Israele
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Israele

Una storia in 10 quadri

Claudio Vercelli

  1. 192 pages
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Israele

Una storia in 10 quadri

Claudio Vercelli

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Dalla sua nascita, nel 1948, lo Stato d'Israele è costantemente al centro dei conflitti nel Medio Oriente e della politica internazionale. Il confronto con la comunità palestinese, che continua a insanguinare questa terra, spinge moltissimi a schierarsi pro o contro, senza provare a comprendere le effettive ragioni di quanto sta avvenendo. Partiamo allora da alcuni passaggi nodali, nella demografia, nell'economia e nella geografia, per conoscere meglio la storia di un paese estremamente complesso, vivace e differenziato, attraverso le sue tante trasformazioni. Così facendo, questo libro identifica gli elementi più importanti dei cambiamenti d'Israele e fornisce al lettore le chiavi fondamentali per interpretarne le recenti evoluzioni.

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Information

Year
2022
ISBN
9788858148198

1.
Pensare il nome «Israele»

Israele è un nome ma richiama immediatamente un universo di significati, a volte contrastanti tra di loro. La Bibbia evoca il termine non come riferimento a un luogo fisico, oppure a un popolo, ma come il nome dell’ultimo dei tre patriarchi, Giacobbe. Il figlio di Isacco e Rebecca, nipote di Abramo, nella Genesi, al capitolo 32, versetto 29, vede cambiato il suo nome dopo avere lottato contro un angelo: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto». Nel libro dell’Esodo, i figli di Giacobbe, così come i loro discendenti, sono chiamati «figli d’Israele». La tradizione testuale, e poi conversativa, ricorre ripetutamente al lemma, consolidandone in tal modo il ricorso. L’uso abituale sovrappone la dimensione materiale (la terra, una collettività) a quella ideale (la dimensione spirituale, la coesione di un gruppo). Dall’incontro tra queste due accezioni deriva una tradizione sospesa tra mitografia e storia. La mitografia si proietta all’indietro, cercando in una specifica idea di passato le ragioni, le radici ma anche le motivazioni del presente. Il suo sguardo prospettico rimanda a ciò che fu per affermare che quanto avviene oggi è il prosieguo di un disegno, che sia inteso in termini secolarizzanti piuttosto che in chiave religiosa.
La storia – e con essa il corpo storiografico di studi che hanno accompagnato la riflessione sugli ebrei, sull’ebraismo e poi sull’attuale Stato d’Israele – offre invece una visione più complessa degli eventi trascorsi, adoperandosi per distinguere tra possibili invenzioni e riscontri oggettivi, materiali, documentali dell’insieme di tradizioni. Tutti i discorsi su Israele sono infatti innervati dentro questo continuo gioco di rimandi tra realtà e immaginazione. Forse anche per una tale ragione gli infiniti echi di ciò che ad esso si accompagna diventano materia continua di discussione e, molto spesso, di contrapposizione. Fino all’accesa divisione che le vicende dello Stato d’Israele hanno innescato e alimentato, a partire soprattutto dal rapporto conflittuale con la società palestinese, attraversando tutta la seconda metà del Novecento per arrivare fino a oggi.
Continuando l’indagine sul versante linguistico, la menzione più antica d’Israele risalirebbe alla Stele di Merenptah, datata una dozzina di secoli prima della nascita di Gesù, laddove si cita la parola per riferirsi all’esito vittorioso di una campagna militare nelle terre di Canaan, dove tra gli altri sarebbe stato sconfitto un popolo di pastori nomadi: ysrr. A partire da ciò si srotola l’intera storia ebraica laddove essa è contrassegnata dalla ricerca di una qualche forma di sovranità, ovvero di una indipendenza politica. Non è una vicenda di continuità. Semmai contano molto di più le discontinuità, ossia la dialettica tra riunificazioni e dispersioni, condivisioni e fughe, unioni e separazioni. Ciò che conosciamo con il nome di «diaspora» indica esattamente questo: non la storia di una comunità uguale a sé medesima, destinata a replicarsi nel tempo secondo un cliché immodificabile, ma il groviglio di legami, rapporti, scambi e relazioni, così come di ibridazioni che, nel corso dei secoli, ha fatto sì che grazie – e non malgrado – i molti cambiamenti vissuti, una qualche comune radice rimanesse. Su quale concretamente sia quest’ultima, va da sé che le opinioni divergano, e di molto: per chi è religioso, il legame con la parola divina, e con la narrazione biblica, attraverso l’ermeneutica di queste, è il fuoco di tutto; per chi ricava dall’ebraismo una dimensione etica e spirituale, il nesso che unisce è quello della moralità; per il laico, il più delle volte, il rimando è all’istituto giuridico della cittadinanza e alle funzioni attribuite all’esercizio della sovranità. Una sovranità, in quest’ultimo caso, che indica autonomia e, quindi, indipendenza, all’interno delle quali sviluppare quel complesso reticolo di pensieri, abitudini e condotte che viene chiamato con il nome di «identità». Ragion per cui, applicare i comuni criteri interpretativi, che abitualmente si usano per definire la traiettoria di un popolo, alla storia di questa strana società è impresa per nulla agevole. Poiché si tratta di un aggregato fatto di persone, generazioni e gruppi la cui effettiva radice d’origine non è l’unione bensì la dispersione, senza che da ciò siano derivate la consunzione, l’assimilazione e la definitiva sparizione nel buco nero del tempo.
Beninteso, non esiste nessun eccezionalismo ebraico. Non c’è una qualche imperscrutabile differenza d’origine che farebbe degli ebrei un’entità a parte, quindi incomparabile con il resto del mondo. Forse il vero mistero, se ci si deve esprimere in tali termini, è quello della permanenza nel tempo di una certa idea di se stessi, e dei legami che da ciò derivano, nel medesimo momento in cui si affronta la propria e altrui storia come esperienza, e quindi narrazione, del mutamento. La cristallizzazione e la riduzione del tema delle identità a una sorta di entità atemporale, completamente slegata dallo scorrimento della vita, è una clamorosa finzione. Chi afferma altrimenti, che si tratti del caso di elogiare piuttosto che di dileggiare, in tutta plausibilità falsifica il riscontro storico. Tuttavia, se si parla, come faremo diffusamente, della società e dello Stato d’Israele nella contemporaneità, si rischia da subito un cortocircuito. Proprio perché le parole sono inflazionate, ossessive, ripetute al di fuori di qualsiasi contesto critico, il più delle volte per puro gusto polemico. Un frutto amaro dell’irrisolto conflitto tra israeliani e palestinesi è l’intossicazione del linguaggio, la sua riduzione a strumento di una brutale semplificazione, del tutto funzionale alla contrapposizione tra tifoserie.
Per qualsiasi riflessione di merito sull’Israele di oggi bisogna allora partire da un’espressione molto comune ancora in tempi recenti, benché di minore fortuna negli anni a noi più prossimi. Si parla infatti della «questione ebraica». Si tratta di una locuzione al medesimo tempo tanto indispensabile quanto ambigua e anodina. Ambigua poiché si è caricata di accezioni e significati mutevoli nel corso dei due ultimi secoli, imponendosi tuttavia secondo declinazioni di giudizio molto severe, piene di implicazioni. Anodina in quanto incapace di dare conto di un qualcosa che avrebbe invece voluto definire una volta per sempre. Tuttavia, la sua radice storica rinvia alla condotta assunta dagli Stati nei confronti degli ebrei, parte delle loro popolazioni, soprattutto durante l’età contemporanea. La specificità ebraica è stata peraltro definita, fin dalle premesse della storia di ciò che stiamo raccontando, come un’alterità che produce alterazione, quindi rischio e minaccia. Con il diffondersi del cristianesimo nel bacino mediterraneo, infatti, la presenza ebraica è stata valutata sempre più spesso in termini politici. Ovvero, richiamandosi alla ricaduta civile e sociale del suo insediamento, all’interno dei sistemi di potere che si sono alternati di volta in volta. Non si trattava di un gruppo tra gli altri, ma della comunità responsabile della morte del Messia. La tematizzazione della dimensione diasporica si inscrive in questo messaggio, diventando la concreta punizione per l’empietà del gesto, quindi la condanna eterna, il suggello definitivo in ragione di una macchia ritenuta indelebile. La dispersione, derivante dalla conclusione dei regni giudaici, in un tale dispositivo ideologico, è il castigo duraturo, definitivo per un popolo destinato a rimanere senza terra, privato di uno spazio con il quale identificarsi non solo idealmente ma anche concretamente, nei fatti.
L’antigiudaismo cristiano fu un pregiudizio di ridotto impatto fino a quando, con il concilio Lateranense IV del 1215, vennero introdotte una serie di misure estremamente limitative. In particolare, le disposizioni riguardo agli ebrei, contenute in quattro decreti, concernevano il ricorso al prestito ad interesse, interdetto ai cristiani ma consentito ai «giudei»; le misure di distinzione tangibile, quindi nel modo di vestire, così come di divieto o limitazione nelle unioni «promiscue» insieme a una serie di vincoli relativi a specifiche condotte pubbliche, che avrebbero dovuto essere ispirate a modestia e contegno, per non offendere i cristiani; l’interdizione dai pubblici uffici, ovvero dalle cariche la cui potestà e i cui effetti riguardavano anche i cristiani; i procedimenti di conversione. Il criterio ricorrente in queste misure, così come in altre, che si sarebbero accompagnate o che sarebbero seguite nel corso del tempo, era il medesimo: distinguere, segnare e stigmatizzare, utilizzando la colpevolizzazione di una minoranza per compattare la maggioranza, quindi il resto della popolazione. Non è compito di queste note ripercorrere la storia dell’antigiudaismo e la sua reviviscenza nell’antisemitismo contemporaneo. Il tema della cosiddetta questione ebraica, tuttavia, si innerva all’interno di essi. In altre parole, è questione relativa al posto degli ebrei nel mondo non ebraico, quindi alla loro percezione, definizione, accettazione o rifiuto tra quanti ebrei invece non sono.
Non tutta la storia ebraica, e ancor meno quella dello Stato d’Israele, può essere letta solo alla luce dell’antisemitismo. La stessa storiografia si è incaricata, in questi ultimi cinquant’anni se non più, di fare giustizia di un approccio monodimensionale. Rimane tuttavia il riscontro che alle radici di un processo storico che porta, in una parte del mondo ebraico, alla ricerca in età contemporanea di una sovranità politica vi siano molteplici fattori. Tra di essi, per l’appunto, il ricorrente rifiuto altrui. Motivato in chiave razzista. E con esso, l’impedimento alla libertà di poter vivere nei paesi di origine senza dover subire intimidazioni, vessazioni se non persecuzioni o peggio ancora. Dal XVIII secolo, i progressivi processi di «emancipazione», la liberazione degli ebrei dai vincoli di minorità civile, sociale ed economica fino ad allora sanciti dalle norme vigenti, se da un lato comportarono la progressiva integrazione nelle nazioni di appartenenza, dall’altro rigenerarono le motivazioni dell’interdizione nei confronti della minoranza. I percorsi di costruzione delle identità nazionali europee, al pari delle idee di cittadinanza che vennero progressivamente affermandosi, implicavano anche la riformulazione della minaccia di un «pericolo ebraico». L’una cosa, ossia l’integrazione giuridica, non escludeva infatti l’altra, la dannazione ideologica. Se in Europa occidentale, ovvero al di qua degli attuali confini della Polonia con la Germania, l’affermarsi delle costituzioni liberali derubricava e scioglieva il tema delle identità particolariste, di gruppo, dentro il più generale percorso della costruzione delle appartenenze costituzionali, quindi delle fedeltà nazionali (uniti nelle diversità, sotto lo stesso sovrano, ovvero «il popolo»), in Oriente, a partire dalla Russia zarista, le cose andavano ben diversamente. Non di meno, negli stessi pae­si a democrazia liberale l’affermarsi di un antisemitismo politico, fondato sulla denuncia pubblica della persistente dannosità dell’ebraismo – che ora veniva sempre più spesso associato anche alle «classi pericolose», quelle subalterne, coniugando in più di una circostanza questione ebraica a «questione sociale» –, stava diventando un vettore di aggregazione politica. Essere contro gli «ebrei» (intesi non in quanto liberi cittadini bensì come un consorzio di cospiratori) diveniva la chiave di volta per rifiutare qualsiasi cambiamento, rifugiandosi nella falsa sicurezza di una «tradizione» ancestrale che avrebbe invece dovuto conservare gli antichi ordini della società, altrimenti compromessi dalla disgregazione dei processi di modernizzazione.
Gli ebrei, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e per tutta la prima metà del secolo successivo, furono quindi ripetutamente descritti come sobillatori delle classi lavoratrici, delle quali erano comunque parte, assumendone, a volte, anche il ruolo di élites intellettuali e politiche. Così come, in un gioco di specchi, sempre più spesso venne affermandosi un altro filone del discorso antisemitico, quello che ascriveva ad essi potere e denaro, due elementi strategici, in grado di condizionare l’evoluzione delle comunità umane. Non a caso, infatti, liberalismo, socialismo e comunismo furono loro attribuiti come manifestazioni di pensiero – e azione – volte a distruggere gli equilibri primigeni sui quali posava invece la purezza e la naturalità degli ordinamenti tradizionali, dove ognuno aveva una funzione e un ruolo prestabiliti. In altre parole, gli ebrei come agenti di un cambiamento caotico, dettato dalle trasformazioni rivoluzionarie della contemporaneità, delle quali beneficiavano a danno del resto della società.
In questa congerie di elementi, ripetuti con ossessività, l’idea che l’ebraismo e gli ebrei costituissero una sorta di entità omogenea, un sodalizio non scalfibile, immutabile, astorico malgrado la concreta frammentazione spaziale e i diversi percorsi culturali, civili e politici dei tanti, dominava su qualsiasi altro ordine di considerazioni. La tesi portante era che il rimando alla questione ebraica contenesse in sé i caratteri di una denuncia antropologica: la diversità degli ebrei non era segnata solo dalla loro non assimilazione alle società maggioritarie, a partire da quelle cristiane, ma anche dal predominio e dalla persistenza di un tratto profondo, archetipico, ineludibile, in ragione del quale era legittimo dubitare della loro appartenenza all’umanità. Il differenziale, in altre parole, non era solo di ordine culturale ma rimandava a una diversa natura di fondo, che riguardava la loro essenza stessa, connotata da una perfidia e da una malvagità insuperabili. Non si poteva quindi procedere a una parificazione dei diritti, estendendoli agli ebrei, poiché essi non erano in nulla omologhi ai non ebrei, costituendo semmai una minaccia per l’integrità di questi ultimi.
Una tale messa in causa dei processi di emancipazione, al cuore dell’antisemitismo contemporaneo, intervenne sulle comunità ebraiche tuttavia con effetti differenti, sia in base alla collocazione nazionale di esse sia in ragione della loro composizione. Gli ebrei dell’Europa occidentale, benché con tempi e modalità tra loro diverse, si avvantaggiarono, al pari di molti non ebrei, delle ricadute dei processi di costruzione di un’arena politica sempre più partecipativa e inclusiva, essendone essi stessi in parte protagonisti. I correligionari dell’Europa orientale (che nel XIX secolo costituivano l’80% dell’intera popolazione ebraica mondiale), invece, dovettero attendere le rivoluzioni del 1917 per conoscere un nuovo orizzonte esistenziale. Che anche in quel caso, tuttavia, sarebbe risultato problematico per più ragioni. Non di meno, la spaccatura interna era anche fortemente legata alle identità e ai comportamenti dei singoli. Per gli ebrei ortodossi e ultraortodossi, il riaccendersi di un antisemitismo di nuovo conio, generatosi dopo le ricadute di lungo periodo della Rivoluzione francese e basato sull’idea che l’ebraismo fosse non una religione ma un insieme di vincoli antichi di natura antropologica, ovvero ciò che veniva definito con il nome di «razza», costituiva la triste ma prevedibile conferma di una vecchia e consolidata ostilità dei gentili, i non ebrei. Nulla di nuovo sotto il cielo, in altre parole. Si trattava semmai di rinserrare le proprie file, fare i conti con la modernità costruendosi nicchie esistenziali, accettare lo stato delle cose, appellandosi infine ad un tempo della redenzione che, prima o poi, si sarebbe comunque realizzato. Per quegli ebrei che invece identificavano la propria condizione con quella di praticanti un culto diverso da quello cristiano ma nulla di più, ovvero gli «israeliti», l’impegno civile (ed eventualmente politico) era imprescindibile, divenendo la matrice più profonda della propria identità: non espressione di un’appartenenza di gruppo, variamente intesa, ovvero strumento di autodifesa così come di tutela di specifiche prerogative proprie, bensì accesso a tutti i ruoli e alle funzioni della società nazionale, nel nome della nuova cittadinanza.
In quest’ultimo caso, il rimando agli ideali illuministi si coniugava al superamento di qualsiasi forma di particolarismo identitario, quest’ultimo inteso invece come un fardello dell’«ebreo» tradizionalista e oramai fuori dal tempo, tale perché ancora legato a una pesante zavorra di superstizioni e anacronismi. La divisione in corpo all’ebraismo era all’epoca non solo marcata ma evidente: modernità e secolarizzazione di contro all’ancoraggio ad un corpo di abitudini e atteggiamenti mentali destinati, secondo la loro lettura critica, a puntellare la persistente subalternità civile, sociale ma anche morale. L’orizzonte, semmai, era adesso quello inscritto nelle istituzioni repubblicane e costituzionali, di cui la Francia postrivoluzionaria e gli Stati Uniti erano diventate le nazioni paladine. Sia pure tra mille distinguo e con molte contraddizioni. Proprio per questa secca bipartizione tra immediata costrizione e promettente opportunità, tra triste prevedibilità e aurorale possibilità, dal 1881, anno dell’assassinio dello zar Alessandro II per mano dei cospiratori di Narodnaja Volja («Volontà del popolo»), gesto falsamente attribuito invece ai «giudei», iniziò un vero e proprio esodo che, dai territori slavi, avrebbe portato quasi tre milioni di ebrei oltre il confine zarista. Si trattava dell’inizio di un rivolgimento epocale per l’ebraismo, conclusosi solo in anni recenti, con la sostanziale scomparsa del grande insediamento nell’Europa orientale e la costituzione di due macrocomunità, quella israeliana e quella statunitense.
Da questi infiniti rivoli, durati almeno fino al 1914, anno dell’inizio della Grande Guerra, l’utopia sionista, quella che postulava la nascita di una società ebraica indipendente in terra di Palestina, avrebbe ricevuto respiro, corpo e quindi seguito. Ovvero, plausibilità e quindi possibilità. Se una tale spinta non ci fosse stata, le cose, in tutta probabilità, sarebbero andate molto diversamente. Quando si parla di questione ebraica nell’età contemporanea, declinandola sul piano degli effetti di lungo corso dell’antisemitismo, al netto del successivo sterminio nazista, ci si riferisce essenzialmente a questo gigantesco trasferimento di popolazioni, che nel corso di un secolo e mezzo ne ha rimodellato integralmente la composizione e la dislocazione spaziale. Nelle sue premesse, e in molte delle tante conseguenze, il progetto sionista si basava non tanto sul solo vagheggiare uno Stato e, con esso, sul richiamo di una sovranità politica, bensì sul rivendicare la creazione dell’«uomo nuovo», quell’ebreo che avrebbe costruito da ...

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Vercelli, C. (2022) Israele. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3460934/israele-una-storia-in-10-quadri-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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Vercelli, Claudio. Israele. [edition unavailable]. Editori Laterza, 2022. Web. 15 Oct. 2022.