La trasfigurazione del banale
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La trasfigurazione del banale

Una filosofia dell'arte

Arthur C. Danto, Stefano Velotti

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La trasfigurazione del banale

Una filosofia dell'arte

Arthur C. Danto, Stefano Velotti

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La trasfigurazione del banaleè un viaggio tra espressionismo astratto e pop art, arte concettuale e minimalismo, racconti di Borges e quadri di Bruegel, poesie di Auden e grandi nomi del pensiero filosofico. In pagine divenute un imprescindibile punto di riferimento per i critici contemporanei, Danto tenta di cogliere l'essenza dell'arte rifiutando la tesi tradizionale della sua 'non definibilità'. A 'far la differenza' sonole relazioni che legano la 'cosa' a elementi che l'occhio non può cogliere: un'atmosfera di teoria artistica, una conoscenza della storia dell'arte, un 'mondo dell'arte'.Tradotto in tredici lingue, è il libro che ha suscitato le piÚ accese discussioni nella filosofia dell'arte e nell'estetica, dal dopoguerra a oggi.

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Information

Year
2021
ISBN
9788858147245

1.
Opere d’arte e mere cose reali

Consideriamo un dipinto, descritto una volta dal genio danese Søren Kierkegaard, in cui sono ritratti gli israeliti che attraversano il Mar Rosso. Guardandolo, si sarebbe visto qualcosa di molto diverso da quel che ci si sarebbe aspettati di vedere in un quadro con questo soggetto se si fosse immaginato, per esempio, che cosa avrebbero dipinto artisti come Poussin o Altdorfer: truppe di israeliti in varie posture di panico, appesantite dal carico delle loro masserizie e, in lontananza, la potenza della cavalleria egizia che si avvicina. Qui, invece, troviamo un quadrato dipinto di rosso: la spiegazione data dall’artista è che «gli israeliti avevano già attraversato il mare, e gli egiziani erano annegati». Kierkegaard commenta che il risultato della sua vita è come quel dipinto. Tutto il travaglio spirituale, il padre che bestemmiava intorno al focolare, la rottura con Regina Olsen, la ricerca interiore di un senso cristiano, l’intensa polemica di un’anima angosciata si fondono infine, come negli echi delle grotte di Marabar, in «uno stato d’animo, un singolo colore».
Ora, accanto al dipinto descritto da Kierkegaard mettiamone un altro, esattamente simile al primo, ma supponiamo che sia stato dipinto da un ritrattista danese che, con immensa penetrazione psicologica, ha prodotto un’opera intitolata Lo stato d’animo di Kierkegaard. E immaginiamo poi, nella stessa vena, un’intera serie di rettangoli rossi, uno accanto all’altro. Vicino ai primi due, e dotato di pari somiglianza (perfetta) con ciascuno degli altri, metteremo Red Square (Piazza Rossa), un interessante scorcio di paesaggio moscovita. La nostra opera successiva è un esemplare minimalista di arte geometrica che, per caso, ha lo stesso titolo del precedente, Red Square (Quadrato rosso). E ora viene Nirvana. È un dipinto metafisico che si basa sulla conoscenza, da parte dell’artista, dell’identità ultima degli ordini del nirvana e del samsara, e della consuetudine, da parte dei detrattori del samsara, di chiamarlo affettuosamente Polvere Rossa. E poi abbiamo una natura morta eseguita da un inacidito discepolo di Matisse, intitolata Tovaglia rossa; possiamo permetterci di dire che, in questo caso, il colore ha uno spessore lievemente più sottile. Il nostro oggetto successivo non è veramente un’opera d’arte, ma una tela preparata con il minio, sulla quale, se avesse vissuto abbastanza a lungo, Giorgione avrebbe dipinto il suo capolavoro, mai realizzato, Conversazione sacra. È una superficie rossa che, per quanto non si possa dire un’opera d’arte, non è tuttavia senza un qualche interesse storico-artistico, visto che fu lo stesso Giorgione a prepararla. Infine, metterò una superficie dipinta, ma non preparata, con del minio: un mero artefatto, il cui significato filosofico consiste unicamente nella circostanza che non è un’opera d’arte, e il cui unico interesse storico-artistico consiste nella circostanza che lo stiamo considerando – è solo una cosa, con sopra del colore.
Con questo, la mia galleria di quadri è completa. Il catalogo della mostra, a colori, sarebbe monotono, visto che ciascuna illustrazione appare uguale a ogni altra, benché si tratti di riproduzioni di dipinti che appartengono a generi diversissimi tra loro: pittura storica, ritratto psicologico, paesaggio, astrazione geometrica, arte religiosa, natura morta. Conterrebbe inoltre riproduzioni di qualcosa che viene dalla bottega di Giorgione e anche quella di una mera cosa, priva di qualsiasi pretesa di possedere l’elevato status di arte.
Un visitatore indignato, il giovane artista risentito che chiamerò J, ha una disposizione egualitaria, e chiama «ingiustizia di rango» il fatto che si conceda la qualifica di opera d’arte a tutti i quadri della mia esposizione, mentre non la si concede a un oggetto che assomiglia ad essi fin nei minimi particolari. In preda a una sorta di rabbia politica, J dipinge un’opera che assomiglia al mio quadrato di colore rosso e, insistendo che anche la sua è un’opera d’arte, pretende che io la includa nella mia mostra, cosa che faccio volentieri. Non è una delle opere più ambiziose di J, ma la appendo comunque. Gli dico che è un’opera piuttosto vuota, specie se paragonata alla ricchezza narrativa degli Israeliti che attraversano il Mar Rosso o all’impressionante profondità di Nirvana, per non parlare della Leggenda della vera croce di Piero della Francesca o della Tempesta di Giorgione. Lo stesso epiteto caratterizzerebbe un’altra opera di J, che lui considera una scultura e che consiste, se ricordo bene, in una scatola di legno qualsiasi, coperta con della vernice al lattice beige applicata senza alcuna cura con un rullo. Tuttavia il dipinto non è vuoto nel senso in cui lo è la mera estensione della tela dipinta di rosso, che non è neppure vuota come potrebbe esserlo una pagina bianca, perché non è ovvio che sia in attesa di un’iscrizione, più di quanto lo sarebbe una parete della mia stanza se io la dipingessi di rosso. Né la sua scultura è vuota nel senso in cui lo sarebbe un contenitore, una volta che lo si svuotasse del suo contenuto. Infatti «vuoto», applicato alle sue opere, è un giudizio estetico e una valutazione critica, e presuppone che ciò cui si applica sia già un’opera d’arte, per quanto possano essere imperscrutabili le differenze tra quella e i meri oggetti, i quali, come classe, sono logicamente non suscettibili di tali predicazioni. Le sue opere sono letteralmente vuote, come lo sono le altre opere della mia mostra: ma non è il significato letterale che ho in mente quando dico che, in effetti, le opere di J mancano di ricchezza.
Chiedo a J quale sia il titolo della sua nuova opera e, prevedibilmente, mi risponde che Senza titolo può andare benissimo. Ma questo è una specie di titolo e non invece un enunciato fattuale, come talvolta capita quando un artista trascura di dare un titolo alla sua opera o noi non sappiamo che titolo le abbia dato o se glielo abbia dato. Potrei osservare che anche la mera cosa, alla cui causa politica J ha dedicato la sua opera, è priva di titolo, ma ciò è dovuto a una classificazione ontologica: le mere cose non hanno titoli per avere un titolo. Un titolo è qualcosa di più di un nome; spesso è un’indicazione di lettura o un suggerimento interpretativo, che non è necessariamente sempre utile, come quando qualcuno dà il titolo Annunciazione a un dipinto che raffigura delle mele. J non arriva a questo livello di fantasia: il suo titolo dà però un’indicazione, nel senso che intende sottrarre all’interpretazione la cosa cui è conferito. Così – di nuovo, prevedibilmente –, quando chiedo a J a proposito di che cosa sia la sua opera, mi risponde che è a proposito di «nulla». Sono certo che questa non è una descrizione del suo contenuto (il capitolo II dell’Essere e il nulla è a proposito del nulla, a proposito dell’assenza). Se è per questo, si può dire che Nirvana non è a proposito di niente in particolare, nel senso che è a proposito del nulla, è una raffigurazione del vuoto. La sua opera, sottolinea J, è svuotata di ogni raffigurazione, non è tanto un caso di mimesi della vacuità, quanto di vacuità della mimesi: quindi, ripete, è a proposito di «nulla». Ma gli faccio notare che anche quella superficie rossa in difesa della quale lui ha dipinto il suo Senza titolo non si riferisce a nulla, ma ciò è dovuto al fatto che è una cosa, e le cose, come classe, non sono a-proposito-di, per il semplice fatto che sono cose. Senza titolo, invece, è un’opera d’arte, e le opere d’arte, come mostra la descrizione della mia galleria, tipicamente sono a proposito di qualcosa. Così, nel caso di J, l’assenza di contenuto appare piuttosto voluta.
Al tempo stesso, posso solo far notare che, nonostante J abbia prodotto un’opera d’arte (piuttosto minimal) indistinguibile a occhio nudo da una semplice superficie dipinta di rosso, non è riuscito nel suo intento di trasformare quella superficie rossa in un’opera d’arte. La quale resta quel che è sempre stata, un’estranea nella comunità delle opere d’arte, benché quella comunità contenga numerosi membri indiscernibili da essa. È stato dunque un bel gesto, quello di J, ma un gesto inutile: ha aumentato la mia piccola collezione di opere d’arte, ma ha lasciato intatti i confini tra le opere e il mondo delle semplici cose. Questo lo lascia sconcertato, come lascia sconcertato anche me. Non può essere che la sua sia un’opera d’arte solo perché lui è un artista, perché non tutto ciò che un artista tocca si trasforma in arte. Una staccionata dipinta da J è solo una staccionata verniciata, così come la tela preparata da Giorgione resta tale, anche nel caso in cui sia stato proprio lui a stendere il colore. L’unica alternativa rimasta, pensa ora J, è quella di dichiarare che la superficie dipinta è un’opera d’arte. Perché no? Duchamp dichiarò che una pala da neve era un’opera d’arte, e così fu; e lo stesso accadde con uno scolabottiglie. Ammetto che J ha lo stesso diritto di farlo, e lui in effetti dichiara che quella superficie dipinta è un’opera d’arte, trasportandola trionfalmente oltre il confine delle semplici cose come se avesse messo in salvo qualcosa di raro. Ora, nella mia collezione, ho tutte opere d’arte, ma non è stato chiarito in alcun modo come ciò sia accaduto. La natura del confine è filosoficamente oscura, nonostante il successo dell’incursione di J.
Colpisce il fatto che un esempio simile a quello appena costruito, consistente in controparti indiscernibili che possono avere appartenenze ontologiche radicalmente distinte, possa essere costruito anche in altri settori della filosofia, se non dappertutto. In seguito mi interesserò tanto al principio che permette di generare tali esempi quanto agli esempi effettivi che analizzerò. Qui, tuttavia, può essere utile menzionarne subito uno analogo, almeno come profilassi contro la supposizione che tali strutture siano peculiari solo alla filosofia dell’arte. L’esempio che porto è preso dalla filosofia dell’azione, ma non per suggerire che la filosofia dell’arte sia un satellite della filosofia dell’azione, quanto per sottolineare che è possibile osservare strutture parallele in entrambe le sfere e, anzi, in ogni sfera dell’analisi filosofica. Nei miei scritti precedenti ho sfruttato dei parallelismi strutturali fra la teoria dell’azione e la teoria della conoscenza, senza mai essere tentato di proclamare un’identità fra la conoscenza e l’azione. In ogni caso, se posso citarmi, ecco l’esempio con cui inizio la mia Analytical Philosophy of Action:
Nel registro mediano di sei riquadri, sulla parete nord della Cappella degli Scrovegni a Padova, Giotto ha raccontato in sei episodi il periodo missionario della vita di Cristo. In ciascun pannello, la figura dominante di Cristo è mostrata con un braccio alzato. Nonostante questa disposizione invariante del braccio, attraverso di essa viene compiuta, di scena in scena, un’azione diversa, e noi dobbiamo ricavare l’identità dell’azione dal contesto della sua esecuzione. Nella disputa con gli anziani, il braccio alzato è ammonitorio, per non dire dogmatico; alla festa delle nozze di Cana è il braccio alzato del prestidigitatore che ha trasformato l’acqua in vino; al battesimo è alzato in segno di accettazione; comanda Lazzaro; benedice la gente alle porte di Gerusalemme; caccia i mercanti dal Tempio. Poiché il braccio alzato è presente invariabilmente, queste differenze performative devono essere spiegate mediante variazioni contestuali, e mentre può essere vero che il contesto, da solo, non costituisce le differenze, e che dobbiamo appellarci alle intenzioni e agli scopi di Cristo, non rischiamo certo di sopravvalutare la misura in cui il contesto penetra nell’intento1.
Ora, nell’ambito della teoria dell’azione, è risultato istruttivo chiedersi, alla maniera di Wittgenstein, che cosa resti quando si sottrae, dal fatto che uno alza un braccio, il fatto che il braccio va verso l’alto. Sono convinto che la risposta preferita da Wittgenstein a questo problema para-aritmetico sia «zero», e cioè che il mio alzare il braccio e il fatto che il braccio vada verso l’alto sono identici. Come dice Gertrude E.M. Anscombe in Intenzione2, «Io faccio quel che accade». A parte altre difficoltà, è difficile vedere come questa risposta radicale possa sfuggire all’obiezione sollevata dal mio esempio, visto che il braccio alzato, non solo sottodetermina le differenze tra la benedizione e l’ammonizione, ma anche tra un’azione quale che sia, da un lato, e un mero riflesso, un tic o uno spasmo, dall’altro; qui il braccio si alza, come se non fosse alzato dal suo possessore, mentre lì c’è un’azione di base, del genere di quella che io suppongo che Cristo stia compiendo nella raffigurazione. La differenza tra un’azione di base e un mero movimento corporale è parallela, per molti versi, alle differenze tra un’opera d’arte e una mera cosa. Il problema della sottrazione si ripresenta qui in questa formula: che cosa resta quando sottraiamo il quadrato rosso di tela da Quadrato rosso? Benché si sia tentati di dire, echeggiando Wittgenstein, che non resti niente, che Quadrato rosso sia semplicemente quel quadrato rosso di tela o, più solennemente e generalmente, che l’opera d’arte sia semplicemente il materiale di cui è fatta, è difficile vedere come questa stimabile teoria possa far fronte a un esempio in cui qualcosa come un quadrato di tela rossa sottodetermina le differenze tra Gli israeliti che attraversano il Mar Rosso e Lo stato d’animo di Kierkegaard, oltre alle differenze filosoficamente più profonde tra ciascuna di queste opere d’arte e quel quadrato rosso che non è un’opera d’arte ma una mera cosa – almeno finché J non l’ebbe riscattata.
I seguaci di Wittgenstein si resero conto che dopotutto, nell’ambito dell’azione, permaneva un residuo. Ciò produsse la formula secondo cui un’azione sarebbe un movimento del corpo più x, che, per parità di struttura, produrrebbe la formula secondo cui un’opera d’arte è un oggetto materiale più y; il problema, in entrambi i domini, è determinare in una maniera filosoficamente rispettabile x e y. Una prima soluzione wittgensteiniana fu questa: l’azione è un movimento corporeo che è conforme a una regola. La soluzione in questione lasciava naturalmente irrisolta la distinzione tra i movimenti corporei che erano sufficientemente volontari affinché gli agenti in questione potessero averli interiorizzati e resi conformi a una regol...

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