manualità in educazione. Nell’opera Il concetto della scuola del lavoro proponeva di rinnovare il curriculo tradizionale degli studi, specialmente elementari, con l’introduzione del lavoro. Il lavoro è infatti l’attività fondamentale dell’uomo e come tale deve esser posto al centro dell’educazione infantile, ma deve essere un lavoro preciso e serio, svolto collettivamente e dotato di valore reale (cioè produttivo, anche se non economico). Per svolgere tale lavoro le scuole debbono esser dotate di attrezzati laboratori e officine (come lo stesso Kerschensteiner fece a Monaco, quando fu incaricato di avviare una organica riforma delle scuole professionali post-elementari). Tuttavia il lavoro non è fine a se stesso; esso deve «badare che le rappresentazioni dei fini dell’azione producano una reazione di natura obiettiva, una reazione rivolta a un valore obiettivamente pregevole o eterno, a un valore di verità, di moralità, di bellezza, di liberazione, in breve ad un valore di ordine e di coerenza spirituale per amore dell’ordine e della coerenza spirituali in se stessi». Il lavoro risulta quindi educativo quando è pienamente consapevole delle proprie finalità complessive. La scuola pubblica rinnovata sulla base del lavoro deve mirare a raggiungere una formazione professionale, una formazione morale ed una educazione sociale del fanciullo e del giovane. Anzi la formazione sociale è vista come l’obiettivo fondamentale della scuola popolare, in quanto questa deve dare ai ragazzi, come ideale di vita, quello di porsi al servizio degli altri, attraverso anche lo stesso impegno che ognuno deve assumere per svolgere con precisione e responsabilità il proprio lavoro.

John Dewey, Scuola e società (1899)

L’opera-manifesto della scuola attiva, che Dewey stese durante gli anni di Chicago, quando era direttamente impegnato in sperimentazioni di rinnovamento scolastico, già nel titolo afferma il primo (e più centrale) nucleo del suo messaggio educativo: la scuola deve integrarsi nella società e riorganizzarsi seguendo le continue trasformazioni sociali. In particolare con l’avvento della società industriale, che sempre più si struttura in senso democratico, la scuola viene ad assumere due compiti essenziali: formare allo spirito scientifico (poiché la scienza-tecnica è il motore di questa società) e formare alla democrazia (poiché tutti i cittadini devono farsi in essa attivi e consapevoli; allenati a partecipare ai processi di elaborazione delle decisioni collettive). Per raggiungere questi scopi (nuovi) la scuola deve trasformarsi, collegandosi all’ambiente che la circonda e interagendo con esso, portando nel suo ambito le varie attività che nell’ambiente si manifestano, pur mutandole, via via, in conoscenze scientifiche. Da qui il modello nuovo di scuola che Dewey propone: una scuola-laboratorio e una scuola-comunità.
La scuola-laboratorio sarà costituita da diversi atelier dove i ragazzi svolgeranno attività (tessili, gastronomiche, di produzione di beni anche artistici, biologici, etc.) e prenderanno coscienza dei problemi conoscitivi che approfondiranno poi attraverso lo studio (nella biblioteca e nel museo). Al centro dell’attività scolastica c’è ora il ragazzo, con i bisogni connessi alla sua età evolutiva e di cui la scuola stessa deve tener conto, nutrendosi degli «studi sul fanciullo» che ce lo indicano sì come rivolto alla conoscenza intellettuale, ma anche e soprattutto al «fare» e al gioco, che – quindi – devono entrare con forza e centralità nel curricolo scolastico. La scuola deve, così, articolarsi a seconda degli stadi dell’età evolutiva, rispettando le caratteristiche psicologiche di questi stadi e facendo sì che, sempre, si parta dall’«esperienza vitale e personale» del ragazzo e dai suoi propri «problemi, moventi, interessi», che verranno svolti col «sussidio dei libri per la loro soluzione, per il loro soddisfacimento e per il loro perseguimento». Come comunità la scuola deweyana si articolerà intorno a un modello di «società embrionale», nella quale il bambino «partecipa al lavoro in vista del prodotto», ma senza finalità economiche, bensì formative. La scuola dovrà farsi «comunità di lavoro».
Al centro della scuola teorizzata (e reclamata) da Dewey ci sono le «occupazioni» che «offrono occasioni ideali sia per l’addestramento dei sensi che per la disciplina del pensiero». Occupazioni che collegano inoltre e sempre più il bambino all’ambiente e al suo studio. L’opera di Dewey è stata un vero manifesto-modello della scuola attiva e, tradotta nelle varie lingue, ha influito in modo centrale su tutto il movimento dell’educazione nuova e anche oltre di esso.

2. Le scuole nuove in Italia

In Italia le «scuole nuove» si svilupparono nell’ambito di quella che Giuseppe Lombardo Radice definì come «scuola serena». Tale scuola si ispirava ad un ideale di continuità tra la scuola e la famiglia, ad una valorizzazione delle attività artistiche e ad una visione del fanciullo come artista spontaneo. L’insegnamento quindi in essa veniva a perdere ogni rigidità preordinata e si sviluppava secondo i principi della «serenità, equilibrio, attività, spontaneità». I rappresentanti, tra altri minori dalla Franchetti ad Angelo Patri, più illustri della scuola serena furono Maria Boschetti Alberti (1884-1951) che operò a Muzzano e ad Agno (nel Canton Ticino) e fu elogiata da Lombardo Radice e Ferrière, Rosa Agazzi (1866-1951), che, vicino a Brescia, a Mompiano, organizzò con la sorella Carolina (1870-1945) un metodo innovatore per la scuola infantile, e Giuseppina Pizzigoni (1870-1947) che fu la creatrice della «Rinnovata», aperta a Milano nel 1911 nel popolare quartiere della Ghisolfa.
La Boschetti Alberti nei suoi volumi Il diario di Muzzano e La scuola serena di Agno descrive la sua esperienza di insegnante elementare che viene prendendo gradualmente coscienza dell’insufficienza dell’insegnamento tradizionale e chiarisce i presupposti educativi e didattici di una scuola rinnovata. La sua «scuola serena» si svolge in un ambiente non attrezzato secondo criteri didattici di avanguardia, ma essa dipende essenzialmente dal ruolo che viene ad assumere il maestro, dal suo impegno e dalla sua coscienza pedagogica ed educativa. Il lavoro scolastico, nell’esperienza della Boschetti Alberti, si articola in tre gruppi di attività: l’«accademia», che comprende «letture, recitazioni, poesie» programmate direttamente dai ragazzi ed ha lo scopo di sviluppare nei fanciulli il senso del bello; il «controllo»: questo viene svolto dall’insegnante seguendo ogni giorno una diversa materia, che gli alunni hanno portata avanti attraverso il lavoro individuale per due settimane; il «lavoro libero», che si svolge a gruppi, anch’essi liberi, e riguarda le attività verso le quali i ragazzi si sentono maggiormente attratti. L’esperimento della Boschetti Alberti, pur «interessante» (come ebbero a definirlo alcuni pedagogisti svizzeri), è troppo legato alla iniziativa individuale dell’insegnante, troppo personale, per potere assumere un significato più generale. La stessa educatrice-pedagogista ticinese era cosciente della particolarità del suo «metodo» quando affermava: «Che metodo uso? Studio le manifestazioni di anime, studio i miei alunni. Io non faccio che notare ciò che più mi impressiona»; per poi concludere: «Amore, amore! Ecco il mio metodo». Certamente in questa posizione le scoperte innovatrici della scuola attiva erano rivissute in maniera viva e personale, ma in forma intuitiva e non scientifica, assai vicina ai presupposti spiritualistici dell’idealismo pedagogico.
Rosa Agazzi elaborò un metodo personale e innovatore nei riguardi delle scuole per l’infanzia, cercando di superare i limiti del fröbelismo e dell’aportismo. Il suo metodo si fondava, prima di tutto, sul principio della continuità tra asilo infantile ed atmosfera familiare, quindi l’educatrice doveva assumere un ruolo quasi materno ed il lavoro dei fanciulli doveva essere soprattutto libero e attivo (giardinaggio, pulizia, etc.), ma anche svolgersi in un ambiente ordinato, al cui mantenimento il bambino stesso doveva partecipare. Tra i fanciulli doveva inoltre essere sviluppato un forte senso di collaborazione. L’invenzione didattica più significativa della Agazzi fu però il materiale non preordinato, non scientifico e occasionale, che veniva definito come un insieme di «cianfrusaglie senza brevetto», costituito da tutto ciò che i fanciulli stessi raccoglievano o portavano a scuola ed al quale si interessavano. Tale materiale comprendeva anche gli oggetti di corredo di ogni fanciullo che venivano contrassegnati, in modo tale che ogni bambino potesse collaborare al mantenimento dell’ordine. Col primo tipo di materiale si allestisce il «museo» e si vengono articolando ricerche, conversazioni ed esperienze che costituiscono un momento essenziale della vita della classe. Gli aspetti fondamentali del metodo agazziano hanno un deciso carattere anti-montessoriano che va sottolineato: l’ordine nasce qui dai ragazzi e non dall’ambiente preordinato scientificamente, come pure i materiali di studio sono spontaneamente raccolti e non predeterminati secondo criteri esclusivamente scientifici. Proprio questo aspetto più intuitivo e spontaneo condusse Lombardo Radice a vedere nel metodo Agazzi un esempio vivente di «scuola serena».
Giuseppina Pizzigoni con «La Rinnovata» cercava di operare nell’ambito della scuola tradizionale, rinnovandone profondamente il metodo. Prima di tutto è necessario far entrare nella scuola l’esperienza diretta dei fanciulli e collegare la vita scolastica e quella sociale, portando i ragazzi a visitare officine e città, monti e mare. «Io porto l’universo nella scuola e la scuola nell’universo», sosteneva Giuseppina Pizzigoni, in modo che il fanciullo «veda, conosca, senta, ami». Il suo metodo «sperimentale» (come fu esposto nel 1914 in La nuova scuola elementare rinnovata secondo il metodo «sperimentale», ed in altre opere successive) pose al centro anche il lavoro ed una intensa attività sociale ed inoltre fu rivolto ad introdurre (nelle scuole elementari pubbliche, di cui «La Rinnovata» segue i programmi e gli orari) «la precedenza assoluta dell’esperienza dell’alunno rispetto alla parola del maestro».
Un esperimento di scuola attiva, assai più tardo rispetto ai precedenti, ma che è stato altamente significativo e largamente conosciuto ed elogiato, è rappresentato da «Scuola-città Pestalozzi», sorta a Firenze nel 1945 per iniziativa di Ernesto e Anna Maria Codignola. La scuola-città ha come obiettivo primario quello della formazione sociale dei ragazzi, di renderli consapevoli dei loro doveri e diritti civici e quindi si basa su una organizzazione interna che rispecchia quella della comunità adulta (con sindaci, tribunali, cerimonie, etc.) e che viene gestita direttamente dai ragazzi, allenandosi così alla acquisizione di un comportamento democratico. La scuola-città «vuole essere una comunità di lavoro, un alveare di spiriti operosi ed alacri, in cui tutti, a turno, partecipano a tutti gli aspetti della vita collettiva». L’insegnamento scolastico muove direttamente ...

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Cambi, F. (2014). Le pedagogie del Novecento ([edition unavailable]). Editori Laterza. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3460854/le-pedagogie-del-novecento-pdf (Original work published 2014)

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Cambi, Franco. (2014) 2014. Le Pedagogie Del Novecento. [Edition unavailable]. Editori Laterza. https://www.perlego.com/book/3460854/le-pedagogie-del-novecento-pdf.

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Cambi, F. (2014) Le pedagogie del Novecento. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3460854/le-pedagogie-del-novecento-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Cambi, Franco. Le Pedagogie Del Novecento. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2014. Web. 15 Oct. 2022.