Il mito dello Stato nuovo
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Il mito dello Stato nuovo

Dal radicalismo nazionale al fascismo

Emilio Gentile

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Il mito dello Stato nuovo

Dal radicalismo nazionale al fascismo

Emilio Gentile

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Agli inizi del Novecento, l'inserimento delle masse nella vita politica del paese divenne un problema non più rinviabile. Intellettuali e politici si misero alla ricerca di una nuova formula, per conciliare ordine e mutamento, tradizione e modernizzazione, Stato nazionale e società di massa. Sorse così il mito dello «Stato nuovo», ossia dello Stato nazionale di massa, che aveva le sue basi nell'antigiolittismo e che trovò con il fascismo un concreto tentativo di attuazione nell'esperimento totalitario.

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Information

Year
2015
ISBN
9788858121498

Capitolo primo.
L’antigiolittismo e il mito dello Stato nuovo

Nel luglio 1919, Piero Gobetti polemizzò con Luigi Ambrosini che, in un articolo sulla «Stampa», aveva esaltato la figura di Giolitti, «il nostro più illustre uomo di governo», e aveva condannato l’antigiolittismo come fenomeno di bestialità trionfante, inevitabile in un paese ancora troppo pieno di retorica per non essere antigiolittiano per definizione. Per Gobetti era superficiale e semplicistico considerare l’antigiolittismo solo una manifestazione di retorica, e bisognava fare una distinzione fra tre tipi di antigiolittismo. Il primo era l’antigiolittismo «del popolo meno fermo e facile all’entusiasmo», degli oratori da comizio, per nulla politicamente superiori a Giolitti, i quali concepivano la politica come lotta di persone ed avevano bisogno dello spauracchio da colpire. Il secondo era l’antigiolittismo dei nemici personali di Giolitti, che avrebbero voluto sostituirlo al governo «per fare i loro comodi e le loro vendette» ed erano però più «giolittiani» di Giolitti. Gli uni e gli altri meritavano le accuse di Ambrosini. Ma, aggiungeva Gobetti, vi era un altro tipo di antigiolittismo, «quello degli uomini che si sentono moralmente e politicamente superiori a lui», che avversavano non una persona ma un sistema di potere, una forma di «malgoverno esitante, pericolante, sulla base dei compromessi di una minoranza di inetti che vive alle spalle dello Stato, cioè del popolo italiano», e combattevano il giolittismo per «la limitatezza delle vedute», per «la noncuranza fatale e necessaria che deve manifestare verso i supremi interessi» preoccupato soltanto di «mantenere il governo a qualunque costo». Certo, osservava Gobetti, questo sistema non era solo «atto di volontà sua», ma Giolitti «era proprio il rappresentante più perfetto di questa degenerazione. Onde si può capire e giustificare l’odio personale accanto all’odio per i sistemi. Ma l’antigiolittismo nostro sarebbe anche quando il capo del governo pur non chiamandosi Giolitti, ne continuasse i sistemi»1.
Gobetti, fresco di umori vociani e salveminiani, era pieno di fervore antigiolittiano, assorbito con passione polemica dalla lettura dei suoi maestri ideali – Prezzolini, Salvemini, Einaudi –, ma aveva ragione nel rifiutare la spiegazione di un fenomeno così vasto e complesso, come l’antigiolittismo, con la retorica nazionale, e distingueva bene le manifestazioni della superficialità retorica o della rivalità politica personale dall’atteggiamento di quegli antigiolittiani che traevano gli argomenti della loro critica dall’analisi della realtà, e si opponevano al giolittismo come sistema di potere per una diversa concezione dei compiti e dei metodi dell’azione di governo in una particolare fase della vita nazionale, caratterizzata dalla rivoluzione industriale e dalla modernizzazione. Nell’ambito di questo antigiolittismo venne elaborandosi, fra l’inizio del secolo e lo scoppio della guerra europea, un complesso di temi e di idee che avevano come motivo unificante la contestazione del sistema giolittiano e l’aspirazione a uno Stato nuovo, da costruire attraverso la trasformazione o sulle rovine, come poi in realtà avvenne, dello Stato liberale.

1. Gli antigiolittiani e Giolitti

C’è prima di tutto un equivoco da eliminare parlando dell’antigiolittismo. È ancora opinione diffusa che l’antigiolittismo, come fenomeno, sia stato caratterizzato dalla incapacità di comprendere la nuova politica liberale, iniziata da Giolitti per favorire il progresso delle classi lavoratrici e l’inserimento delle masse nella vita dello Stato. È un’opinione infondata. Gli esponenti più rappresentativi dell’antigiolittismo avevano, in realtà, favorito o accettato come un fatto compiuto la svolta di fine secolo, valutavano positivamente i risultati immediati da essa ottenuti ed erano favorevoli a una politica di riforme.
Anche i più intransigenti antigiolittiani riconoscevano a Giolitti almeno il merito di aver superato il complesso dello stato d’assedio, da cui era stata afflitta la classe dirigente liberale; di aver francamente difeso la libertà di organizzazione e di lotta per il proletariato e i partiti democratici; di aver praticato una politica di tolleranza neutrale nei conflitti sociali, che certamente contribuì al miglioramento delle condizioni economiche delle classi popolari. L’antigiolittiano direttore del «Corriere della Sera» lasciava scrivere al suo corrispondente da Roma, Torraca, in occasione delle dimissioni del governo Zanardelli, il 21 ottobre 1903: «crediamo di potere e dovere affermare che la prova di un regime di libertà più largo, come quello che si è avuto negli ultimi trenta mesi, è stato giovevole a tutti, e il bene, checché paia, ha superato il male. Toccherà ai ministri futuri e soprattutto agli italiani di mutare la prova in buona, sicura e costante abitudine». Anche Sonnino – che criticò severamente la neutralità giolittiana nei conflitti di lavoro – dimesso l’abito reazionario affermò deciso che il «rispetto della libertà delle organizzazioni operaie e della libertà di sciopero come di quella del lavoro non può e non dev’essere oggetto di contesa tra i partiti politici dovendo esso costituire ormai un presupposto comune, universalmente consentito da tutti coloro che accettano le istituzioni; così come avviene in Inghilterra e negli Stati Uniti»2. Salvemini ammonì gli antigiolittiani a non cadere nel moralismo, a evitare gonfiature ed insincerità:
Per esempio, continuare oggi, nell’anno di grazia 1911, a rinfacciare all’on. Giolitti del 1893 le marachelle della Banca romana, è proprio una gonfiatura e una insincerità. Fra il 1901 e il 1903, allorché l’on. Giolitti contribuiva con la sua politica di libertà al consolidamento definitivo del diritto di organizzazione proletaria... nessuno dei deputati socialisti, repubblicani, democratici, pensò o disse che il ricordo della Banca romana dovesse essere ostacolo all’azione politica complessivamente benefica di quell’uomo... Oramai, dopo l’attestazione di fiducia nel 1901, 1902, 1903 la Banca romana si deve considerare come prescritta. E non è serio, ed è una vera e propria volgarità, ritornare a ricordarsene proprio ora.
Ma c’era il Giolitti posteriore al 1903: «il Giolitti protettore e complice delle camorre meridionali, il Giolitti specialista in operazioni elettorali», verso il quale la condanna politica di Salvemini era senza appello. Egli tuttavia non negava i progressi che il paese aveva fatto nel decennio giolittiano, dichiarandosi, nel 1913, «un cittadino della “Piccola Italia”, dell’Italia d’oggi, che comincia appena ora a sollevarsi faticosamente dalla miseria intellettuale e morale ed economica di molti secoli» e considerava gli anni dal 1896 al 1911 «gli “anni della iniziata restaurazione” economica del nostro paese»3.
Molti antigiolittiani non erano contrari alle aperture sociali di Giolitti ma criticavano la sua politica di governo che, dopo le promesse degl’inizi, sembrava costituire un ostacolo per una effettiva democratizzazione della società, specialmente nelle regioni più arretrate, dove scarsa era l’educazione politica delle masse. Con motivazioni simili a quelle di Salvemini, Luigi Sturzo giudicò il secondo governo Giolitti un miglioramento nella politica liberale e, entro certi limiti, una speranza per il paese. Anche di fronte al ripetersi di fatti sanguinosi durante gli scontri fra forza pubblica e manifestanti, come a Buggerru e a Castelluzzo, Sturzo osservò che fatti come questi avevano «un notevole significato politico sotto Pelloux, ma non certo sotto Giolitti, che permise, anzi spinse gli scioperi del 1902-1903 con la sua politica a larga base democratica, poggiante verso l’estrema»4. L’uccisione di manifestanti era considerata da Sturzo un doloroso incidente, non l’esito inevitabile di una politica repressiva.
Fermo nel dichiarare la necessità di difendere l’ordine pubblico, Giolitti adottò verso i conflitti di lavoro una politica flessibile, che a molti osservatori parve debolezza. Il suo comportamento in occasione di lotte sindacali, come durante lo sciopero del 1904, ebbe l’approvazione di Vilfredo Pareto, che lodò la difesa del diritto di sciopero e del diritto di lavoro, fatta da Giolitti alla Camera nel 1901, e la sua «politica di equilibrio»: tutti gli amanti della libertà, secondo Pareto, avrebbero dovuto approvare il suo operato, che era stato savio, giusto, onesto, perché «è principale ufficio di un governo civile di impedire le prepotenze da qualsiasi parte vengano e di imporre a tutti, senza alcuna eccezione, il rispetto del diritto»5; Giolitti agiva da «vero uomo di Stato», sapeva adeguare l’azione alle circostanze, usava interessi e sentimenti esistenti, senza curarsi di suscitarne di nuovi. Del resto, notava Pareto, «se facesse altrimenti, non solo nocerebbe a se stesso, il che credo, è la sola cosa che a tal passo lo sospinga, ma nocerebbe altresì a coloro stessi che vorrebbe difendere ed a cui vorrebbe giovare»6. Un altro tenace antigiolittiano, Giovanni Amendola, ricordò, mentre il sistema giolittiano tramontava, che Giolitti aveva dimostrato la validità e la vitalità del liberalismo quando i socialisti, intorno al 1900, «chiedevano per il proletariato più libertà e più benessere, ma al proletariato non sapevano offrire che del marxismo in forma catechistica. Ci volle Giolitti per dare al proletariato libertà di organizzazione e aumenti di salario. Il proletariato ci guadagnò: ed il liberalismo si dimostrò, grazie a un’audace iniziativa, più largo e più vitale di quanto i suoi nemici sospettassero», svolgendo la sua azione non per un ceto particolare, ma per «la nazione che quei ceti contiene e difende»7.
Anche la personalità di Giolitti, che suscitava scherno e disprezzo fra gli amanti dei personaggi dal gesto clamoroso e dal fascino carismatico, trovava un equilibrato apprezzamento negli antigiolittiani più sereni: per esempio, «La Voce», il centro più attivo e vivace dell’antigiolittismo, dopo la guerra di Libia fece un vero e proprio elogio di Giolitti, uomo rappresentativo dei tempi moderni:
In fondo quest’uomo freddo e burocratico, industriale e pratico, è quel che ci voleva per un popolo che si lascia troppo spesso trascinare dall’entusiasmo e dalla retorica. Giolitti è un segno dei tempi; egli è la sovrana apparizione della «prosa» nel campo della politica italiana, è il ritmo del Codice Commerciale scandito in una nazione di versaioli e di pindarici. Egli getterà sempre intorno a sé, per gli uomini che hanno un po’ di ispirazione e di fede, un senso di repulsione e di gelo. Ciò spiega il disprezzo che può suscitare, e insieme il successo che ha, ma scompagnato da affetto e da entusiasmo8.
Pochi critici della politica giolittiana negavano le qualità dell’uomo, anche se, come scrisse Francesco Papafava9, non lo consideravano «un forte uomo politico», perché non era rappresentativo come Crispi o Zanardelli, e non aveva grandi ideali. Tuttavia, lo consideravano un parlamentare molto abile, gran conoscitore della macchina burocratica e degli uomini, dotato di forte temperamento, chiarezza mentale, volontà, decisione. Antonio Fradeletto vedeva in lui sentimenti socialmente democratici, una chiara visione delle cose so...

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