Storia della filosofia contemporanea
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Storia della filosofia contemporanea

Massimo Mori, Giuseppe Cambiano

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Storia della filosofia contemporanea

Massimo Mori, Giuseppe Cambiano

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Questa Storia della filosofia contemporanea è la continuazione della Storia della filosofia antica di Giuseppe Cambiano e della Storia della filosofia moderna di Massimo Mori e, come i volumi precedenti, è diretta a studenti universitari e a un pubblico più generale. Data la sua destinazione, offre un corso completo ricco di contenuti sia sul piano delle informazioni, sia sul piano della ricostruzione delle dottrine, con una introduzione che lo raccorda alla storia della filosofia moderna. La bibliografia contiene, a proposito degli autori stranieri, anche indicazioni riguardanti le edizioni in lingua originale e studi in lingue diverse dall'italiana, utili soprattutto per la composizione di relazioni e tesi di laurea.

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Information

Year
2014
ISBN
9788858112663

1. Contro
e oltre Hegel

1. Herbart

Almeno per tutta la prima metà dell’Ottocento – ma per alcuni aspetti anche oltre – il pensiero di Hegel influenzò fortemente la cultura filosofica tedesca, soprattutto quella legata agli ambienti accademici. Tuttavia, accanto alle «svolte» interne alla stessa scuola hegeliana, non furono infrequenti le resistenze alla diffusione dell’hegelismo, talvolta anche prima della morte del filosofo di Stoccarda. Per lo più, queste opposizioni fecero leva sul recupero di tradizioni filosofiche che l’idealismo aveva creduto di avere definitivamente superate: Herbart riprese il realismo, Fries lo psicologismo, Schopenhauer il pessimismo irrazionalistico. Spesso il recupero del passato in funzione antihegeliana passò attraverso la rivalutazione di autori classici come Kant (Herbart, Fries, Trendelenburg, ma soprattutto Schopenhauer), Aristotele (Trendelenburg) o Parmenide e Leibniz (Herbart). Altre volte, infine, la reazione a Hegel apparve il risultato di un nuovo impulso filosofico, soltanto tenuemente connesso con tradizioni precedenti, come nel caso di Kierkegaard.
Tra i primi oppositori dell’idealismo – fichtiano, prima che hegeliano – va annoverato Johann Friedrich Herbart (1776-1841). Egli studiò a Jena, seguendo le lezioni di Fichte, di cui divenne, in un primo tempo, intelligente seguace. Lasciata Jena prima della conclusione degli studi, si trasferì a Berna, dove svolse l’attività di precettore. In questo periodo, dedicato a uno studio intenso, egli fece letture che lo indussero a prendere progressivamente le distanze dalla filosofia fichtiana e dall’idealismo in generale, sviluppando un sistema inteso a «fondare il realismo a confutazione dell’idealismo». Di Parmenide condivise la tesi secondo cui l’oggetto del vero sapere è un «essere immutabile» che si contrappone alla molteplicità e variabilità dell’esperienza. Ciò lo indusse a una più attenta riflessione sull’opera di Kant, tentando di reinterpretare in termini più oggettivi – cioè meno dipendenti dalle forme a priori del conoscere – il rapporto tra fenomeno e noùmeno. Anche Schelling non fu estraneo alla formazione di Herbart, il quale fu tra i pochi a intenderne immediatamente, sin dagli esordi fichtiani, l’esigenza – che lo contrapponeva a Fichte – di riconoscere la realtà dell’oggetto rispetto al soggetto.
Terminati gli studi a Gottinga nel 1802, Herbart nel 1808 divenne professore di Filosofia e Pedagogia a Königsberg sulla cattedra che fu di Kant. Dopo la morte di Hegel sperò di essere chiamato a ricoprire il suo posto; ma, fallito questo tentativo, si stabilì definitivamente a Gottinga, la cui università era meno periferica e più importante di quella di Königsberg, e qui insegnò fino alla morte. Tutte le sue opere fondamentali risalgono al periodo di Königsberg: Pedagogia generale (1806), Filosofia pratica generale (1808), Corso di introduzione alla filosofia (1813), Manuale di psicologia (1816) e Metafisica generale (1828-29).
Il punto di partenza della ricerca filosofica di Herbart è l’esperienza, come per Kant. A differenza di Kant, tuttavia, l’esperienza non rappresenta per lui l’unica realtà conoscibile; al contrario – come per Hegel – essa è sede di irresolubili contraddizioni, le quali rimandano necessariamente a un oggetto di conoscenza che va oltre la sfera empirica. La prima di queste contraddizioni è data dal rapporto tra la «cosa» (la sostanza) e le sue «note», le sue qualità: per un verso infatti la cosa appare una, per l’altro molteplice, poiché la sua unità di cosa è frantumata nella pluralità delle qualità. Una seconda contraddizione è rappresentata dalla nozione di causalità, la quale può essere spiegata soltanto facendo riferimento a una serie infinita di cause: infatti, come già avevano insegnato i Greci, anche per Herbart il principio del regresso all’infinito implica un’assurdità logica. Ma soprattutto appare contraddittorio il divenire, che non può essere spiegato né da una causa esterna (poiché si ricade nelle contraddizioni relative al concetto di causalità), né da una causa interna (poiché anche questa rimanda a una causa interna precedente), né come divenire assoluto ovvero privo di causa, quale viene inteso da Eraclito e da Hegel (poiché in ogni caso si presuppone qualcosa che cambia, cioè un principio interno del mutamento, e qualcosa che rimane, come fondamento dell’identità della cosa con se stessa).
Il compito di spiegare le contraddizioni dell’esperienza, compiendo il passaggio dalla sfera dell’apparenza a quella dell’essere assoluto, spetta alla metafisica. Occorre infatti presupporre l’esistenza di una pluralità di enti o reali – semplici, indivisibili, inestesi e atemporali – che Herbart concepisce subendo almeno in parte l’influenza di Leibniz e della sua nozione di monade. Tali enti sono di per sé privi di relazione e immutabili. La loro relazione reciproca è tuttavia esclusa soltanto in quanto i reali sono considerati ciascuno in se stesso, come realtà assoluta che può autonomamente sussistere anche quando gli altri non esistessero. Le relazioni dipendono invece dal fatto che i reali vengono considerati non già assolutamente in sé, ma in un insieme nel quale ciascuno è visto relativamente, in rapporto agli altri: le relazioni non esprimono dunque la vera essenza del reale, ma una «veduta accidentale» che esiste solo nell’elemento del pensiero e della rappresentazione, mentre l’intrinseca natura del reale rimane per definizione immutabile. Da questo punto di vista accidentale si può dire che i reali possono esercitare un «perturbamento» – cioè un’azione di modificazione – sugli altri; così come ciascuno di essi reagisce al perturbamento proveniente dagli altri con un atto di «autoconservazione» che tende a mantenere la condizione precedente. Il piano delle relazioni di perturbamento e di autoconservazione appartiene quindi all’apparenza, non alla realtà assoluta, ancorché si tratti di un’apparenza obiettiva, in quanto vale per ogni osservatore possibile. In altri termini, noi non possiamo mai conoscere l’intima natura dei reali (del noùmeno kantiano), ma soltanto le loro relazioni, che fuoriescono dalla sfera dell’essere assoluto e ricadono nell’ambito fenomenico.
La distinzione tra il piano delle «vedute accidentali» e quello dell’essere assoluto permette di spiegare le contraddizioni dell’esperienza: infatti, ciò che sul piano dell’essere assoluto «sarebbe contraddittorio per il singolo» cessa di essere tale quando viene considerato dal punto di vista accidentale della relazione reciproca. Per quanto riguarda il rapporto tra la sostanza e le sue qualità, ad esempio, sarà sufficiente considerare queste ultime come l’effetto delle autoconservazioni che la singola «cosa» (il singolo reale) pone in atto in seguito al perturbamento di un’altra, per giustificare la compresenza dell’unità della cosa (ossia del reale) con la molteplicità delle «note» qualitative (cioè delle autoconservazioni).
Nel descrivere il reale che soggiace all’esperienza, la metafisica traduce l’esperienza in concetti. In questo modo, essa rivela la sua intima connessione con la logica. Infatti, se la filosofia in generale ha per Herbart appunto il compito di «elaborare i concetti», la logica assolve specificamente alla funzione della connessione dei concetti in giudizi e dei giudizi in sillogismi. In altri termini, a essa spetta il compito di verificare la correttezza della costruzione del pensiero – cioè la sua non-contraddittorietà – senza riguardo ai contenuti cui la connessione logica si applica. Essa viene quindi intesa da Herbart nel suo aspetto puramente formale, secondo la tradizione aristotelico-scolastica, differenziandosi in ciò da Kant, il quale a questo tipo di logica – da lui detta «logica generale» – contrapponeva la «logica trascendentale», che attraverso la forma determina anche il contenuto. Ma proprio per questo suo carattere puramente formale la logica, benché essenziale per sollevarsi al di là della mutevolezza dell’esperienza, non riesce a cogliere la vera struttura della realtà: per compiere questa operazione è necessaria, come si è visto, la metafisica, rispetto alla quale, come a tutte le altre discipline, la logica svolge una funzione essenzialmente propedeutica.
Alla metafisica è strettamente connessa la psicologia. Anche la nozione empirica dell’«io», infatti, è contraddittoria. Dividendosi in una pluralità di rappresentazioni, l’io appare insieme uno e molteplice. Inoltre, l’autocoscienza moltiplica se stessa all’infinito, poiché è la rappresentazione di un io il quale è a sua volta un rappresentare che rinvia a un’ulteriore rappresentazione, e così via. Sul piano metafisico, invece, le diverse rappresentazioni dell’io non sono altro che atti di autoconservazione di un unico reale, che è l’«anima». Tutta la vita interiore dell’anima è spiegabile in base al rapporto reciproco delle rappresentazioni. Quando sono simili, le rappresentazioni si unificano in una «forza comune»; mentre, quando sono opposte, si ostacolano, inibendosi reciprocamente finché una prevale sull’altra. Non esistono quindi, come voleva la psicologia tradizionale, distinte «facoltà» dell’anima: il sentimento, la volontà, l’appetito ecc. non sono che il risultato della relazione reciproca delle rappresentazioni.
Se la filosofia teoretica ha il compito di esprimere giudizi sull’essere, all’estetica tocca invece la formulazione dei giudizi di valore. Essa è infatti intesa da Herbart come teoria della valutazione, cioè come disciplina preposta alla formulazione di giudizi valutativi sulla base di un sentimento (il termine «estetica» deriva da àisthesis, «sensazione/sensibilità»). Pertanto fa parte dell’estetica anche l’etica, poiché i giudizi pratici (sul bene) sono giudizi di valore al pari di quelli estetici (sul bello). Herbart reinterpreta infatti in maniera originale il principio kantiano del carattere formale dell’etica. Esso significa per lui soltanto che i giudizi etici sono assolutamente universali e non possono essere modificati dai particolari interessi dei singoli; non già che la validità dei giudizi etici sia fondata esclusivamente sulla loro corrispondenza formale alla legge della ragione, senza poter derivare da criteri contenutistici. Secondo Herbart, esistono infatti alcuni giudizi morali assoluti che tutti trovano in sé in base alla propria esperienza e che determinano necessariamente giudizi involontari di approvazione o di disapprovazione delle singole condotte. Pur avendo una radice estetica anziché razionale, il giudizio etico è quindi assolutamente universale e necessario: non si può sbagliare sulla determinazione del buono, così come è impossibile non sapere che cosa è bello. Herbart parla in proposito di cinque «idee pratiche», o «concetti-modello», che consentono di approvare o disapprovare le proprie volizioni: la «libertà interiore», la «perfezione», la «benevolenza», il «diritto», l’«equità». Più che a Kant, Herbart è quindi vicino alla tradizione anglosassone del «sentimento morale» – cui lo stesso Kant fu sensibile in giovinezza – anche se il giudizio etico passa in lui attraverso la mediazione di un elemento concettualizzabile rappresentato dalle idee pratiche.
All’etica è connessa anche la pedagogia di Herbart. Quest’ultima tende, infatti, alla formazione del carattere morale attraverso tre gradi: dapprima il giovane deve imparare a essere pari a se stesso in ogni circostanza; poi a essere in grado di operare una scelta; infine ad agire secondo princìpi (e, quindi, a valutare le volizioni in base alle idee pratiche). Tale programma pedagogico deve essere commisurato di volta in volta all’individuo, o almeno alla scuola, cui è destinato. Herbart è perciò contrario alla diffusione della scuola di Stato, che necessariamente livella tutti i programmi didattici in base a disposizioni ministeriali uniformi. L’educazione è un’arte: di conseguenza l’educatore deve avere la sensibilità e la genialità specifica dell’artista. Lo Stato si deve limitare a realizzare le condizioni esteriori favorevoli all’attività dell’educatore. Con queste asserzioni Herbart assumeva posizioni molto vicine a quelle di Wilhelm von Humboldt, del quale era stato collaboratore all’interno della Commissione scolastica prussiana.

2. Fries

Jakob Friedrich Fries (1773-1843) insegnò a Heidelberg e a Jena. Tra le sue opere più importanti possono essere ricordate il Sistema di filosofia come scienza evidente (1804), la Nuova critica della ragione (1807), il Sistema di logica (1811), il Manuale di antropologia psichica (1820) e la Politica, o dottrina filosofica dello Stato (1848, postuma).
Fries intende opporsi all’idealismo sviluppando il pensiero di Kant in direzione diversa da quella seguita da Fichte, Schelling ed Hegel, sebbene anche il suo tentativo non sia del tutto fedele all’insegnamento kantiano. Kant aveva insistito più volte sul fatto che la filosofia trascendentale, in quanto analisi delle forme a priori della conoscenza, non aveva nulla a che vedere con una semplice descrizione empirica, e quindi a posteriori, dei meccanismi psicologici dell’uomo. Contraddicendo apertamente questa indicazione, Fries risolve invece la sua indagine sulle forme della conoscenza in un empirismo psicologistico. La sua «scienza dell’esperienza psicologica» intende infatti fornire, attraverso lo strumento dell’auto-osservazione introspettiva, un’analisi completa dell’esperienza interiore del soggetto, mettendo in luce le forme mediante cui la conoscenza si sviluppa empiricamente. La filosofia si risolve così nella psicologia, che Fries chiama «antropologia psichica». Il metodo psicologico è fondato sul «principio dell’evidenza», cioè sul presupposto che tanto i meccanismi psicologici che presiedono alla conoscenza quanto i risultati dei processi conoscitivi siano immediatamente evidenti all’auto-osservazione. Il problema kantiano della validità oggettiva della conoscenza, fondata su strutture trascendentali irriducibili a meccanismi psicologici, è un problema irresolubile per l’uomo. L’unico criterio di verità della conoscenza è l’«autofiducia della ragione», che per Fries non è soltanto un principio, ma un fatto: in base a essa, la ragione è certa di rappresentare gli oggetti e la loro esistenza così come sono. L’ambito della conoscenza si estende tuttavia – come per Kant – soltanto entro i limiti della rappresentazione fenomenica: le essenze ultime delle cose non sono logicamente conoscibili e cadono nel dominio della fede. Soltanto con un atto di fede sono attingibili anche le verità eterne, cioè le idee dell’assoluto, della libertà e dell’eternità, che stanno alla base della vita religiosa degli uomini. Proprio a causa di questo riferimento alla fede come mezzo per cogliere la realtà assoluta, Fries – accanto a Jacobi e a Schelling, che non vengono però espressamente nominati – è oggetto della sarcastica critica all’intuizionismo condotta da Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito.
Importante è anche il pensiero etico-politico di Fries, fondato sul principio – pure esso di ascendenza kantiana – del valore assoluto della dignità umana. Tale principio è alla base di tutti i doveri morali e politici: la stessa costituzione dello Stato deve essere finalizzata esclusivamente alla sua promozione. Quali concreti strumenti politici per la realizzazione della dignità umana, Fries raccomanda l’uguaglianza e la libertà dei cittadini. Per queste sue dottrine accentuatamente liberali, egli venne sospeso dall’insegnamento dalle autorità prussiane.

3. Trendelenburg

L’orientamento della filosofia di Friedrich Adolf Trendelenburg (1802-1872) fu fortemente determinato dalla sua formazione universitaria. Egli studiò a Kiel con Reinhold, a Lipsia con il grecista Hermann e a Berlino con Schleiermacher e Hegel, nonché con filologi come Boeckh e Bekker – autore, quest’ultimo, di una delle più importanti edizioni di Aristotele. Ottenne la laurea e la libera docenza con due dissertazioni sull’interpretazione aristotelica di Platone. Nella formazione filosofica di Trendelenburg intervengono, quindi, da un lato Hegel stesso, dal cui pensiero egli fu influenzato nei primi anni della sua attività, dall’altro Kant e soprattutto Aristotele, che sono successivamente recuperati in funzione di una radicale critica dell’idealismo hegeliano.
La più importante opera di Trendelenburg, le Ricerche logiche (1840), è infatti incentrata sulla critica della dialettica hegeliana. In realtà, Trendelenburg ha in comune con Hegel il punto di partenza della sua indagine filosofica, cioè il presupposto dell’identità tra logica e metafisica, cui egli rimarrà fedele anche dopo la presa di distanza dall’hegelismo. La fedeltà a questo principio, tuttavia, comporta per Trendelenburg la necessità di andare al di là del pensiero puro hegeliano: se le categorie avessero, come Hegel voleva, un carattere primariamente logico, esse non potrebbero cogliere la realtà in quanto tale, e tantomeno il movimento, che costituisce l’elemento fondamentale della realtà. Per giustificare questa sua obiezione, Trendelenburg critica la dialettica hegeliana su due punti che egli considera esemplari. In primo luogo, la prima triade della dialettica hegeliana – essere, nulla, divenire – appare puramente formale: l’essere e il nulla sono concetti statici, e dalla sintesi di due concetti statici non può scaturire un concetto dinamico come il divenire, cioè il movimento. In secondo luogo, se si afferma, come fa Hegel, che la negazione dialettica ha carattere espressamente logico e coincide pertanto con la contraddizione, non si riesce a spiegare come da essa scaturisca il movimento che porta alla sintesi. Ciò è possibile soltanto se si intende la negazione dialettica non come contraddizione logica, nella quale l’un termine esclude l’altro, ma – seguendo il suggerimento di uno scritto giovanile di Kant – come contrarietà reale, nella quale due realtà, opponendosi reciprocamente, danno origine al movimento.
Alla dialettica hegeliana, Trendelenburg contrappone un «metodo genetico» basato sulla fondamentale categoria a priori del «movimento costruttivo». La categoria del movimento consente anche di spiegare le intuizioni pure dello spazio e del tempo, che hanno per oggetto – a differenza di quanto sostenuto da Kant – non solo l’ambito fenomenico, ma l’intera realtà. Da essa dipendono anche le «categorie reali», che svolgono una funzione analoga a quella dei concetti puri kantiani. Con un movimento di pensiero non privo di difficoltà teoriche, Trendelenburg ritiene tuttavia che, pur essendo a priori, e quindi condizione dell’esperienza, la categoria del movimento trovi una conferma anche nella realtà oggettiva dell’esperienza stessa. Per questo, le categorie sono «concetti fondamentali sia soggettivi sia oggettivi». Senza l’esperienza, infatti, non è possibile pervenire alla conoscenza della struttura della conoscenza e della realtà che, come abbiamo visto, coincidono.
L’obiettivo di Trendelenburg è formulare una dottrina nella quale l’uomo possa attingere la conoscenza oggettiva della struttura logico-ontologica della realtà. In questo tentativo, a Hegel, che conseguiva lo scopo su un piano idealistico, vengono contrapposti Kant e, soprattutto, Aristotele. Infatti, se ha sapore kantiano (ma anche aristotelico) il richiamo all’esperienza come fondamento della filosofia, il carattere trascendentale della proposta di Trendelenburg è più apparente che reale, giacché le forme a priori più che forme del soggetto conoscente, le quali consentirebbero una conoscenza soltanto fenomenica, sono strutture logico-metafisiche che permettono di attingere l’essenza stessa del reale. Trendelenburg rimane quindi fedele a un sostanziale aristotelismo – anche per Aristotele la struttura dell’essere ...

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