II.
Cannibalismo europeo
1. La censura dell’indicibile e l’«altro»
Tirando le somme, oltre dieci testimonianze attestano fatti cannibalici nel Novantanove. Le fonti sono di orientamento e qualità molto diverse: ufficiali e private, borboniche, neutre e repubblicane, provinciali e napoletane, pubbliche e riservate, né mancano i testimoni oculari, per non dire dei souvenir ammiccanti all’antropofagia. Pertanto, ove si volesse pretendere comunque di sostenere che tali atti non rappresentassero nient’altro che meri fantasmi, frutto d’immaginazione o mala fede di chi ne scriveva, occorrerebbe, necessariamente, presumere la trama di una sorta di mostruosa montatura architettata da chissà chi e perché. Supposizione che è smentita dalle stesse fonti, che non permettono d’ipotizzare ragionevolmente alcunché di simile. Per la loro natura molto diversificata, sia quanto a tipologia sia quanto a ideologia, nonché per il loro essere l’una dall’altra indipendenti. D’altronde, la gran parte delle testimonianze restò a lungo manoscritta e inedita. E allora, ove si volesse pensare a un’assurda e gigantesca macchinazione che accomunasse sanfedisti e giacobini – per il resto l’un contro l’altro armati a sangue –, non si capirebbe perché gli autori delle accuse le lasciassero accuratamente nascoste nei loro cassetti. Mentre nelle testimonianze edite sin dallo stesso 1799, la norma fu di non fare alcun riferimento ai fatti cannibalici, salvo rarissime eccezioni. Ne consegue che il negare la realtà dei fatti ricostruiti fin qui condurrebbe, inevitabilmente, a mettere in discussione alla radice la natura stessa del mestiere dello storico, per scivolare nelle posizioni neoscettiche di quanti hanno affiancato la storia alla retorica o alla letteratura, negando dignità scientifica alla prova erudita e alle verifiche della filologia1. Tuttavia, a parte gli esiti assurdi e negazionisti cui hanno condotto simili strade, si tratta di posizioni estremamente fragili sul piano dell’epistemologia e del metodo della storiografia. Discusse e confutate con grande vigore e indiscutibile maestria da grandissimi storici come Arnaldo Momigliano e Carlo Ginzburg2, senza dimenticare il già citato Pierre Vidal-Naquet. Per negare ciò che le prove addotte dimostrano, insomma, resterebbe solo una sottile vena di razzismo neocoloniale: perché, altrimenti, ritenere credibile il cannibalismo di Aztechi, Tupinamba o Maori e non quello di noi civilissimi Europei?
Insomma, non v’è motivo storicamente fondato di avanzare dubbi sul fatto che durante la controrivoluzione napoletana del 1799 la violenza esercitata quotidianamente, per mesi e mesi, raggiunse più volte lo zenit cannibalico, il che pone un problema storico e antropologico di portata enorme. Si tratta, infatti, di qualcosa che va ben al di là dei resti vilipesi, fatti a pezzi e bruciati. Delle teste portate in corteo sulle picche o rotolanti per le strade. Tutti segni di un tasso di violenza che a noi sembra inconcepibile ma che, in realtà, rappresenta un fenomeno tradizionale e di lunghissima durata, d’altra parte comparabile con altre crisi dell’Europa di quegli anni, a partire dalla Rivoluzione francese3. Inoltre, la spettacolarità dei supplizi era una delle più classiche manifestazioni delle messe in scena del potere politico nell’ancien régime. È vero, infatti, che la diffusione della cultura illuministica aveva indotto i governi europei a mitigare i grandiosi apparati delle condanne capitali. Eppure, quando c’era la politica di mezzo (come nel caso del crimine di lesa maestà), gli Stati settecenteschi continuavano a esercitare la più brutale violenza. Era accaduto a Parigi nel famoso caso del tentato regicida Damiens (1757) descritto da Michel Foucault4; e avvenne anche a Napoli, pochissimi anni prima della rivoluzione.
L’11 maggio 1794, all’indomani del fallimento di una cospirazione giacobina tesa all’uccisione dei reali e alla proclamazione della repubblica, nella chiesa del Carmine, durante la celebrazione della messa,
un certo uomo messinese per nome Tomaso d’Amato [...] si pose avanti lo steccato dell’altare maggiore e con alta voce incominciò ad eruttare queste simili parole: «Io son giacobino per la vita, viva la sagratissima Assemblea di Francia, viva la libertà». Indi, seguitando anche a voce alta, con sagrileghe parole inveì contro Dio, la Vergine, il principe ed altri.
L’intemerata aveva causato un prevedibile scompiglio e l’immediato arresto del giacobino, «a precipizio giudicato e giustiziato» dal governo dei Borbone. La condanna fu eseguita a tempo di record, con la messa in scena di un rito d’autentica ferocia, mentre un incidente causò otto morti e svariati feriti, per il crollo di un’inferriata dietro la quale il popolo era addossato per godersi lo spettacolo. Il rito di morte si dipanò così:
Uscì il suddetto paziente dalla [Corte della] Vicaria, per giustiziarsi, sopra d’un tavolone strascinato a coda di cavallo, col taccarello [un pezzo di legno] in bocca per non far sentire al popolo le esegrandi parole che l’uscivano dalla sacrilega bocca. Arrivato al patibolo più ostinato che mai, volle morire impenitente, motivo per cui i Bianchi, che lo assistevano, li voltarono le spalle ed il carnefice eseguì la giustizia. In seguito li troncò la testa, li strappò la lingua, mostrandola all’immenso popolo, e poi la buttò nel fuoco che stava ivi preparato, e così anche troncandole [sic] le mani e piedi, e il rimanente del corpo lo buttò anche nel fuoco, spargendo per aria [...] le ceneri5.
Strascinamento, esecuzione, decapitazione, smembramento, esposizione dei resti, combustione e dispersione delle ceneri. Come può vedersi, la violenza della condanna operata dallo Stato borbonico, dalla giustizia dall’alto, per molti versi è affine alle dinamiche della giustizia dal basso messe in pratica da sanfedisti e lazzari nella Napoli del Novantanove. Tuttavia, se una serie di atti esercitati dal popolo poté ispirarsi alle cerimonie degli apparati repressivi dello Stato, altri ne sono sicuramente avulsi: in primis l’antropofagia6. Non deve sfuggire, pertanto, come attraverso di essa possano individuarsi attitudini autonome e strati profondi della cultura popolare. È vero, infatti, che negli ultimi anni questo concetto è stato sottoposto a critiche decise7, molte delle quali condivisibili, a partire dal fatto che è davvero difficile determinare nella logica dell’«alto e basso» – in una presunta «contrapposizione» fra cultura dotta e popolare – fin quanto idee e comportamenti popolari non siano determinati da una rielaborazione di temi propri dell’élite. La cultura è eminentemente un affare di circolazione delle idee, e stabilire se un’idea sia nata in origine dal basso, da persone non dotate di istruzione, o dall’alto, da persone colte, finisce spesso col portare al vicolo cieco dell’uovo e la gallina. Laddove, peraltro, è certamente più facile presumere che un’idea popolare abbia origini dotte che non il contrario, come si è visto nel caso degli stilemi di violenza ispirati a quelli dello Stato.
Nondimeno, ha senz’altro ragione Roger Chartier nel puntualizzare che sia «necessario porre in discussione» «l’opposizione popolare/colto», poiché «il più delle volte ci si trova di fronte a circolazioni fluide, a pratiche condivise, a distinzioni sfumate»; e «tutte le forme e le pratiche nelle quali gli storici avevano creduto di riconoscere la radicale originalità della cultura popolare, appaiono un intreccio di elementi eterogenei e compositi»8. Eppure, se questo è vero, occorre accettare il fatto che alcune idee e pratiche genuinamente popolari esistano effettivamente. Altresì, da una logica circolare e di scambio fra alto e basso, pur sbilanciata, si passerebbe a una logica unilineare che procede sempre dal colto al popolare, secondo un criterio deterministico francamente inaccettabile, che si può accostare facilmente al discorso razzista e coloniale su cui fu costruita l’equivalenza fra l’«altro» e il «cannibale». Il problema, quindi, è straordinariamente complesso e delicato; ma se in generale è indubbiamente complicato individuare strati autonomi che rappresentino culture e pratiche schiettamente popolari, proprio l’antropofagia è una cartina di tornasole eccezionale. Non c’è dubbio, infatti, che nella «cura del corpo» degli uccisi le violenze popolari ricalcassero quelle dello Stato. In tutto, fuorché nel festino cannibalico. Un comportamento a tal punto indipendente dalla cultura «alta» dei poteri laici e religiosi, da sfidarne uno dei principali, se non il principale, tabù.
Naturalmente, la questione è troppo rilevante, spinosa e oscura da poter essere affrontata compiutamente in un breve saggio, basato su una microstoria estremamente localizzata nel tempo e nello spazio. Nel caso di specie del 1799, poi, il tutto andrebbe calato in una più generale antropologia storica della controrivoluzione, invocata anni fa da Anna Maria Rao ma ad oggi ancora inesistente. In ogni caso, non può eludersi un tentativo di analisi, se non al prezzo di ridurre il tutto a una grandguignolesca etnografia degli eventi, in nome di un malinteso gusto per il macabro o il sensazionale. Per procedere dal rapporto dei fatti a un abbozzo di interpretazione, allora, è in primo luogo necessario ribadire che, come altrove nel mondo, in Europa il cannibalismo è tabù supremo, sia per le tradizioni culturali di greci e romani sia per quelle di ebrei e cristiani, al pari e forse più dell’incesto. D’altro canto, come osservò Marvin Harris, «di fatto il tabù dell’uccisione e dell’ingestione di un congiunto si presenta come precondizione fondamentale e primaria perché la gente possa vivere assieme e cooperare quotidianamente»9.
Inoltre, è almeno dai tempi dei Massageti, Padei e Androfagi di cui narrò Erodoto nelle sue Storie10, se non dei Lestrigoni e Ciclopi dell’Odissea omerica11, che il cannibale in Europa è sinonimo dell’«altro», del «barbaro», del «selvaggio», del «mostro». Una condizione di inferiorità barbarica che dipende sempre dagli occhi di chi guarda l’altro, non dal fatto di essere Europei. Come ricorda Marc Augé, «la credenza del cannibalismo reale è generale nell’Africa Nera, anche se riguarda sempre quello degli altri», inclusi, appunto, gli Europei. Ad esempio, i Tedeschi erano ritenuti antropofagi in Rwanda: «È sempre l’altro, dominatore o lontano, ad essere sospettato di disumanità»12, al punto che è difficile dar torto a William Arens quando scrive che «il vero fenomeno univers...