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La missione e lo scopo
Nel settembre 1962, in un famoso discorso alla Rice University, il presidente John F. Kennedy annunciò che il governo degli Stati Uniti avrebbe affrontato «l’avventura più ardita e pericolosa e più grande in cui l’uomo si sia mai imbarcato»: far sbarcare un uomo sulla Luna e riportarlo sano e salvo sulla Terra. Dichiarò l’ambizione di farlo «entro la fine del decennio»1. Gli Stati Uniti portarono due uomini (sì, all’inizio erano solo uomini) sulla Luna sette anni dopo, il 20 luglio 1969.
Al tempo del discorso di Kennedy, gli Stati Uniti erano ancora in ritardo rispetto all’Urss nella corsa alla tecnologia spaziale. Nel 1957, i sovietici avevano stupito il mondo lanciando lo Sputnik, il primo satellite artificiale in orbita attorno alla Terra. Nell’aprile del 1961, Jurij Gagarin era stato il primo uomo a orbitare intorno alla Terra con la sua capsula Vostok 1. La guerra fredda era all’apice e il timore profondo era che l’Unione Sovietica avesse battuto sul tempo gli Stati Uniti e l’Occidente nella corsa tecnologica e militare. Kennedy aveva sostenuto nella sua campagna elettorale del 1960 che c’era un «divario missilistico» tra gli Usa e l’Unione Sovietica2. L’affermazione si basava sulle stime della Cia e del Pentagono secondo le quali l’Unione Sovietica aveva più missili balistici intercontinentali degli Stati Uniti, ma dopo l’elezione di Kennedy emerse che in realtà gli Usa ne avevano di più. L’impulso a battere i russi, quindi, galvanizzò una delle imprese più innovative della storia dell’umanità.
Quello che divenne noto come il programma Apollo è costato al governo statunitense 28 miliardi di dollari, equivalenti a 283 miliardi in dollari del 20203. Ha assorbito il 4 per cento del budget statunitense e coinvolto oltre 400.000 lavoratori della National Aeronautics and Space Administration (Nasa), università e appaltatori. Ma il problema non era il costo: il punto era portare a termine il lavoro. In verità, Kennedy non si fece problemi a parlare della spesa, e disse esplicitamente nel suo discorso: «tutto questo ci costerà un bel po’ di soldi». In effetti, il bilancio spaziale – disse – aumentava ogni anno e per il 1962 era di circa 5,4 miliardi di dollari: «una somma sbalorditiva, ma sempre un po’ meno di quanto spendiamo ogni anno per sigarette e sigari». E avrebbe sicuramente portato al successo? No. Disse chiaramente che il rapporto prezzo-prestazioni era del tutto incerto: «Mi rendo conto che in un certo qual modo è un atto di fede e di visione, perché non sappiamo quali benefici ci aspettano».
Che contrasto stridente rispetto a quello che ci tocca sentire oggi sui costi dei servizi pubblici – con le relative implicazioni sul debito e i deficit annuali – anziché parlare dei grandi risultati che ci si ripropone di conseguire. L’assunto è che se spendiamo di più in un settore, dobbiamo spendere meno in un altro. Questo modo di pensare non potrebbe essere più lontano dall’approccio all’esplorazione dello spazio, quando l’energia e l’attenzione di tutti erano concentrate sul risultato – riuscire a sbarcare sulla Luna – sull’investimento e sull’innovazione che avrebbe richiesto.
Kennedy aveva previsto il modo in cui l’ambiziosa missione avrebbe portato a effetti diffusivi e ricadute positive (spillover) sulla vita sulla Terra con innovazioni tecnologiche e organizzative che non si sarebbero mai potute prevedere all’inizio. In effetti, la tecnologia necessaria per elaborare i dati in tempo reale ed effettuare questa elaborazione nel piccolo computer del modulo lunare è ciò che ha portato a gran parte dell’innovazione alla base di quello che oggi chiamiamo software4. E furono introdotti anche nuovi metodi di gestione che permettevano di spacchettare problemi grandi e complessi in problemi più piccoli. In seguito, Boeing avrebbe copiato questo modello per costruire il 747, il primo jumbo jet al mondo.
Questo libro ci incoraggia a mettere in campo lo stesso livello di audacia e di sperimentazione ai più grandi problemi del nostro tempo: le sfide sanitarie come le pandemie, quelle ambientali come il riscaldamento globale, e quelle in materia di istruzione come il divario di opportunità e di risultati fra gli studenti, causato in parte dalla mancanza di pari opportunità nell’accesso alle tecnologie digitali. Questi problemi difficili richiedono non solo innovazioni tecnologiche, ma anche sociali, organizzative e politiche. Sono enormi, complessi e resistenti a soluzioni semplici. Dobbiamo risolverli – e non solo trovare degli accomodamenti – concentrando il fare politica sui risultati. E questo significa far sì che il settore pubblico e quello privato collaborino davvero investendo insieme nelle soluzioni, sposando una visione a lungo termine, e governando il processo per assicurarsi di agire nell’interesse pubblico.
Lo sbarco sulla Luna è stato un grande esercizio di risoluzione dei problemi, con il settore pubblico al posto di comando, ma sempre a stretto contatto con le aziende – piccole, medie e grandi – con cui ha lavorato alla soluzione di centinaia di singoli problemi. L’impresa spaziale ha richiesto la collaborazione fra lo Stato e molti diversi settori, dall’informatica all’elettronica, dalla nutrizione ai materiali. Il governo ha usato il proprio potere d’acquisto per stipulare contratti d’appalto brevi, chiari ed estremamente ambiziosi. Se capitava che le aziende appaltatrici non rispettassero le consegne, la Nasa non pagava fino a quando non veniva trovata la soluzione giusta. Se avessero ottenuto i risultati richiesti, le aziende – adottando una strategia di sviluppo orientata allo scopo – avrebbero avuto l’opportunità di crescere e di servire i nuovi mercati creati dagli appalti governativi.
Ciò che ha integrato tutti questi sforzi imprimendo loro una direzione è stato il fatto di essere inseriti nel contesto di una missione, una missione guidata dal governo e portata a compimento da molti. Oggi, un approccio mission-oriented, ossia «orientato alla missione» – con partenariati fra il settore pubblico e quello privato volti a risolvere i principali problemi della società –, è disperatamente necessario. Immaginate, per esempio, di utilizzare la politica degli appalti pubblici per stimolare quanta più innovazione possibile – sociale, organizzativa e tecnologica – al fine di risolvere i problemi più diversi, dagli accoltellamenti nelle città alla solitudine degli anziani a casa.
Naturalmente, non è possibile fare un copia-incolla e applicare gli insegnamenti dello sbarco sulla Luna a qualsiasi sfida, ma di sicuro sono utili per far rivivere l’ambizione e la visione nella nostra politica quotidiana. Non si tratta solo di rilasciare dichiarazioni audaci. Dobbiamo credere nel settore pubblico e investire nelle sue capacità fondamentali, compresa quella di interagire con altri creatori di valore nella società, e progettare contratti che vadano nell’interesse della collettività. Dobbiamo creare interfacce più efficaci con innovazioni in tutta la società, ripensare il modo in cui le politiche vengono concepite, cambiare il modo in cui sono governati i regimi di proprietà intellettuale e utilizzare la ricerca e sviluppo per distribuire l’intelligenza fra il mondo accademico, il governo, le imprese e la società civile. Questo significa ripristinare la finalità pubblica delle politiche affinché siano mirate a creare benefici tangibili per i cittadini e a fissare obiettivi che abbiano senso per le persone e siano guidati da considerazioni di interesse pubblico anziché dal profitto5. Significa anche porre lo scopo al centro della governance aziendale e considerare le esigenze di tutti gli stakeholder, compresi i lavoratori e le istituzioni della comunità, in contrapposizione ai soli azionisti.
In questo contesto, il pensiero della «missione» consiste nel fissare obiettivi ambiziosi ma anche ispiratori, in grado di catalizzare l’innovazione in molteplici settori e attori dell’economia. Si tratta di immaginare un futuro migliore e di organizzare investimenti pubblici e privati per realizzarlo. Questo, alla fin fine, è ciò che ha permesso di mandare l’uomo sulla Luna e riportarlo sulla Terra.
Ma c’è un problema.
L’opinione diffusa continua a dipingere lo Stato come una goffa macchina burocratica incapace di innovare: nel migliore dei casi, il suo ruolo è quello di rimediare agli errori, regolare, ridistribuire; corregge i mercati quando vanno male. Secondo questo punto di vista, i funzionari pubblici non sarebbero altrettanto creativi e pronti a correre rischi quanto gli imprenditori della Silicon Valley, e il governo dovrebbe semplicemente creare parità di condizioni e poi togliere il disturbo, in modo che chi si assume il rischio negli affari privati possa giocare la propria partita.
La tesi di questo libro è che non riusciremo ad andare oltre i problemi chiave delle nostre economie fino a quando non abbandoneremo questa visione miope. Un pensiero incentrato sulla missione come quello che vi propongo qui può aiutarci a ristrutturare il capitalismo contemporaneo. La portata della reinvenzione richiede una nuova narrazione e un nuovo lessico per la nostra economia politica, utilizzando l’idea di scopo pubblico per guidare la politica e l’attività economica6. Ciò richiede ambizione: occorre fare in modo che i contratti, le relazioni e la comunicazione si traducano in una società più sostenibile e più giusta. E richiede un processo il più possibile inclusivo, che coinvolga numerosi creatori di valore. Lo scopo pubblico deve essere al centro del modo in cui la ricchezza viene creata collettivamente per garantire un più solido allineamento fra la creazione di valore e la sua distribuzione. E quest’ultima non deve riguardare soltanto la ridistribuzione (ex post) ma anche la predistribuzione ex ante: un modo più simbiotico per gli attori economici di relazionarsi, collaborare e condividere.
È essenziale collegare le microproprietà del sistema – come le modalità in cui le organizzazioni sono governate – ai macromodelli del tipo di crescita desiderata. Ripensando a come le relazioni fra pubblico e privato possano essere meglio governate attorno alla finalità pubblica, possiamo creare una crescita più equilibrata e resiliente con nuove capacità e opportunità diffuse in tutta l’economia. Ma questo significa, in un primo tempo, sostituire il termine «partnership», tanto di moda ma piatto, con metriche più chiare sulle caratteristiche di un ecosistema simbiotico e mutualistico in cui i rischi e le ricompense siano condivisi in modo più equo. Nella nostra epoca, purtroppo, il rapporto è spesso parassitario: per esempio, il finanziamento della sanità pubblica è strutturato in modo tale che i farmaci finanziati con denaro pubblico siano poi troppo costosi perché i cittadini li possano acquistare.
Definisco questo diverso modo di agire mission-oriented, ossia si adotta un «approccio orientato alla missione». Significa decidere la direzione che vogliamo imprimere all’economia e poi mettere i problemi che devono essere risolti per ottenere quel risultato al centro del nostro modo di progettare il sistema economico. Significa realizzare politiche che catalizzino gli investimenti, l’innovazione e la collaborazione tra un’ampia varietà di attori dell’economia, coinvolgendo sia le imprese sia i cittadini. Significa domandarci che tipo di mercati voglia...