La privatizzazione della conoscenza
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La privatizzazione della conoscenza

Tre proposte contro i nuovi oligopoli

Massimo Florio

  1. 256 pages
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La privatizzazione della conoscenza

Tre proposte contro i nuovi oligopoli

Massimo Florio

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Viviamo in una situazione paradossale. La scienza dei nostri giorni nasce – sotto vari profili – come bene pubblico, ma finisce con l'essere privatizzata. Viviamo in una situazione paradossale. La scienza dei nostri giorni nasce – sotto vari profili – come bene pubblico, ma finisce con l'essere privatizzata. Questo meccanismo di privatizzazione della conoscenza produce diseguaglianza sociale e contribuisce ad una distribuzione disomogenea dei redditi e dei patrimoni che sta minando le fondamenta degli stati e la convivenza sociale.

Salute umana, cambiamento climatico, governo dei dati: sono queste le sfide cruciali per la prossima generazione. Non è possibile affrontarle senza smettere di trasformare la scienza in un bene privato. Occorre invece creare infrastrutture pubbliche ad alta densità di conoscenza, sintesi ideale del modello dell'infrastruttura di ricerca e di un nuovo tipo di impresa pubblica.

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Information

Year
2021
ISBN
9788858147115

1
I luoghi della conoscenza:
dalla Big Science alle infrastrutture di ricerca

Per secoli la scienza è stata prodotta artigianalmente, da intellettuali solitari o con un piccolo gruppo di discepoli e collaboratori. Marie Sklodowska Curie che con il marito Pierre setaccia il minerale di pechblenda in un capannone per estrarne il radio, Ian Fleming che mette a fuoco il microscopio sulle muffe nel suo laboratorio, Watson e Crick che ritagliano striscioline di cartone per costruire il modello tridimensionale a doppia elica del DNA. Quel modo di lavorare nel Novecento non era radicalmente diverso da quello dei secoli precedenti: Galileo che scruta le lune di Giove con il cannocchiale che si è costruito da sé, Newton che fa disegni e calcoli con metodi geometrici, Galvani che in compagnia della moglie sacrifica rane per studiare l’elettricità, Darwin che alleva colombi per osservare la selezione naturale. Per quel che ne sappiamo, molti secoli prima Archimede, Euclide o Eratostene non dovevano lavorare in modo radicalmente diverso.
Una parte consistente della scienza contemporanea sembra ancora una forma di artigianato: un principal investigator con un gruppo di ricercatori più giovani e qualche dottorando in un laboratorio. Ma si è oramai affermato un diverso paradigma organizzativo basato sulla grande scala. Quando nel 2012 Fabiola Gianotti, all’epoca portavoce dell’esperimento ATLAS del CERN, annunciò (insieme al suo collega Joseph Incandela dell’esperimento CMS) la conferma sperimentale dell’esistenza del bosone di Higgs, parlava a nome di una entità collettiva.
La collaborazione scientifica ATLAS non ha un principal investigator. Il portavoce viene eletto a rotazione dai partecipanti: circa 3000 scienziati, appartenenti a 181 istituti di ricerca in 38 paesi di tutti i continenti. Centinaia di piccoli gruppi all’interno della collaborazione affrontano aspetti specifici della ricerca, si coordinano in comitati, si scambiano continuamente i risultati ed alla fine li pubblicano, dopo una reciproca revisione, firmandoli collettivamente. Il sistema è sorprendente, anche perché pochissimi, forse nessuno, dei partecipanti può dominare tutti gli aspetti di una ricerca così complessa da richiedere come “microscopio” un oggetto di 27 km di circonferenza in un tunnel a cento metri di profondità nel sottosuolo due nazioni. Il Large Hadron Collider (LHC) è un acceleratore di particelle formato da milioni di componenti, che necessita di miliardi di calcoli per analizzare una quantità di dati generati nella sua esistenza strabiliante. La generazione di una immensa quantità di dati è spesso un aspetto cruciale del nuovo modello di produzione della conoscenza.
In questi anni ho osservato da vicino il modo in cui si lavora al CERN. Con il mio gruppo di ricerca abbiamo valutato il potenziale impatto socio-economico del LHC, poi della sua versione potenziata High-Luminosity attesa per il 2025, e attualmente collaboriamo al progetto Future Circular Collider (un ipotetico acceleratore di 100 km di circonferenza destinato a succedere a LHC). Automaticamente, in quanto partecipanti alla collaborazione FCC siamo stati inclusi come coautori delle pubblicazioni. L’articolo di 250 pagine sul Conceptual Design Report del FCC-hh (una delle possibili versioni dell’acceleratore, quella a più alta energia), pubblicato su European Physical Journal, è firmato, in rigoroso ordine alfabetico, da circa 1200 autori affiliati a 352 Università e istituti di ricerca. Siamo ben lontani dall’artigianato. Questo modo di produrre scienza cambia per sempre il panorama.
Se la fisica delle particelle può essere considerato un caso estremo gran parte della scienza contemporanea è radicalmente influenzata dal modello organizzativo delle infrastrutture di ricerca. Lo Human Genome Project (HGP) ha mappato per la prima volta circa il 92% dei tre miliardi di basi (le coppie di componenti della doppia elica) del nostro DNA. HGP fra il 1990 e il 2003 ha visto la partecipazione di almeno venti diversi istituti e università in USA, UK, Germania, Giappone, Cina, Francia con il coinvolgimento di almeno 250 scienziati (a giudicare dall’elenco dei firmatari dell’articolo battistrada su «Nature», Lander et al., 2001).
Un esempio dei nostri tempi è lo sviluppo di progetti di laboratorio virtuale sul Covid 19 come la OpenCovid19 Initiative, che si propone di sviluppare strumenti open source a basso costo, inclusi metodi di tracciamento modelli di previsione in risposta alla pandemia, e che dichiara di avere attratto oltre 4000 volontari ed esperti. Un esempio piuttosto noto, se non altro per l’uso che ne fanno i media, è la piattaforma ad accesso libero dei dati (dashboard) sulla pandemia gestita dal Center for Systems and Engineering Science della Johns Hopkins University (Dong et al., 2020), basata su dati tratti in tempo reale da centinaia di fonti, con decine di migliaia di utenti professionali.
Questo modello di larghe collaborazioni, che combinano spesso delle infrastrutture tangibili in un luogo fisico (un campus, un laboratorio, un centro di ricerca) con infrastrutture digitali che creano comunità virtuali di intelligenza collettiva, non ha più molto a che vedere con la Little Science tradizionale. Non è neppure la Big Science1 legata al complesso militare industriale, per citare il titolo del fortunato libro di de Solla Price (1963), che per primo ha studiato la transizione fra due epoche della produzione di conoscenza. La distinzione fra diversi modi e luoghi della scienza contemporanea è utile per comprenderne le dinamiche e l’impatto sociale finale.
La produzione di conoscenza dei nostri tempi ha dimensioni globali impensabili fino a qualche decennio fa e si è evoluta in forme diverse, legate fra loro da processi cumulativi. Per avere qualche ordine di grandezza: Web of Science, la banca dati di «Reuters» sulle 12.000 riviste scientifiche più autorevoli (oltre a 160.000 estratti di conferenze) in oltre 250 discipline contiene 79 milioni di articoli. Un altro indicatore della dimensione del progresso delle conoscenze sono i database di brevetti. Nel solo anno 2017 sono state depositate 3 milioni 170 mila domande di brevetto, con la Cina al primo posto per numero di domande.
La spesa globale per R&S nel 2015 era stimata in 1,44 miliardi di dollari PPP (a parità di potere di acquisto). Gli USA, secondo OCSE, nel 2015 hanno speso oltre 500 miliardi di dollari, la Cina 409, l’Unione europea 386. Circa il 70% della spesa è stato sostenuto dalle imprese (comprese le imprese pubbliche, tuttora molto importanti in alcuni paesi) ed il resto direttamente dai governi e in piccola misura da enti no-profit. Il ruolo dei governi tuttavia è anche indiretto, attraverso il sostegno in varie forme alla R&S delle imprese. Di fatto quasi tutta la ricerca di base (17% del totale), buona parte di quella applicata (21%) e una frazione dello sviluppo di tecnologie e prodotti è direttamente sostenuta dai contribuenti. Il resto viene finanziato, in ultima analisi, ancora dai consumatori attraverso il prezzo dei prodotti immessi sul mercato. Considerando soltanto l’area OCSE, la spesa dei governi per la ricerca è stata di 315 miliardi di dollari nel 2015, e quindi ogni cittadino vi ha contribuito per circa 246 dollari all’anno attraverso le imposte, e per il resto attraverso ciò che paga per acquistare i prodotti che contengono i risultati, dai farmaci agli smartphone.
La ricerca pubblica svolge un ruolo cruciale per far girare la macchina della conoscenza. La ricerca delle imprese è solo la fase finale di questo processo basato su nuovi soggetti, ancora non del tutto ben compresi e valutati per il loro impatto socio-economico.

La Big Science e il complesso militare-industriale

La transizione dalla tradizionale Little Science alla Big Science (de Solla Price, 1963) è avvenuta inizialmente in modo lento e graduale nel corso della prima metà del secolo scorso, ma ha avuto una improvvisa accelerazione durante la Seconda guerra mondiale. Il caso più rappresentativo è stato il Progetto Manhattan, il cui unico obiettivo scientifico e tecnologico era tradurre alcuni fenomeni della fisica nucleare da poco scoperti (in particolare da Enrico Fermi) nella progettazione e realizzazione della bomba atomica: ne sarebbero derivati due tipi di ordigno nucleare basati su principi diversi (Hughes, 2002; Gosling, 1999; Galison, Hevly, 1992).
Non è stato il solo progetto di produzione di scienza su larga scala con finalità direttamente o indirettamente militari: missili, radar, computer, satelliti, reattori nucleari e molto altro vengono da un modello di Big Science caratterizzato da missioni strategiche determinate dai governi nazionali e dal complesso militare-industriale delle grandi potenze.
Vediamone rapidamente alcuni aspetti. In primo luogo è qualcosa di più di una coincidenza temporale che l’affermazione della Big Science avvenga quando nel secolo scorso si sono consolidati modelli organizzativi della produzione di beni e servizi basati su alta intensità di capitale fisso ad elevato contenuto tecnologico. Non si tratta solo della fabbrica fordista, dove il lavoro umano è organizzato intorno al funzionamento ed ai tempi delle macchine e degli impianti, ma forse in modo ancora più chiaro nello sviluppo delle infrastrutture a rete: i grandi sistemi ferroviari, la generazione, trasmissione e distribuzione di elettricità, le reti di telecomunicazione. In tutti questi esempi il lavoro umano è parte di organizzazioni tecnologicamente complesse, con una architettura che sfrutta al massimo economie di scala (ed in alcuni casi economie di varietà, quando la stessa infrastruttura può erogare efficientemente diversi servizi). I principi scientifici che stanno alla base della produzione di elettricità o alla trasmissione dell’informazione via onde elettromagnetiche, per fare solo due esempi, determinano tecnologie che a loro volta contribuiscono in modo cruciale alla organizzazione del lavoro, sia pure non in modo esclusivo: il costo del lavoro, le conoscenze organizzative, le regole di funzionamento dei mercati e molte altre circostanze sono altri fattori.
Non è quindi forse un caso che oggi si parli di infrastrutture di ricerca (IR), mutuando un termine dal lessico dell’economia e dell’ingegneria. Ma già nella Big Science tradizionalmente legata al complesso militare industriale l’intersezione con i modelli organizzativi dell’impresa su larga scala sono ben visibili, oltre a quelli derivanti dalla industrializzazione degli apparati bellici.
Ho accennato al Progetto Manhattan come atto di nascita della Big Science nella storiografia specializzata. Ne ricordo brevemente alcune dimensioni. In primo luogo l’orientamento allo svolgimento di una missione scientifico-tecnologica precisa: produrre la bomba atomica. Può sembrare banale sottolinearlo, ma una organizzazione con una missione specifica che ne condiziona finanziamento e funzionamento è molto diversa per gli scienziati che vi lavorano dall’ambiente universitario da cui tipicamente provengono, che ha da secoli la missione generica di produrre e tramettere il sapere, non missioni specifiche. Tornerò su questo aspetto più avanti, quando discuterò dell’interazione fra università e infrastrutture di ricerca nei nostri giorni. Gli scienziati e gli ingegneri del Progetto Manhattan, così come gli impiegati amministrativi, gli operai ed i militari non erano assunti per produrre genericamente conoscenza, ma per produrre specificamente la conoscenza necessaria a sfruttare per fini bellici i principi, non ancora del tutto compresi, della fissione nucleare. Se questo era vero per diversi laboratori già prima e durante la Prima guerra mondiale, la scala delle operazioni nel caso del Progetto Manhattan può essere colta considerando i numeri in gioco: costo totale 1,9 miliardi di dollari negli anni ’40, equivalenti forse in 21,7 miliardi di dollari a prezzi 2019 (peraltro una piccola frazione dei costi della guerra per gli USA); 130 mila dipendenti (la maggior parte operai e tecnici), oltre trenta siti, 90% dei costi per la costruzione ed esercizio di impianti per la produzione di materiale fissile (uranio e plutonio) sperimentando una varietà di metodi chimici e fisici per ottenere gli isotopi richiesti. Oltre 600 imprese e 400 mila persone furono esaminate dai servizi segreti per mantenere stretti protocolli di sicurezza nell’organizzazione interna ed esterna. Come sappiamo, questo progetto è responsabile del bombardamento, ciascuna con un singolo ordigno, delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki (agosto 1945). Negli anni successivi gli Stati Uniti (inseguiti da URSS e su scala minore da altri) hanno creato un arsenale atomico di 32 mila testate (1966).
Un altro esempio spesso citato è il programma Apollo della NASA (Scott, Jurek, 2014), anche esso concepito nel contesto strategico della Guerra fredda. La risposta degli USA ai successi dell’URSS nello spazio (lo Sputnik nel 1957) è stata data con lo sbarco sulla Luna degli astronauti Armstrong e Aldrin (1969), preceduti e seguiti da una serie di altre missioni che hanno avuto un ruolo molto importante nella messa a punto di strumenti di calcolo scientifico, materiali innovativi, sistemi elettronici, trasmissione di segnali radio a lunghissima distanza e molto altro. Anche in questo caso la collaborazione fra scienziati, ingegneri, enti governativi ed imprese private si è sviluppata sulla scala della Big Science.
Questo modello di organizzazione della produzione di conoscenza non è scomparso con il venire meno della Guerra fredda, anche se è meno visibile. Il Progetto Manhattan negli Stati Uniti è stato ereditato dal Department of Energy, il ministero che gestisce – in collaborazione con consorzi di Università ed altri enti – i siti originari. La maggior parte sono stati riconvertiti a ricerche non connesse al settore militare, ma non tutti, dato che il mandato dell’Office of Science, erede dell’Atomic Commission, e quindi del suo bilancio, continua a comprendere la gestione dell’arsenale nucleare, la ricerca sugli effetti di contaminazioni da sostanze radioattive ed altri temi connessi. Organizzazioni tecnico-scientifiche di questo tipo sono tuttora attive in Francia (dato il dualismo militare e civile della strategia nucleare del paese), Russia, Cina ed altrove.
Provo a riassumere le caratteristiche essenziali del modello della Big Science, anche per meglio comprendere la differenza con la scienza su larga scala nelle infrastrutture di ricerca scientifica di cui discuto nella prossima sezione. In primo luogo gli scienziati vengono coinvolti in missioni decise da un governo nazionale nel quadro di una strategia politica. Può anche accadere che siano g...

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