Storia d'Europa
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Giuseppe Galasso

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Storia d'Europa

Giuseppe Galasso

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La storia d'Europa è la storia di una vicenda perenne e appassionante di contrazioni ed espansioni di un grande spazio di civiltà. È in questo spazio che è nata la tradizione del Cristianesimo, si sono incrociati e fusi i destini di grandi popoli e di grandi tradizioni culturali, è sbocciata la civiltà moderna della scienza e della tecnica, è fiorita la cultura dell'uomo e della libertà morale, politica e civile. E tutto ciò fino a oggi, alla complessa e affascinante pagina dell'Unione europea e ai suoi problemi nel mondo della globalizzazione.

La storia del continente europeo, dall'antichità ai giorni nostri, raccontata da uno dei più importanti storici italiani.

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Information

Year
2019
ISBN
9788858136805

Parte terza.
Età contemporanea

XXXIV.
La nuova Europa e lo spirito del positivismo

Eredità del 1848 e accelerazione della storia europea

Era nata, in un trentennio, un’Europa nuova. La «primavera» del 1848 era appassita. L’idea di repubblica era andata incontro a un netto declino. L’ordine europeo fu ancora quasi per intero fondato su monarchie più o meno costituzionalizzate. Le idee di fraternità dei popoli e di pace universale si trovarono a dover fronteggiare un crudo realismo nella considerazione delle convenienze nazionali e di classe. La forza degli interessi costituiti si affermò egualmente per le vie del liberalismo come per quelle dei partiti conservatori. La realizzazione di ordinamenti nazionali e liberali doveva passare ora attraverso una mediazione e una transazione con tali interessi, se la si voleva attuare. Un’apertura democratica di questi ordinamenti era possibile solo sulla base di un pieno riconoscimento e consolidamento di quegli interessi. La rivoluzione doveva essere «diplomatizzata» (come fu detto per l’Italia), se voleva conseguire i suoi fini. La parola era di nuovo agli Stati, ai governi, alle classi dirigenti. Gli equilibrii interni e internazionali non potevano non condizionare gli obiettivi rivoluzionarii. L’innovazione doveva fiorire nella continuità. La potenza e il potere venivano prima degli ideali; le armi («col ferro e col sangue»), l’economia, gli apparati prima delle forze culturali e spirituali. Il senso del profitto trionfava su quello dell’utopia. E tuttavia il fallimento del 1848 e le delusioni conseguitene solo in parte rispondevano alla realtà.
Quell’anno aveva, in effetti, mutato tutto, almeno nel senso che nulla più fu come prima. Per altre vie e sulla base di altri equilibrii, le mete costituzionali, liberali, nazionali del 1848 vennero, comunque, via via realizzate fra il 1860 e il 1880; quelle democratiche e sociali cominciarono a esserlo. Dal mondo della repressione e dell’ordine post-1848 uscì fuori, assai più rapidamente di quanto si sarebbe mai potuto pensare agli inizii degli anni ’50, un’Europa largamente liberale e nazionale. Si delineò un nuovo contrasto politico e ideale. Fino al 1848 e agli anni della successiva repressione si erano scontrati soprattutto i principii della Santa Alleanza e le nuove tendenze emerse nell’Europa trasformata dalla rivoluzione francese e fortemente dinamizzata dal progressivo diffondersi della rivoluzione industriale. Ora libertà e nazionalità apparivano come il binomio incontrastabilmente vincente. Il fronte della lotta politica e ideale si spostava dal vecchio contrasto con i principii della Santa Alleanza a contrasti di nuovo tipo: tra liberalismo e autoritarismo e tra liberalismo e democrazia o socialismo; tra un nazionalismo acceso, destinato a dar luogo a veri e proprii imperialismi, e dottrine più rigorose e delimitate della nazionalità, rispettose e fautrici dei diritti di tutte le nazioni; tra politiche realistiche, bellicistiche e militaristiche, ruotanti intorno all’idea di potenza, e politiche dell’ordine e dell’equilibrio internazionale o, senz’altro, pacifistiche e internazionalistiche. A sua volta, il conflitto sociale divenne esplicito, dando via via luogo a movimenti sindacali e a partiti socialisti, che si fecero largo spazio anche nelle istituzioni e nella vita politica e amministrativa. Nello stesso tempo il tramonto del potere temporale della Chiesa di Roma, altro grandissimo evento del ventennio 1860-1880, generava, insieme con contrasti di tipo nuovo tra quelli che ora si definivano «clericali» e «anticlericali», un riorientamento delle posizioni cattoliche e cristiane nelle questioni politiche e sociali della nuova epoca.
Sul piano internazionale i mutamenti furono in quel ventennio ancor più impressionanti, se possibile. La Gran Bretagna si confermò nella sua funzione di regolatrice dell’equilibrio europeo. L’Austria si trovò esclusa (dopo un secolo e mezzo) dall’Italia e (dopo mille anni) dal Reich germanico. La Francia cessò di essere la prima potenza militare del continente e la nuova Germania unita la surrogò in questo ruolo. La Russia perse il peso tenuto fino al 1848 nelle cose dell’Europa centrale e occidentale e si vide drasticamente fermata nelle sue proiezioni balcaniche e mediterranee. L’Italia formò per la prima volta dai tempi di Giustiniano (dopo tredici secoli) un paese politicamente unito. Oltre l’Italia, oltre la Grecia e il Belgio, altri nuovi Stati europei si erano formati. Specialmente nella zona balcanica si profilava una serie di realtà nazionali o etniche vitali, pur se suscettibili di alimentare implacabili conflitti locali e conseguenti conflitti generali. Lo stesso gruppo delle grandi potenze risultava profondamente modificato, perché la nuova Germania imperiale era una realtà molto più forte e potente della vecchia Prussia e perché in questo gruppo entrava un nuovo membro, ossia la neonata Italia, per quanto inferiore alle altre «grandi» essa fosse in forza e in prestigio.
È, dunque, giustificato considerare il ventennio compreso fra il 1860 e il 1880 come un grande spartiacque del secolo XIX. In primo luogo occorre, però, specificare che esso poté esserlo in quanto affrontò nuovamente e su altre basi i problemi che il 1848 aveva posto sul tappeto, e diede ad essi le soluzioni che la natura e i rapporti reali delle forze in campo rendevano possibili. Gli sviluppi del ventennio non nacquero, insomma, da impulsi nuovi, da slanci e da esigenze inedite della storia europea. Furono, piuttosto, la liquidazione tutt’altro che fallimentare degli impulsi, degli slanci, delle esigenze fiorite nella «primavera» del 1848. Fu la sistemazione storicamente possibile dei problemi che i «miracoli» di quell’anno non bastarono a risolvere. Quei «miracoli» avevano, anzi, rivelato o l’immaturità o l’insufficienza o la scarsa sinergia delle forze che tali problemi avevano posto nello spirito dei «nobili affetti» e delle «generose passioni» di quella «primavera» dei popoli e della libertà. Erano stati proprio gli esiti del 1848 a ripristinare, come si è detto, il primato della politica intesa come calcolo e dominio razionale e realistico del concreto e del possibile rispetto ad affetti e passioni.
L’Europa nuova che emerse tra il 1860 e il 1880 era, da questo punto di vista, un’Europa più effettualmente autentica, più reale, nel quadro concreto degli elementi e delle forze che la componevano, di quella che si espresse nel 1848 e tentò di far valere tutte e subito le sue ragioni. Era, anche, un’Europa più saggia, più matura, più positiva. Né, d’altra parte, era un’Europa che avesse rinunciato alla sua anima per inseguire soltanto mete di potenza e di potere. Questo pure va, infatti, detto. Il ventennio in questione non fu per nulla una rinuncia o una reazione. È stata consueta in gran parte della maggiore cultura europea, da Jacob Burckhardt a Benedetto Croce, una valutazione severa della svolta che nella storia della vita morale e culturale del continente si può osservare intorno al 1870, in connessione con gli esiti del conflitto franco-germanico di quell’anno e con i caratteri dei successivi assetti e svolgimenti della società europea: esiti e caratteri dei quali si è già avuta l’occasione di sottolineare gli elementi fondamentali che emergono nel ventennio 1860-1880. Ma, come pure si è avuto occasione di dire, la svolta fu piuttosto verso un nuovo modo di guardare agli ideali e ai problemi che verso una rinunzia o un sovvertimento di quegli ideali e della spinta a compenetrarne la soluzione dei problemi europei sul tappeto. La nuova Europa della potenza, del potere borghese, degli imperi, della grande economia, della Realpolitik e di altre connesse connotazioni era pure, ancora, l’Europa della libertà e delle nazioni, dei progetti democratici e socialisti, degli ideali di umanità e di progresso, di tutto ciò che dimostrava e dimostra come e quanto sia fallace la valutazione puramente fallimentare e negativa del 1848, come e quanto sia fondato e attendibile il già accennato giudizio sui successi – per quanto postumi, parziali, diversi rispetto alla fisionomia originaria – che il 1848 in effetti finì col conseguire.
Quel che è, invece, evidente è che gli ultimi decennii del secolo XIX, a partire – se si vuole – proprio all’incirca dagli anni ’70, segnarono una decisa accelerazione della storia europea. Lo sviluppo economico e sociale senza precedenti connesso al diffondersi della «rivoluzione industriale», i progressi delle scienze e delle tecniche e i loro riflessi nella vita quotidiana, le vicende delle lotte politiche e sociali e le loro conseguenze negli equilibrii di potere e negli ordinamenti dei varii paesi, la gara fra le potenze maggiori in Europa e fuori d’Europa, i mutamenti del costume assunsero un ritmo che non fu tra gli elementi minori di un ulteriore consolidarsi del «mito del progresso», già abbondantemente maturato e diffuso sia nell’Europa illuministica che nell’Europa romantica.

Una molteplice rivoluzione culturale e la sua etica

Fondamentale fu l’avvento del pensiero positivistico. Di esso si è esaltata la contrapposizione alle idee dell’epoca romantica. Si è, inoltre, insistito sul suo aspetto di momento filosofico di quella inversione o modificazione di valori etico-politici e sociali alla quale si è accennato. In realtà, alcune basi del nuovo pensiero erano state già poste in pieno periodo romantico. Per quanto riguarda Comte – non a torto designato come «direttore del positivismo» – questo è particolarmente vero. Anche da un punto di vista teoretico, nella netta rottura di principio, non si possono trascurare gli elementi di una continuità di contenuti di pensiero non trascurabili: per la già ricordata concezione storico-progressistica della realtà, per l’idea di un assoluto conoscitivo (benché riportato ora alla scienza anziché al pensiero speculativo), per il rapporto ricercato tra filosofia e vita civile, per la concezione dell’umanità e della società come totalità dallo sviluppo organico e complesso, per la filosofia intesa come scienza di questa totalità e non come riflessione sul singolo individuo o persona. Il carattere di fondo e più distintivo del positivismo si annida, del resto, nella sua stessa denominazione, anch’essa molto precoce (di «scienze positive» parlava Saint-Simon nel 1820 e di «filosofia positiva» Comte nel 1830). Si operava con essa un’assunzione teoretica della scienza nella positività (ossia concretezza, realismo, fattualità, sperimentabilità, dimostrabilità, rigore) dei suoi metodi e dei suoi oggetti, del suo sistema di pensiero e delle sue definizioni e prescrizioni. E ciò non valeva solo in opposizione ai criterii puramente speculativi e deduttivi imputati alle grandi filosofie idealistiche del tempo, e all’hegelismo soprattutto. Valeva anche, e anzi ancora prima e ancora di più, in opposizione a ogni pensiero metafisico o religioso, fondato su se stesso e non sui fatti, sull’intuizione e non sull’esperienza, sull’astratto e non sul concreto, sulla forza degli ideali e non sulle leggi delle cose. Che poi nascesse così una nuova metafisica del fatto, una religione della scienza, una teologia del positivo, una rinnovata filosofia della storia naturale e sociale era quanto a poco a poco sarebbe emerso nel dibattito interno allo stesso positivismo e nelle opposizioni che esso sollevò. Non vale, però, questo, a rompere del tutto il rapporto insieme di forte discontinuità e di latenti affinità o conformità di motivi, dal quale il pensiero del secolo XIX è caratterizzato pur nel passaggio e nel contrasto tra epoca romantica ed epoca positivistica.
Più fondato è il richiamo a una parentela ravvicinata del quadro di pensiero e degli atteggiamenti teoretici positivistici con quelli dell’Illuminismo. Il punto principale a questo riguardo può essere considerato la comune visione della storia, della società e dell’umanità come realtà del tutto razionali e mondane, obbedienti a una logica di progresso naturale e concreta, di utile e di felicità del genere umano, di certezze scientifiche e sistematiche. La parentela che così si può delineare trova poi ulteriore conferma nell’attenzione tutta particolare portata nell’uno e nell’altro momento filosofico al problema delle scienze sociali. Se nell’Illuminismo, non senza ragione, è stata vista la nascita di tali scienze nella loro forma moderna, parimente sintomatico è che il pensiero positivistico culmini senz’altro in una sociologia intesa come scienza generale e sistematica della società, come dottrina dei fatti sociali considerati nelle loro caratteristiche costanti e nei loro processi evolutivi, come conoscenza del rapporto determinante dell’uomo con il suo ambiente sociale prima e più che con l’ambiente naturale, come teoria della società umana considerata nelle sue particolarità e nelle sue affinità rispetto ad altre società animali e al loro rapporto con l’ambiente naturale.
È anche difficile, però, andare poi oltre questa linea di assonanze e di consonanze. Nel senso che a suo luogo si è chiarito, il motivo razionalistico prevaleva nettamente, nell’Illuminismo, su quello storico-evolutivo. Nell’ispirazione illuministica esso si accompagnava, inoltre, a uno slancio utopistico e umanitaristico che fondava un’etica della libertà e della democrazia, dottrinaria a sua volta quanto si vuole, ma ancora fortemente intrisa di spirito umanistico. Non a caso, le teoriche del contratto sociale e dei diritti naturali e imprescrittibili occupavano il cuore della dottrina illuministica della società. Neppure nelle più conseguenti visioni meccanicistiche, deterministiche e materialistiche di allora svaniva davvero la trama di queste ispirazioni. Le componenti deistiche e massoniche dell’Illuminismo non erano casuali, così come non lo era il sogno luminoso di un futuro di ragione, di giustizia e di libertà che, al suo concludersi, fu generosamente prospettato da Condorcet. Che la sociologia umana possa essere una parallela o la componente di una zoologia generale è un pensiero che, malgrado alcune apparenze, non si affacciò mai realmente nel contesto illuministico.
Il fatto è che male si intenderebbe il positivismo con la sua originalità e fecondità, se non si ponesse mente al quadro storico, così diverso da quello del secolo XVIII, in cui esso maturò. Che era il quadro storico della società industriale agli inizii della sua maturità; il quadro di nuovi e continui e prodigiosi balzi in avanti delle scienze e della tecnica; il quadro in cui le visioni del mondo e della storia e le idee di libertà e di nazione, di democrazia e di socialità proprie dell’Europa romantica, per quanto venissero frontalmente e duramente respinte, pure avevano lasciato una traccia imprescindibile. Il positivismo non era – e neppure voleva, e tanto meno poteva, essere – un inveramento o una reincarnazione illuministica. Apparteneva, come ogni altro grande sviluppo storico, a se stesso e al suo tempo.
Per penetrare più a fondo nel senso di questa appartenenza basta, del resto, sottolineare la parte che nel determinare l’atmosfera e gli orientamenti culturali positivistici ebbero alcuni svolgimenti del pensiero scientifico, e in particolare il pensiero di Darwin. Anche altre concezioni scientifiche del tempo portano il segno di innovazioni geniali: dalla dottrina della «correlazione degli organi» e dello strutturalismo anatomico di Cuvier alla teoria dell’ereditarietà di Mendel, per fare solo qualche esempio, o dalla formulazione delle prime geometrie non euclidee alla gestazione della teoria del campo elettromagnetico. Fu, però, con Darwin che davvero si ebbe allora, e si ha anche retrospettivamente in sede storiografica, la irresistibile impressione di un rivoluzionario mutamento di prospettive. Il successo del suo primo grande libro, L’origine della specie, nel 1859 (la prima edizione si esaurì al suo stesso apparire, in un solo giorno) lo rivelò subito. L’evoluzione della specie, la lotta per la vita, la selezione naturale e le variazioni marginali attraverso le quali essa si produce, la discendenza dell’uomo da particolari famiglie di scimmie formavano un corpo di dottrine imponente e destinato, nel suo nucleo essenziale, a durare, per quante modificazioni, integrazioni e revisioni esso abbia dovuto subire.
Il rilievo storico di questo corpo di dottrine andava ben oltre il piano di una sia pure genialmente nuova teoria dello sviluppo zoologico, del mutamento biologico e della storia naturale di architetture ed equilibrii anatomici e funzionali. Segnava la sintesi di suggestioni scientifiche di un arco assai ampio di discipline, dall’economia della libera concorrenza e della sopravvivenza degli operatori più idonei al mercato e alle sue leggi e dalla teoria demografica malthusiana della lotta per le risorse e del rapporto tra popolazione e risorse fino al calcolo infinitesimale per l’importanza determinante di variazioni minime progressive nell’evoluzione della specie. Segnava la teorizzazione di un punto di vista – l’evoluzione appunto – facilmente convertibile in una categoria filosofica fondamentale, a sua volta facilmente percepibile come punto caratterizzante di una visione del mondo e della vita: non è un caso che il filosofo positivista di gran lunga più noto e più influente nell’opinione del tempo sia stato l’evoluzionista Spencer. Chi ha detto che Darwin è stato per il suo tempo ciò che Galilei e Newton furono per il loro non è andato, perciò, lontano dal vero.
L’evoluzionismo legò particolarmente bene con il materialismo, ossia con la concezione della materia fisica come componente totale ed esclusiva della realtà. Più che in altre epoche del pensiero europeo questa fisicità del mondo e delle forme di vita e di attività che in esso hanno luogo ebbe una coerente, addirittura dogmatica espressione teorica. E, anche se non ebbe alcun profeta della statura storica di Darwin, il materialismo non fu meno importante dell’evoluzionismo nel determinare aspetti e caratteri della sensibilità culturale dell’epoca. Esso non solo rigettava ogni possibilità di teoria idealistica o anche solo trascendentale dell’essere e della conoscenza, ma, nella sua forma più conseguente e, peraltro, più diffusa, riluttava anche a qualsiasi teoria sensistica o empiristica che comportasse un rapporto tra essere e conoscenza diverso da quello di una mera proiezione del primo nella seconda.
Il materialismo fu, inoltre, anche uno dei tramiti attraverso cui venne sviluppato, per lo più, negli stessi ultimi decennii del secolo XIX, in senso soprattutto evoluzionistico il pensiero di Marx. Il marxismo perse, così, il forte mordente dialettico e le derivazioni hegeliane, per cui si era configurato come materialismo non in senso metafisico e realistico, bensì in senso dialettico e storicistico. In pochi casi la profonda differenza logica e concettuale tra evoluzionismo e storicismo apparve così evidente come nella versione materialistica ed evoluzionistica del marxismo che allora si affermò rispetto alle più autentiche radici idealistico-hegeliane del pensiero di Marx. Il recupero di queste radici avrebbe rappresentato poi uno dei momenti più importanti nella storia sia del marxismo stesso che del pensiero europeo. Vi attese tra i primi, e con una notevole capacità di riflessione, il maggiore dei marxisti italiani del tempo, Antonio Labriola (1843-1904), passato attraverso esperienze filosofiche che si rifacevano a Hegel e poi, soprattutto, a Herbart: altro filosofo, quest’ultimo, di grande influenza nel suo tempo, e non solo nella sua Germania, sulla linea di esigenze realistiche che facevano, però, pienamente tesoro della lezione di Kant (e il «ritorno a Kant» fu, infatti, una parola d’ordine alla quale toccò allora una notevole fortuna filosofica). In Labriola il «materialismo storico» si configurò come una «filosofia della prassi» (espressione di Engels), in cui le «idee» si muovevano con un proprio margine di autonomia rispetto alle «circostanze», e quindi come una «sovrastruttura» non rigidamente determinata dalla «struttura» economica e sociale, anche se in un rapporto necessario e determinato con lo svolgimento creativo e costante della stessa struttura. Il marxismo si traduceva così in una...

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