I Greci a teatro
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I Greci a teatro

Spettacolo e forme della tragedia

H.C. Baldry, Herbert W. Belmore, Marjorie Belmore

  1. 196 pages
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I Greci a teatro

Spettacolo e forme della tragedia

H.C. Baldry, Herbert W. Belmore, Marjorie Belmore

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Eschilo, Sofocle, Euripide nelle loro concrete condizioni di lavoro e nei loro non meno concreti problemi poetici: il finanziamento degli spettacoli, il pubblico, la regia e la recitazione. Baldry analizza anche le forme della tragedia, il rapporto con la leggenda, le origini rituali del dramma, l'accanito antinaturalismo, le trame incredibili e i personaggi stlizzati, fuori dello spazio e del tempo.

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Information

VII.
Le tragedie

Torniamo alla nostra documentazione principale: le tragedie giunte sino a noi. Non vogliamo tentare qui di descriverle o di riassumerle tutte, il che sarebbe una sostituzione noiosa della loro lettura. Lo scopo di questo capitolo è vedere come il poeta tragico affrontava il suo compito, creando drammi adatti all’occasione, al luogo e allo stile di rappresentazione che abbiamo descritto: come sceglieva il suo materiale dalla storia o dalla leggenda; come lo adattava alla rappresentazione in teatro, plasmandolo secondo un determinato modello; come adoperava i propri personaggi; quale ruolo svolgeva nella sua opera il pensiero religioso o filosofico. Ci serviremo di certe opere (non sempre le migliori) per illustrare le nostre argomentazioni. Fino ad un certo punto tratteremo «la tragedia greca» come se fosse di un unico tipo, ma qui qualche differenziazione fra i tre grandi poeti tragici si impone.
Si dice che ogni pubblico teatrale ha i drammi che si merita. Indubbiamente le opere rappresentate alle feste di Dioniso erano appropriate al pubblico e all’occasione e traevano il loro materiale dall’esperienza e dalle conoscenze comuni alle migliaia di spettatori presenti; i limiti erano perciò assai ristretti in confronto alla straordinaria ricchezza di informazioni a disposizione dell’uomo moderno. A noi i loro soggetti possono apparire remoti e strani; ma per i greci del V secolo, riuniti per la festa, questi argomenti costituivano un patrimonio comune, condiviso in ugual modo dai drammaturghi, dagli esecutori e dal pubblico. Questo è vero soprattutto per la commedia, con i suoi scherzi di attualità e le caricature dei personaggi del giorno; Aristofane teneva uno specchio – anche se deformante – rivolto verso la realtà del presente. I poeti tragici invece si occupavano del passato, non come lo conosciamo noi ora, ma come era visto dalla comunità per la quale scrivevano.
Nei primi decenni del secolo, l’argomento del dramma era tratto a volte dalla storia dell’immediato passato e a quanto pare produceva un profondo effetto sul pubblico. Nel 494 a.C. la città di Mileto, che guidava la rivolta dei greci d’Oriente contro i persiani, fu assediata e presa d’assalto dal nemico: gli uomini furono uccisi, le donne e i bambini fatti schiavi. Qualche anno dopo, il poeta Frinico drammatizzò il disastro in una tragedia intitolata La presa di Mileto. Le reazioni del pubblico sono così riferite da Erodoto (VI, 21):
Tutti gli spettatori scoppiarono in lacrime: [al poeta] fu inflitta una multa di mille dracme per aver ricordato loro le proprie disgrazie, e fu decretato che nessuno rappresentasse mai più quella tragedia.
Il motivo per cui per la prima volta fu proibita la rappresentazione di un dramma sarebbe stato dunque l’aver toccato troppo da vicino la coscienza del pubblico. Tra quelli pervenutici, invece, l’unico dramma che tratti un argomento di storia recente ha per argomento una vittoria greca. I Persiani di Eschilo, la più antica tragedia che abbiamo, celebrò nel 472 a.C. la disfatta dei persiani a Salamina, avvenuta otto anni prima. Il poeta stesso aveva combattuto nella battaglia accanto a molti degli spettatori; Pericle ne era il corego. Il dramma contrasta spiccatamente con i drammi storici alla Shakespeare, con il loro ritmo incalzante e l’ampio raggio d’azione. Non ha né trama né caratterizzazione, nel senso comune della parola. L’ambiente non è la battaglia stessa, ma la capitale persiana qualche mese dopo; e a questo punto, unico nello spazio e tempo, l’intera guerra persiana viene presentata all’immaginazione del pubblico: il passato, mediante il racconto della spedizione fatto dal coro e la narrazione della battaglia di Salamina da parte del messaggero; il futuro, mediante le profezie dello spettro di Dario. In questo stesso momento arriva Serse sconfitto, portando l’azione al culmine dell’angoscia e della lamentazione. Il tutto costituisce un vero capolavoro di effetti spettacolari trasmessi a mezzo della parola. Solo se riuscissimo ad immaginare come si sarebbe potuto allestire, negli anni intorno al 1950, un dramma ambientato nel quartiere generale di Hitler all’epoca dell’invasione alleata della Francia, potremmo comprendere a un dipresso l’effetto prodotto dai Persiani nel teatro di Atene.
Le altre tragedie conservate sono ambientate nella leggenda, nella storia del passato più antico, che figurava in più larga misura nell’educazione e nel pensiero dei greci che non la maggior parte della loro storia più recente. A volte la leggenda stessa poteva essere direttamente legata al pubblico, spiegando, ad esempio, l’origine di qualche rituale ben noto o qualche altro elemento della vita di tutti i giorni. Nelle Eumenidi (458 a.C.), Eschilo porta Oreste ad Atene perché sia processato per l’assassinio della madre. Atena, dea patrona della città, presiede al tribunale ed invita l’araldo ad annunciare l’apertura del giudizio:
E la squillante buccina tirrena,
sino al cielo, di vivo alito gonfia,
l’acutissima voce alzi alla turba.
Suona la tromba, e l’intero pubblico non sta più assistendo ad uno spettacolo, ma partecipa all’istituzione del tribunale che conosce ancora sotto il nome di Areopago.
Non c’è da meravigliarsi se nel trattare le leggende i drammaturghi spesso fanno appello all’orgoglio o al patriottismo degli ateniesi. Atene viene descritta come la protettrice dei deboli e degli oppressi, la patria della democrazia e della libertà. Nei primi anni della guerra del Peloponneso, Euripide fa uso delle vecchie storie come di un mezzo di propaganda contro Sparta. Più importante, però, è il fatto che l’intero repertorio di leggende dal quale i tragediografi trassero la trama dei loro drammi era un retaggio comune, un ricco materiale da tutti considerato come patrimonio sociale, benché le testimonianze contrastanti non ci permettano di giudicare fino a che punto il pubblico fosse al corrente dei particolari. Non era sconosciuta l’idea della finzione nel teatro; era usuale nella commedia, e nella Poetica (9), Aristotele accenna a un’opera di Agatone come ad una delle numerose tragedie con personaggi e trama inventati. Comunque, è chiaro che tale esperimento non poteva durare: non fu soltanto per rispetto della tradizione o per avversione ai cambiamenti che queste storie più o meno conosciute del passato continuarono a fornire materia alla tragedia, ma soprattutto per la convinzione che esse costituissero la più ricca fonte di motivi drammatici a disposizione della comunità.
Quindi la leggenda era la riserva alla quale di solito si rivolgevano i poeti tragici in cerca di una trama; ma la leggenda già vista sotto una certa angolatura e plasmata in una forma determinata. Eschilo, si dice, chiamò le sue opere «fette dai grandi banchetti di Omero» (Ateneo VIII, 347e): per Omero, un greco dell’epoca intendeva non soltanto l’Iliade e l’Odissea, ma tutto il corpo dei poemi epici di stile omerico, ora perduto, che allora abbracciava l’intera gamma della mitologia e della saga eroica. Abbia Eschilo pronunciato questa frase o no, essa proclama una verità echeggiata da altri e fondamentale per la comprensione della tragedia greca. Nella Repubblica (595b-c), Platone parla di Omero come dell’«istruttore e guida originaria della bella compagnia dei poeti tragici». Aristotele collega strettamente la tragedia con l’epopea, trovando gli stessi elementi in ambedue. Se immaginiamo l’epopea omerica non come dei versi sulla pagina stampata, ma come era conosciuta dai greci, cioè come una serie di narrazione e discorsi declamati, quasi recitati, sia dai ragazzi a scuola, sia dal rapsodo alla festa, l’affinità fra essa e il dramma diventa più evidente. Ciò che i drammaturghi trovarono nella poesia epica o nella poesia lirica affine a quella non somigliava al materiale grezzo che Shakespeare trasse da Plutarco e altrove: era materiale già elaborato, con impressi dei caratteri che ricompaiono nel teatro. Benché la tragedia greca sia ben lontana dal «teatro epico» nel senso usato da Brecht, le sue caratteristiche principali spesso ci riconducono ad Omero: il concetto degli esseri umani, eroici o umili; l’intervento degli dei nella vita umana; la dignità dell’uomo e la sua impotenza. Tutte queste caratteristiche sono ben evidenti nell’Iliade, forse la più grande delle tragedie; per altri elementi del dramma del V secolo – avventure romantiche, ingegnosità della trama – non occorre cercare più in là dell’Odissea, mentre in ambedue i poemi la combinazione della rapida narrazione con il contrasto del discorso e della replica ci prepara alla struttura delle tragedie. Non vi può essere preparazione migliore alla tragedia greca che la lettura dei due poemi omerici.
Omero è spesso stato chiamato la Bibbia greca. Vi è un elemento di verità in questa frase, se pensiamo all’influenza dell’epopea primitiva sulla vita e la letteratura delle epoche posteriori, ma il confronto è erroneo se implica che l’opera di Omero fosse trattata come la Sacra Scrittura. Se si sottolinea che la leggenda come veniva presentata nell’epopea era lo sfondo ambientale della tragedia, si deve anche insistere sul punto altrettanto importante che nessuna versione veniva considerata «classica». Una caratteristica della religione greca, assai pertinente al dramma, è che il rituale (compreso quello del teatro), era fisso sì da non essere facilmente cambiato, mentre la fede era fluida, variabile, sempre mutevole. Le leggende degli dei e degli eroi assumevano di continuo nuove forme, e i poeti erano gli agenti principali in tale processo. La parola greca poietes significa «artefice», e quando Aristotele descrive il drammaturgo come «artefice di favole» (Poetica IX), lo inserisce fra i poeti epici e corali che già prima di lui avevano fatto e rifatto i racconti.
Questo concetto della funzione del drammaturgo può oggi sembrarci strano. Noi non abbiamo l’abitudine di rimaneggiare i nostri testi classici, ma lasciamo al regista il compito di presentare nuove versioni mediante una reinterpretazione del testo. Nel teatro greco, invece, gli stessi soggetti erano costantemente rifatti: abbiamo i titoli di drammi su Edipo di dodici autori diversi, e può darsi che ce ne fossero ancora di più; sappiamo di 56 soggetti trattati da almeno due autori, di 16 usati da 3, 12 da 4, 5 da 5, 3 da 6 e 2 da 7. Fra tutto questo rimodellare, un nucleo essenziale veniva conservato: come dice Aristotele, Clitennestra deve essere uccisa da Oreste, perché che Oreste ed Egisto finissero per congedarsi da buoni amici era possibile nella versione comica della vicenda, ma non certo nella tragedia (Poetica XIV, 20). Non possiamo dire fino a che punto la libertà di invenzione fosse permessa al di fuori di tale nucleo. Non siamo in grado di rispondere a questa domanda neanche per la maggior parte delle opere conservate, perché non sappiamo abbastanza della forma originaria del soggetto nei poemi epici, nel canto corale o nell’arte. Tuttavia, il fatto che Aristotele indichi la trama come l’elemento centrale del dramma sarebbe inconcepibile se un’opera si limitasse a ripetere la trama di un’altra, e almeno talune delle tragedie che abbiamo danno forse alla leggenda un’impronta più originale di quanto comunemente non si creda. Pare che nelle Eumenidi la scena del processo ad Atene sia la conclusione data da Eschilo stesso alla storia di Oreste; per quanto sappiamo, non esiste un modello per l’Antigone di Sofocle; e l’assassinio dei figli di Medea è probabilmente un’aggiunta fatta da Euripide medesimo. È evidente dalle Rane che in larga misura l’interesse per il dramma da parte del pubblico nascesse dalla tensione fra il familiare e il nuovo. Nelle rappresentazioni moderne, il pubblico riceverebbe un’idea più precisa dell’impressione che faceva originariamente la tragedia greca, se gli fosse offerto non un sommario della trama, ma un resoconto di come la storia era conosciuta precedentemente nell’epopea, nel canto corale, negli altri drammi e nell’arte.
Se ci domandiamo come il poeta plasmasse il proprio dramma dal materiale da lui scelto, ci avviciniamo al cuore della creazione drammatica così come la concepivano i greci. Non era in questione un pensiero astratto, una storia tradizionale rimodellata e adattata a una serie di idee preconcette. Qualche secolo più tardi Seneca drammatizzò gli stessi soggetti in latino, applicando consapevolmente ad essi i princìpi stoici; nelle opere di Bernard Shaw, la teoria della «forza vitale» si fa sentire troppo spesso tanto nel dramma quanto nella premessa e lo stesso O’Neill, nella sua potente versione della leggenda di Oreste, Il lutto si addice ad Elettra, si ispira in modo troppo evidente a Freud. Ma, i poeti tragici del V secolo erano artisti drammatici, non filosofi che scrivevano opere drammatiche, anche se Euripide a volte corre il rischio di avvicinarsi pericolosamente a tale categoria; l’artista non pensa in termini astratti, ma nei termini del materiale di cui fa uso, sia esso il colore, la pietra o il mito. Senza dubbio la mente del drammaturgo era variamente influenzata: dal patriottismo locale, da pregiudizi o atteggiamenti religiosi o morali, suoi propri o della sua epoca, e soprattutto dalle possibilità e dalle limitazioni inerenti alla rappresentazione nel teatro. Studiando e analizzando le tragedie oggi, possiamo separare questi fattori per poi comporre saggi sulla religione di Eschilo o sull’atteggiamento di Euripide nei riguardi della guerra del Peloponneso. Ma il processo di creazione del dramma era certamente questo: sotto tutte queste influenze, il drammaturgo vedeva la storia in una nuova luce, un nuovo concetto di essa si formava nella sua immaginazione, e tale concetto egli plasmava e adattava sino a fare di esso un dramma.
Tale era, ridotta alla sua essenza, l’attività del poeta tragico. Non a caso, nella Poetica, Aristotele si sofferma soprattutto su questo argomento. «Quando scrivo un dramma – dice Bernard Shaw nel poscritto del suo Back to Methuselah – non invento mai una trama: lascio che il dramma si scriva e si plasmi da sé, cosa che sempr...

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