L'Italia e le sue storie
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L'Italia e le sue storie

1945-2019

John Foot

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  1. 432 pages
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L'Italia e le sue storie

1945-2019

John Foot

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«L'Italia conta, e non solo per gli italiani. Tutt'altro che marginale in Europa, la penisola è sempre stata al centro del cambiamento e dell'innovazione politica. Nel bene e nel male – come dicono gli italiani – questo è un paese dal quale abbiamo molto da imparare.»

Una storia che si legge d'un fiato, capace di portare alla luce vicende complesse con chiarezza e semplicitĂ ."Sunday Times"

Una ricerca superba."Observer"

Un viaggio divertente e mozzafiato (e a tratti disperante) nell'Italia del dopoguerra. Una lettura che è un piacere, piena di personaggi, aneddoti e fatti affascinanti.Donald Sassoon, "Literary Review"

La storia d'Italia è contraddistinta da rivoluzioni brevi e controrivoluzioni prolungate. Dal 1945 ci sono stati momenti in cui è sembrata lanciata a tutto vapore verso il futuro, e altri in cui è apparsa bloccata, come da un sortilegio. Ma sempre sono singoli individui a spezzare il maleficio, a mutare il corso della storia. Ci sono stati italiani comuni che hanno cambiato il loro paese: la donna che rifiutò il matrimonio a dispetto delle convenzioni sociali, lo psichiatra che disse 'no' alle pratiche della repressione e della deumanizzazione, il magistrato che non si piegò alle pressioni politiche, il prete deciso a dare un'istruzione decente anche ai bambini piÚ poveri, il cineasta che provò a costruire bellezza dal caos della guerra. Queste storie ci aiutano a capire l'Italia e i suoi contrasti: la sua meravigliosa indipendenza e le sue soffocanti continuità.

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Information

Year
2019
ISBN
9788858140055

1.
Ricostruire e rifare l’Italia

La democrazia

La prima volta che ho votato, la prima volta che le donne hanno votato, è stato nel 1946, avevo trent’anni, un gran febbrone, l’influenza, e tremavo per l’emozione... Quell’emozione del votare non mi ha lasciato più da allora... Un senso di responsabilità, un senso di appartenenza alla collettività, il senso di essere finalmente cittadino.
Elvira Badaracco1
La democrazia italiana è nata nel 1945-46. Dopo vent’anni senza elezioni di alcun genere (a parte i ‘plebisciti’ propagandistici di Mussolini), gli italiani venivano chiamati per la prima volta alle urne. Prima del fascismo il diritto di voto era gravemente limitato – agli uomini e, prima del 1918, solo di determinate categorie. Ora, finalmente, anche le donne potevano votare. Fu una rivoluzione democratica, non un passaggio graduale: il diritto di voto veniva riconosciuto a tutti, in modo immediato.
Il 10 marzo 1946 gli uomini e le donne d’Italia votarono per eleggere sindaci e amministrazioni locali, liberamente e senza il clima di intimidazione fascista che aveva accompagnato le elezioni negli anni ’20: era la prima volta nella storia del paese. Nel clima esaltato del dopoguerra, partiti e movimenti fiorivano e si moltiplicavano (e molti svanivano con altrettanta rapidità). Alcuni dei vecchi partiti, spariti nella clandestinità durante l’epoca fascista – i socialisti, i comunisti, i repubblicani –, riemersero alla luce. Altri erano del tutto nuovi, o si erano dati nuovi nomi. Alcuni si dissolsero rapidamente. Il Partito d’Azione, estremamente influente prima, durante e dopo il periodo della Resistenza, non tardò a sparire, nonostante la longevità del suo lascito intellettuale2. Le elezioni amministrative di marzo furono seguite a giugno da quelle nazionali per l’Assemblea costituente. In quel contesto, agli italiani veniva richiesta un’ulteriore, fondamentale, decisione.

Repubblica o monarchia?

Il fascismo era crollato e l’Italia era diventata una democrazia, ma il capo dello Stato era ancora un monarca non eletto. Nel giugno 1946 il governo provvisorio convocò un referendum per decidere le sorti della monarchia. Agli italiani si chiedeva di decidere non soltanto chi li avrebbe governati, ma anche la forma e l’architettura del paese. Dovevano scegliere tra due tipi di nazione molto diversi: la repubblica o la monarchia. L’Italia era nata come monarchia nell’Ottocento, e il paese era disseminato di solenni monumenti ai diversi re. Vittorio Emanuele II (1820-1878) era stato uno degli ‘eroi’ del Risorgimento, uno dei padri della patria nazionale. Ma i suoi successori (e in particolare il nipote Vittorio Emanuele III, divenuto re nel 1900 dopo l’assassinio del padre Umberto per mano di un anarchico) avevano degradato a tal punto la legittimità dell’istituzione monarchica che molti la consideravano ormai condannata. Vittorio Emanuele III aveva favorito l’ascesa al potere di Mussolini nel 1922, e poi aveva governato al suo fianco per due decenni. Il re, e con lui la monarchia, erano stati legati a doppio filo, e dunque compromessi, con il regime fascista.
Il re era ben consapevole della precarietà della sua posizione. Nel giugno 1944 era stato di fatto esautorato dai partiti antifascisti, che l’avevano costretto a nominare il figlio Umberto ‘luogotenente generale del Regno’. Umberto era una sorta di ‘quasi-re’: se non nella forma, nei fatti era stata un’abdicazione. Ci si impegnava, una volta finita la guerra, all’elezione di un’Assemblea che avrebbe elaborato una nuova Costituzione. Secondo il grande storico dell’Italia moderna Denis Mack Smith, il re sosteneva che “in una repubblica ogni italiano insisterebbe per diventare presidente e il risultato sarebbe il caos. Gli unici che ne trarrebbero vantaggio sarebbero i comunisti”3.
Umberto, il ‘quasi-re’, era cosciente del peso dell’eredità del padre, che per il momento rimaneva in Italia, in una villa presso Posillipo. Come dichiarò al “New York Times” nell’ottobre 1944, “il peso del passato è il grande difetto della monarchia”. Sandro Pertini, il leader della Resistenza che sarebbe poi diventato lui stesso capo dello Stato negli anni ’70 e ’80, sconsigliò a Umberto una visita a Milano: troppo pericolosa, diceva. La monarchia combatteva per la vita; arbitro del suo futuro era il popolo italiano.
La questione della forma istituzionale definitiva della nazione era stata dunque rinviata al dopoguerra. Umberto non divenne re a pieno titolo (Umberto II) fino al 9 maggio 1946: fu il tentativo disperato di rinnovare un istituto moribondo. L’ex re Vittorio Emanuele III e la moglie Elena salparono per Alessandria d’Egitto solo quattro ore dopo l’‘incoronazione’ in forma privata del figlio, il nuovo monarca (un altro brutto segno: non si poteva rischiare una proclamazione pubblica). La sinistra non risparmiò le critiche al vecchio re. “L’Italia libera”, giornale del Partito d’azione, scriveva che “il re fascista abdica e fugge all’estero per sottrarsi al giudizio popolare del 2 giugno”4. Quello stesso re aveva abbandonato Roma nel 1943 all’arrivo dei nazisti, fuga che gli guadagnò una meravigliosa lapide commemorativa nel porto di Ortona (da dove i reali si erano imbarcati verso porti più sicuri nel Sud liberato), che enuncia “eterna maledizione alla monarchia dei tradimenti / del fascismo e della rovina d’Italia / anelando giustizia / dal popolo e dalla storia / nel nome santo di repubblica”5.
La repubblica rimaneva un sogno per molti democratici. Garibaldi e Mazzini, altri due ‘padri della patria’, erano stati entrambi repubblicani convinti. Garibaldi era stato costretto ad accettare la monarchia come compromesso necessario per arrivare all’unità d’Italia. Mazzini, più per la linea dura, rifiutò fino alla tomba di riconoscere legittimità allo Stato che tanto aveva contribuito a far nascere, soprattutto a causa della permanenza della monarchia. Per molti un re come capo di Stato costituiva una ferita aperta.
Si era dibattuto a lungo sull’opportunità del referendum. Era possibile che un’Assemblea costituente eletta dal popolo fondasse la repubblica per decreto, oppure la decisione doveva essere rinviata al popolo stesso? Alla fine, comunque, furono fissate le date del referendum: 2-3 giugno 1946. Tutti gli italiani avevano diritto al voto, ma l’alta incidenza di analfabetismo significava che sulle schede i simboli avrebbero avuto lo stesso valore delle parole. La scelta era diretta: monarchia o repubblica? Nella stessa occasione si dovevano eleggere i deputati all’Assemblea costituente, l’organismo che avrebbe creato dal nulla la nuova Costituzione italiana. Non si trattava di votare chi avrebbe governato il paese, ma che cosa sarebbe diventata l’Italia: quale tipo di paese volevano gli italiani?

La campagna referendaria

Abbondavano le dichiarazioni apocalittiche. Palmiro Togliatti, il formidabile capo del Partito comunista, che aveva trascorso buona parte del ventennio in esilio a Mosca, parlava chiaro in un editoriale su “l’Unità”: “Bisogna... votare per la Repubblica e contro la monarchia se si vuole la unità della Nazione... il voto per la monarchia è voto per la disunione, per la discordia, per la rovina d’Italia!”6. Secondo i comunisti la monarchia era “complice del fascismo e corresponsabile della catastrofe”7. Nel frattempo i partiti centristi, e soprattutto i democristiani, giocavano d’attesa.
Anche la monarchia si fece sentire nella campagna. Umberto II, una faccia più fresca e moderna di quella arcaica e tradizionalista del padre, trasmise un messaggio al popolo italiano alla vigilia del referendum, il 1° giugno 1946. Dichiarava che avrebbe accettato il verdetto del popolo. Ma il nuovo re sottolineava anche che le domande poste dal referendum si sarebbero dovute riproporre dopo la definizione della Costituzione. Lamentava anche che numerosi italiani (come i prigionieri di guerra ancora all’estero) non avrebbero avuto la possibilità di votare. Appariva evidente che non se ne sarebbe andato in silenzio, indipendentemente dal risultato.
La giovane democrazia italiana era fragile. Umberto II pareva promettere un futuro più liberale per la monarchia, meno compromesso con il regime fascista. Il nuovo, giovane re parlava perfino di ‘giustizi...

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