1.
Il callista che fece crollare l’impero
L’impero cadde per colpa di Augusto Hilário, un semplice e umile callista. La sua esistenza non si era discostata di un millimetro dalle solite abitudini sino alla mattina del 3 agosto 1968, un anno pieno di avvenimenti che per nulla al mondo stavano smuovendo il sonnecchiante Portogallo. Quel sabato pareva un giorno normale, il sole si era alzato alle 5 del mattino, i giornali parlavano della Primavera di Praga, Tom Jones annunciava un suo concerto a Lisbona, partiva la linea telefonica automatica tra la capitale e Faro, il più vecchio emigrante portoghese in Brasile visitava la madrepatria, a Ponta Delgada si tenevano i funerali del dottor Francisco Luís Tavares, uno dei costituenti della Repubblica, il Comando delle forze armate in Guinea portoghese annunciava duri scontri con 18 morti tra gli oppositori e cinque tra i soldati dell’esercito lusitano. Altri annunci di soldati morti in combattimento apparivano sui giornali: il furiere António do Nascimento Pires Quintas di Bragança e il soldato Álvaro Alberto Conceição Teixeira di Lisbona in Mozambico; Ernesto Jesus Duarte di Vila do Conde e Raul Joaquim Costa di Lisbona in Angola, il comandante André Rodrigues Pinto di Resende in Guinea.
Verso le 8 del mattino di quel giorno un’auto della presidenza del Consiglio si era fermata a Rua do Carmo a Lisbona per prendere un uomo «elegante, alto, magro». Era Augusto Hilário, che per eredità era diventato l’infermiere callista del Presidente del Consiglio. Suo padre era di Viseu e aveva studiato nella stessa scuola di Salazar. Quando morì, lasciò a suo figlio lo studio e il prezioso cliente. Venuto a mancare il padre, Salazar aveva instaurato con Augusto la stessa intimità, fatta di chiacchiere, silenzi e attimi di fiato sospeso, soprattutto quando il podologo infilava le forbici nelle dita del primo ministro.
Il callista e il dittatore, non era un rapporto facile. Scavando nelle fosse dell’alluce, il callista poteva anche stuzzicare antichi ricordi e ombrose omertà. La loro era una relazione consolidata, visto che si incontravano ogni tre settimane. Questa periodicità non era un capriccio di regime, ma una necessità fisica del dittatore. Da giovane, Salazar si era rotto il piede destro e non si era mai ripreso. Le sue ossa erano fragili, si formavano calli che gli facevano male. Per questa ragione indossava stivali da bambino molto raffinati, una caratteristica che avrebbe portato gli avversari del regime a chiamarlo con un certo disprezzo O Botas (Stivali).
L’auto si mosse con rapidità nel centro, ma poi incappò nelle code di quanti si recavano al mare verso le spiagge di Oeiras, dell’Estoril e di Cascais. Arrivando al Forte di Santo António da Barra, all’Estoril, Augusto Hilário salutò la guardiania, spinse la porta di legno e ferro, si fermò un attimo nella hall a osservare l’azulejo che conteneva estratti del poema Os Lusíadas su ogni parete, poi salì una prima rampa di scale e poi un’altra. Girò a destra e attraversò il lungo corridoio con il soffitto a volta che divide le due ali del forte. Nell’area conosciuta come «Arca di Noè», Salazar era solito leggere libri e giornali, pranzare e ricevere i visitatori. Il podologo aprì la quarta porta a sinistra ed entrò in una grande stanza chiamata «Guardaroba», divisa da un arco e con armadi dipinti di bianco su ogni parete. A destra c’era un angolo in cui Dona Maria de Jesus Caetano Freire, la governante storica, cucinava per il primo ministro. Augusto posò la valigetta e iniziò a preparare gli strumenti per il trattamento di pedicure curativo.
In quel momento Salazar, al primo piano del forte, stava infilandosi il suo vestito di lino bianco. Lasciò la stanza, percorse un breve corridoio, scese due rampe di scale, attraversò l’Arca di Noè, entrò nella stanza in cui si trovava Augusto, lo salutò e gli chiese di passargli i giornali che avevano inviato dal palazzo presidenziale, tra i quali c’erano il «Daily News» e «The Ball State Daily», anche se lui preferiva il «Diário de Notícias», il suo quotidiano prediletto da decenni, da quando aveva concesso la prima intervista a un foglio nazionale. Per un disguido burocratico, invece, i documenti presidenziali non erano ancora pronti quando l’auto si era mossa dalla capitale, tanto che giunsero al forte solo in tarda mattinata. In ogni caso, non c’era tempo per parlare di musica, teatro o spettacoli al São Carlos, come al solito.
Augusto Hilário si girò per lavarsi le mani in un lavandino attaccato al muro, pensando a come curare l’alluce valgo, i calli, i duroni, le micosi ungueali, le verruche e le unghie incarnite del Presidente, a come massaggiare il suo piede infermo, un difetto di cui solo la sua famiglia era a conoscenza, un segreto da custodire con cura. Ma Augusto sentì uno schianto e si voltò immediatamente. Salazar, che aveva l’abitudine di cadere pesantemente quando si sedeva, aveva calcolato male la distanza dalla sedia, una sedia di legno da regista con una tela alle spalle. Nel pesante impatto, la tela aveva ceduto e Salazar aveva battuto la testa a terra. Girandosi, Augusto lo vide sdraiato sul pavimento, dolente. Mentre Augusto era agitato per l’accaduto, Salazar si mostrava tranquillo. In preda al panico, il callista lo aiutò ad alzarsi, notando che era bianco in volto, lo fece sedere con attenzione su un’altra sedia e suggerì che era il caso di chiedere aiuto. Salazar fece segni negativi con la testa. Pochi minuti dopo, il dittatore decise che il silenzio era la cosa migliore: esigeva che il podologo non dicesse a nessuno ciò che era accaduto. Esitante, Augusto acconsentì e passò allo statista un bicchiere d’acqua zuccherata, ma l’altro fece di nuovo gesti negativi col capo. Lasciando i giornali a terra, Salazar si mise in silenzio aspettando che Augusto facesse il suo lavoro.
Solo un’altra persona si accorse che qualcosa di strano era accaduto, era la governante Dona Maria, ma pensò che fosse stata una porta a sbattere. Per precauzione scese egualmente al piano di sotto e si rese subito conto che il Presidente aveva preso una brutta botta. Visibilmente scossa, tentò di convincerlo a chiamare immediatamente un medico, ma anche in questo caso Salazar rifiutò. Entro cinque giorni avrebbe avuto il suo appuntamento bisettimanale di routine con il dottor Eduardo Coelho e non vedeva alcun motivo per anticiparlo.
Un fremito di paura sembrava aver preso possesso del suo cervello. Si sentì invecchiato di colpo. Era abituato a controllarsi con cura, ma questa volta pensò che il corpo potesse avere il sopravvento sul suo pensiero. Aveva ormai 79 anni e un peso gravoso addosso che portava dal 1932: il potere. La forza della sua tenuta era l’invisibilità. Il corpo contava poco, sino a quel maledetto agosto del 1968. Lui governava un impero da una sorta di «cella» a São Bento, da dove non usciva quasi mai. «La mia politica è il lavoro», usava dire a chi lo invogliava a visitare le estese praterie del suo potere che si estendevano in ogni angolo del pianeta. Ma già Lisbona gli pareva immensa, lui che adorava solo la casa di famiglia a Vimieiro, l’orto, la vigna, le passeggiate e la festa dell’Ascensione a cui non mancava mai. Ma quello che gli sembrava imperdonabile era il fatto che la casa, i muri e i campi di Vimieiro, nel comune di Santa Comba Dão, nel distretto di Viseu, stavano crollando proprio mentre crollava l’impero. Il tetto spiovente dell’edificio bianco cedeva e perdeva tegole, il giardino alle spalle deperiva e lui non aveva il tempo di occuparsene dovendo pensare a come rintuzzare gli attacchi in Angola, a come proteggere i civili in Mozambico, a come arrestare i guerriglieri della Guinea portoghese, a come arginare le proteste dei giovani universitari. Senza parlare poi degli irriducibili oppositori interni e dei fuoriusciti che in ogni angolo d’Europa lo sbugiardavano non comprendendo la missione che il destino gli aveva assegnato, salvare l’ex impero portoghese dalla dissoluzione: «Una patria, una e indivisibile», come usava dire nei suoi proclami radiofonici.
Non era la sua immagine ma il suo nome a diventare oggetto di culto. Lui era silenzio, occultamento, invisibilità, lui era come Dio, stava un gradino sotto il supremo governante dell’infinito, ma non doveva mostrarsi. Non aveva età, non aveva corpo, non aveva sentimenti. Non parlava direttamente, parlava per simbolismi e oracoli, ciò che diceva era solo da interpretare e tradurre in linguaggio comune. Come Dio, anche lui assegnava a ognuno il proprio destino: i ricchi dovevano restare ricchi, i poveri dovevano rassegnarsi, gli oppositori dovevano subire la repressione che lui considerava «una scossa data in tempo, un avvertimento a non proseguire sulla strada sbagliata». Certo, ammetteva il perdono, ma non lo praticava per non spezzare la ragnatela delle certezze dell’Estado Novo, la sua creatura politica e istituzionale, che si basava su due concetti inalienabili: il corporativismo e il colonialismo. Una rete austera, riservata, discreta, oscura, granitica, perseverante che esaltava il ruolo dello Stato, uno dei più antichi del mondo, della Chiesa, una delle più solide e tradizionali, e della storia, una delle più significative in tutto il globo.
L’immortalità di questo destino era nelle sue mani. E il suo corpo non poteva certo tradirlo, pensava mentre guardava il tramonto dalla terrazza del Forte di Santo António da Barra, all’Estoril, e constatava che l’impero era ancora lì, inamovibile come lui, oltre l’orizzonte delle scoperte e l’ignoto dell’oceano che i suoi antenati avevano attraversato senza timore e paure. E pensava ai granelli che avevano composto la Carreira da Índia: Madera, Porto Santo, Azzorre, Capo Verde, Guinea, São Tomé e Príncipe, Cabinda, Angola, Mozambico, Goa, Daman e Diu, Timor Est per giungere infine a Macao.
Tutto era congelato nei suoi pensieri: il presente, il passato, il futuro. Lui era il cervello del Portogallo, conteneva tutti gli scali della circumnavigazione della Via delle Indie, anche se non l’aveva mai percorsa. Si sentiva come colui che aveva scoperto l’arcipelago di Capo Verde, che aveva conquistato la Guinea e l’Angola, raggiunto Goa e Malacca, governato la tratta degli schiavi e le vie delle spezie, un ammiraglio ricco e un timoniere povero, un manovratore di tempeste, un tagliatore di teste, un naufrago dell’impero. Sognava di condurre sulle navi schiavi di Ajudá, di accompagnare al lavoro minatori di Dondo, raccoglitori di caffè di Uíge, tagliatori di legna della Guinea, pescatori di Capo Verde, operai dei pozzi di Cabinda, piantatori di cacao di São Tomé, cercatori di diamanti di Luanda, santoni di Goa, commercianti di Malacca, topasses di Timor (meticci che parlavano la lingua locale tétum), biscazzieri e magnaccia di Macao. E se incontrava qualche altro pensionando del Forte di Santo António da Barra, un veterano di guerre tra mangrovie e liane, foreste e serpenti, non mancava di mostrare il suo unico, vero, autentico rammarico dell’esistenza: la perdita dell’India portoghese.
Quella notte del 1954, era il 22 luglio, quando i soldati indiani e i separatisti occuparono Dadra, l’ingranaggio coloniale cominciò a vacillare. Due settimane dopo cadde pure Nagar Haveli. Si formò una amministrazione pro-indiana che fu annessa allo Stato indiano solo nel 1961. Fu il primo inconfessabile affronto subìto dai discendenti di Enrico il Navigatore. Per tutti i figli dell’impero si sacrificò Aniceto do Rosário, capo della polizia indo-portoghese di Dadra, del quale conservò a lungo la fotografia. Sarebbe stato il primo eroe della decolonizzazione. Quasi come una maledizione, Salazar pensò che perdere un solo scalo nel periplo delle spezie significava smantellare il percorso che teneva tutti uniti, dalla madrepatria all’oltremare. Lo disse anche il rappresentante del governo di Lisbona davanti alla Corte Internazionale di Giustizia nel 1960 difendendo l’appartenenza delle due piccole città di Daman e Diu e delle enclavi di Dadra e Nagar Haveli.
Senza quei piccoli grani della conquista, il rosario del cristianesimo lusitano si era sentito sfilacciato perdendo un anno dopo anche il Forte di São João Baptista de Ajudá, annesso senza troppo faticare dal Dahomey, diventato poi Benin. Ma Salazar ha tenuto in piedi con la forza e la tenacia il resto della Carreira da Índia, rispettando il mandato celeste di incaricare i portoghesi del compito di dare un’anima ai popoli persi nell’oblio dell’animismo. E anche se aveva la certezza che un giorno Dio lo avrebbe chiamato tra le proprie braccia, lui sarebbe sopravvissuto con il suo impero: «Mi piacerebbe gustarmi di vedere la confusione in cui il paese cadrà quando sarò sparito». Lui era una entità sublime, come Dio, la Madonna di Fátima, Gesù venuto in terra, lui era il niente e il tutto, l’infinito e la potenza, lui incarnava lo spirito del Nuovo Medioevo portoghese installato nel Novecento, la grandezza della distanza atlantica, il legame marittimo tra Europa e Oriente, la sfida alle incognite della geografia, la magniloquenza della scoperta e della conquista. Il Signore aveva posto una mano sulla spalla di Enrico il Navigatore e gli aveva offerto il compito di conquistare gli oceani: un popolo minuto, piccolo, agricolo e un mondo immenso a cui dare un nome e un destino cristiano, oltre le incognite della Vuelta africana, oltre il Capo di Buona Speranza, oltre i mari caldi indiani e i mari freddi della Cina.
Augusto Hilário era pieno d’ansia e di agitazione. Arrivato a Lisbona, prese carta e penna e scrisse: «On. Signor Presidente, sono rimasto molto colpito e preoccupato, è così che sono uscito oggi dal forte. Prego Dio, signor Presidente, che nessuna conseguenza sia arrivata con una caduta così tremenda. Quindi, con i più rispettosi saluti, spero che sia in ottima salute, scusandomi».
Non si sentiva sollevato e così, tormentato, tornò al forte per consegnare personalmente la busta che restò nell’atrio al piano terra per tutta la notte. La mattina dopo, alle 10, un responsabile della segreteria di Salazar, António da Silva Teles, la vide, la aprì e la lesse. A quel tempo, la presidenza del Consiglio non aveva un capo di gabinetto. Per aiutarlo, c’erano solo due segretari – Silva Teles e Anselmo Costa Freitas – che andavano ogni giorno, alternativamente, da Lisbona all’Estoril per curare e filtrare la corrispondenza.
Anselmo Costa Freitas era molto giovane e intraprendente, aveva 30 anni, il colore dei suoi occhi variava dal blu nei giorni grigi al verde nei giorni soleggiati e aveva già dei capelli bianchi. Più giovane di sette fratelli, rimasto orfano di madre a soli tre anni, si era sposato da pochi giorni, il 23 luglio 1968, con Daniela, figlia del maggiore Sarsfield Rodrigues: Salazar lo conosceva bene, l’aveva fatto arrestare più volte. A officiare la cerimonia era stato suo fratello maggiore, Manuel, che era un sacerdote. Dopo la caduta, Anselmo fu il primo a notare qualche misterioso cambiamento nel comportamento del dittatore.
Leggendo la lettera del callista, António da Silva Teles trattenne il respiro e non appena Salazar arrivò nel suo ufficio del forte, rilasciando un leggero odore di balsamo, gli chiese: «Come sta, signor Presidente? Ho appena visto da una lettera di Hilário che ha subìto una caduta?!». Il Presidente scosse le spalle e rispose: «Ah! Il signor Hilário mi ha scritto? È vero. Stavo per sedermi su una poltrona che non c’era, non era ben imballata e sono caduto impotente con la nuca sul pavimento. Mi sento insensibile nel mio corpo, sto persino mettendo degli unguenti e sto vedendo che mi passa».
Subito rispose per iscritto ad Augusto Hilário: «Sembra che non ci siano state conseguenze della caduta oltre ai dolori fisici. Mille grazie».
In verità quel mal di testa lo tormentava e non poco. Così il 6 agosto ricevette il suo medico curante, Eduardo Coelho, il quale fece un rapido esame neurologico e non trovò cambiamenti «sospetti». Ma era preoccupato. Il suo volto si contrasse, le labbra quasi si assottigliarono e la fronte ampia mostrò qualche ruga inaspettata, frutto di un rovello interiore. Allora lanciò un avvertimento al Presidente del Consiglio e a Dona Maria: in seguito a queste cadute, in testa si poteva formare un ematoma che avrebbe agito silenziosamente per giorni, settimane o mesi. Se fossero comparsi strani sintomi, avrebbero dovuto chiamarlo «immediatamente». Salazar era calmo, ma mostrava una certa titubanza. Eduardo Coelho aveva programmato di andare in vacanza in Germania, lungo il Reno e in Alsazia e visitare poi suo figlio Álvaro che viveva a Parigi e lavorava come ricercatore di biologia cellulare all’Università. Tuttavia, decise di rimandare il viaggio e prenotò una stanza per quindici giorni all’Hotel Estoril Sol, a pochi chilometri dal forte. Tutta questa preoccupazione non era dettata da apparenti motivi clinici, ma da motivi personali. Eduardo Coelho era assistente medico di Salazar dal 1945 e nutriva un grande affetto per lui. Conosceva perfettamente le sue reazioni fisiche e psicologiche.
In diverse lettere che scrisse al dittatore, il medico si qualificava come un «amico molto grato» che aveva «il privilegio di essere in grado di sorvegliare e proteggere» la salute del suo paziente con «devozione». E il premier portoghese, nella dedica di una fotografia che gli regalò, scrisse: «Il clinico e il malato sono due vite e si consacrano a vicenda fino alla vittoria finale su malattia e morte». La fiducia di Salazar in una «vittoria finale su malattia e morte» era giustificata dal fatto che Eduardo Coelho rappresentava una leggenda in campo medico. Fu uno dei primi cardiologi moderni in Portoga...