L'Italia dei consumi
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L'Italia dei consumi

Dalla Belle Époque al nuovo millennio

Emanuela Scarpellini

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L'Italia dei consumi

Dalla Belle Époque al nuovo millennio

Emanuela Scarpellini

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«La cultura materiale legata ai consumi si è dimostrata in grado di strutturare la società, di marcare i confini di classe, genere, generazione e le differenziazioni regionali; ha avuto riflessi nel mondo dell'arte e della letteratura; ha ispirato le politiche di governo. È una costruzione culturale che ci permette di osservare l'Italia da un'angolazione molto particolare, e di scoprire aspetti inediti e forse sorprendenti.»

Dalla lotta contro la povertà dei primi governi liberali dell'Italia unita, passando per l'autarchia fascista, fino ad arrivare alle politiche del welfare e ai movimenti del consumo critico dei nostri giorni, Emanuela Scarpellini traccia una storia dei consumi italiani che si snoda in parallelo con i grandi filoni della storia culturale, politica, economica e sociale del nostro Paese.

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Information

Year
2014
ISBN
9788858114513

III. Il miracolo economico

1. La società nell’età d’oro del capitalismo

1.1. La rivoluzione dei consumi

Aveva aspettato fuori per ore. Nel quartiere non si parlava d’altro da mesi. La folla era tanta e la polizia era intervenuta per stabilire turni d’entrata, qualcuno si era anche sentito male nella calca. Ma alla fine ce l’aveva fatta ed era entrata. Ne valeva la pena! I giornali l’avevano detto, c’era «il ben di Dio di ogni paese», pinne di pescecane, nidi di rondine, mozzarella napoletana, e poi scatole e scatolette, carne avvolta in una specie di pellicola trasparente, un reparto intero di cibi «sotto zero», congelati (che fortuna avere comprato il frigorifero!), e anche cibi «normali» a prezzi molto convenienti. I commenti dei clienti erano entusiastici. Una vecchia signora fermò un dirigente: «I miei parenti in America mi hanno parlato per anni di questi negozi favolosi... ho pregato per anni di poterne vedere uno e di farci la spesa prima di morire... mi creda, questa è la risposta a tutte le mie preghiere». E un tizio a un altro: «La prossima volta che vai a votare, semplicemente ricordati di questo, in Russia non hanno niente del genere». Era davvero come avere l’America in Italia. Non avrebbe mai dimenticato la sua prima visita al «supermercato»1.
Se i decenni tra fine Ottocento e Prima guerra mondiale sono quelli della «grande trasformazione», gli anni 1945-73 sono l’«età d’oro» del capitalismo2. Il reddito pro capite cresce in tutto il mondo del 2,9 per cento e ancora di più crescono i redditi nazionali e le esportazioni. Le migliori performance si hanno in Europa occidentale (oltre che in paesi asiatici come Giappone, Corea del Sud e Taiwan). Dal 1950 al 1973 la distanza in termini di ricchezza tra il leader mondiale, gli Stati Uniti, e l’Europa occidentale si riduce notevolmente: la rincorsa (catch-up) è cominciata.
Le cause di questa fortunata situazione sono molteplici, alcune contingenti, altre strutturali. In primo luogo operano la liberalizzazione dei mercati e l’integrazione dei sistemi produttivi in un unico spazio economico, sovrinteso da istituzioni internazionali e saldamente ancorato al dollaro, che innescano un flusso di merci e capitali senza precedenti. Il ruolo degli Stati Uniti in questo processo non può essere sottovalutato, per la loro lungimirante leadership, per gli aiuti concessi all’Europa in crisi dopo la guerra, per l’attiva diffusione di nuovi modelli di produzione (e consumo), per la spinta all’integrazione politico-economica occidentale. Da questo punto di vista, studiosi come Maddison hanno sostenuto che la divisione in blocchi politici contrapposti è stata persino funzionale allo sviluppo economico: ha disinnescato pericolose tensioni fra singoli Stati confinanti, proiettandole in un disegno più vasto, e ha provocato in funzione antisovietica una maggiore cooperazione e un’integrazione a tappe forzate dei paesi interni al blocco atlantico (di cui un momento fondamentale è stata la costituzione del Mercato Comune)3.
Altrettanto importante è la politica economica coscientemente perseguita per promuovere lo sviluppo all’interno dei singoli paesi e anche a livello internazionale (ad esempio, verso i paesi da poco liberati dal dominio coloniale). L’assunto di queste politiche è chiaro: lo sviluppo consiste essenzialmente in una crescita economica di tipo quantitativo, che porta a un più alto standard di consumi, migliora la qualità della vita, diminuisce la disoccupazione e la conflittualità sociale; pertanto gli obiettivi prioritari sono gli investimenti in capitale fisso e quelli in capitale umano (istruzione, formazione professionale)4.
Un terzo elemento è dato dagli insospettati spazi di crescita economica e di mutamento che si aprono con la ricostruzione. La tipica resistenza al cambiamento opposta dalle istituzioni sociali e dalle stesse forme culturali viene superata d’un colpo per via della guerra, che spazza via vetuste istituzioni, caste privilegiate, ricche corporazioni, antiche famiglie, insieme a molti poveri abitanti. In paesi con regimi compromessi si aprono ampie falle nella classe dirigente (non sarà però il totale rinnovamento che molti sperano). Persino i danni materiali, in certi frangenti, si rivelano un incentivo positivo. Non è un caso che i paesi che registrano le migliori performance economiche siano quelli usciti sconfitti e maggiormente danneggiati dal conflitto: Giappone, Germania e Italia. E questo ci ricorda le lucide parole di Hannah Arendt sulla distruzione come stimolo alla ricostruzione e all’accumulo di nuova ricchezza; essa infatti porta a
un’esplosione di prosperità che, come la Germania postbellica illustra, è alimentata non dall’abbondanza delle materie prime o di alcunché di stabile e dato, ma dallo stesso processo di produzione e di consumo. Nelle condizioni moderne, non la distruzione, ma la conservazione appare come una rovina perché la durata degli oggetti conservati è il maggior impedimento al processo di ricambio, la cui costante accelerazione è la sola costante che rimanga valida quando tale processo abbia luogo5.
Ecco allora che Italia e Germania condividono un’eccezionale crescita media del 5 per cento dal 1950 al 1973, ben al di sopra della media europea. L’Italia, che ancora nel 1950 è l’ultima delle nazioni europee con i suoi 3500 dollari a testa (contro i 6900 della Gran Bretagna, i 5200 della Francia e i 3900 dell’ancora sofferente Germania, senza contare i piccoli Stati nordeuropei, tradizionalmente molto prosperi), nel 1973 ha triplicato il suo reddito pro capite: 10.600 dollari. Ora è molto più vicina alla media europea e alle nazioni principali (12.000 dollari Gran Bretagna e Germania, 13.000 Francia)6. Ora ha finalmente un senso il paragone con i ricchi vicini e ci sono le premesse economiche per un profondo cambiamento nei consumi.
Ma non è tutto. Come era avvenuto a fine Ottocento, anche a metà del XX secolo un elemento fondamentale per comprendere le dinamiche che innescano profondi cambiamenti nei consumi è l’aspetto demografico. La generazione del dopoguerra dà vita al baby boom, un piccolo sconvolgimento demografico, che porta a un rapido aumento della popolazione (in Italia ci sono 47,5 milioni di abitanti nel 1951, oltre 54 milioni nel 1971) e soprattutto a una crescita delle classi d’età più giovani, bambini e ragazzi. In effetti, come ci avverte Massimo Livi Bacci, siamo di fronte a una nuova fase nell’andamento demografico novecentesco: con la Seconda guerra mondiale si chiude un primo periodo, caratterizzato dall’alta mortalità seguita al primo conflitto, dalla fine delle grandi emigrazioni transoceaniche e dall’isolamento demografico. Questa seconda fase vede invece un incremento demografico, complice la crescita economica dei paesi occidentali e la ripresa delle migrazioni interne e internazionali, soprattutto intereuropee; si chiuderà agli inizi degli anni Settanta, con una nuova stagnazione demografica7. Per intanto, nel quarto di secolo seguito alla Seconda guerra mondiale, la mortalità continua a declinare, e per un paio di decenni il tasso di fertilità inverte la sua costante discesa8. Questo non solo consente un aumento della popolazione, ma segna anche un significativo incremento nella speranza di vita (altro indicatore dei migliorati standard di vita): nel 1970 in Italia si vive 72,1 anni, appena meno che in Francia, ma più che in Germania e Gran Bretagna – mentre per tutto il secolo la speranza di vita in Italia era stata decisamente più bassa, rispecchiando fedelmente il divario nelle condizioni socio-economiche9. Ed è significativo notare come il miglioramento risulti più marcato per le donne che per gli uomini10.
L’altro importante fenomeno demografico, come detto, è la ripresa dei flussi migratori. Certo, non si tratta più delle imponenti migrazioni di inizio secolo: ora ci si sposta dal sud al nord, dall’Europa meridionale a quella settentrionale (Germania in testa) e anche, in paesi con una frattura economica interna come Italia e Spagna, dalle regioni più povere a quelle più industrializzate. L’emigrazione infatti è indotta dal boom industriale che, nella sola Italia, spinge 1,7 milioni di persone ad abbandonare le campagne per cercare occupazione nelle fabbriche o nel piccolo commercio (l’attività agricola precipita nel giro di una generazione: in vent’anni gli agricoltori calano da 8 a 3 milioni)11. Tutto ciò comporta un mutamento nel profilo demografico dell’italiano medio, che ha un’immediata ricaduta sui consumi. La presenza di giovani e di nuove coppie che si sposano, hanno figli, creano una famiglia nucleare, vivono in luoghi geografici lontani dalla famiglia originaria e si spostano con facilità, dà vita a una forte domanda di beni di consumo. Ci sono dunque le premesse sociali per un mutamento nella struttura dei consumi.
Non è ancora tutto. Inestricabilmente legato ai fattori economici e sociali, c’è il cambiamento culturale. Gli anziani dell’epoca si guardavano intorno perplessi. Migliaia di persone avevano abbandonato il consueto orizzonte rurale per venire a contatto di colpo con inusuali spazi geografici e una cultura urbana molto differente; all’interno della famiglia, iniziavano a ridefinirsi i ruoli, in base al genere e all’età; l’improvvisa affluenza rimescolava gli antichi confini di classe e di status; le tradizionali istituzioni erano sempre meno fonte di legittimazione e riferimento a confronto dei nuovi mass media; strani oggetti di consumo apparivano ogni giorno e il significato del loro uso era mutevole. Ma quello che dava più fastidio era che, dopo i duri anni della ricostruzione all’insegna del risparmio, si era diffusa come una malattia, una febbre, una diffusa aspettativa, per cui ora tutti erano convinti che la loro condizione potesse migliorare, che potevano avere un’esistenza più prospera, una vita piena di «cose». Era un sogno che veniva da lontano, dall’America; era come in un racconto di Moravia, dove la famiglia di un funzionario a riposo un giorno scopre in un negozio una merce nuova:
Ora la merce la vedevano chiaramente: felicità. I tre Milone, come tutta la gente di questo mondo, avevano sempre sentito parlare di questa merce ma non l’avevano mai vista.
Se ne discorreva in giro come di qualche cosa di molto raro, di una rarità addirittura leggendaria, quasi dubitando che esistesse realmente. È vero che le riviste in rotocalco pubblicavano ogni tanto lunghi articoli, corredati di fotografie, in cui si diceva che la felicità agli Stati Uniti era, se non comune, per lo meno accessibile; ma si sa, l’America è lontana e i giornalisti ne inventano tante. [...]
Nelle vetrine [...] le felicità, come tante uova pasquali, si presentavano in ordine di grandezza, per tutte le borse. Ce n’erano di piccole, ce n’erano di mezzane, ce n’erano di gigantesche, forse finte, messe lì per réclame. Ogni felicità aveva il suo bravo cartellino col prezzo scritto in elegante corsivo. [...]
«Eh, perché», disse il vecchio con stizza, «dopo anni e anni che ci dicono che in Italia non c’è la felicità, che ne manchiamo, che costa troppo per importarla... ecco che tutto ad un tratto aprono addirittura un negozio dove non si vende altro. [...] ...ma sai cosa vuol dire importare? Vuol dire spendere valuta pregiata... quella valuta che dovrebbe servirci a comprare il grano... il Paese crepa di fame... abbiamo bisogno di grano... nossignore... quei pochi dollari che riusciamo a racimolare li spendiamo per comprare questa roba, questa felicità! [...]
«Ma anche di felicità c’è bisogno», osservò la figlia.
«È una superfluità», rispose il vecchio. «Prima di tutto bisogna pensare a mangiare... prima il pane, poi la felicità... ma già questo è il Paese del controsenso: prima la felicità e poi il pane...»12.
Nell’Italia del miracolo economico era venuta l’ora di «comprare» la felicità. Magari per via della diffusione di un modello di benessere individualistico, dove il consumo privato è il vero segno del successo e dell’integrazione sociale (come avveniva appunto in America); o magari perché le premesse culturali di un consumo di massa erano state già poste durante il fascismo, senza che ci fossero i mezzi per il loro effettivo appagamento.
Ma, più prosaicamente, cosa comprano gli italiani? Si può parlare di miracolo rispetto ai consumi? Non c’è dubbio. Basta una cifra a sintetizzare la situazione: i consumi privati pro capite impiegano sessantasei anni per raddoppiare (dal 1890 al 1956), ma bastano solo altri quattordici anni per raddoppiare nuovamente13. In termini complessivi, la spesa per i consumi era di oltre 10.000 miliardi nel 1950, sfiora i 30.000 nel 1970: un salto enorme, che consente ai consumi di crescere a ritmi record, pur restando al di sotto di quelli di reddito nazionale lordo e investimenti (fatto, questo, che riduce la propensione al consumo e favorisce l’accumulazione e lo sviluppo)14. E tutto ciò sullo sfondo di prezzi stabili e di aumenti nella produttività che consentono, insieme, un incremento nel potere di acquisto dei consumatori e nei profitti industriali.
All’interno di questa crescita dei consumi, assistiamo a uno sconvolgimento degli schemi dominanti. Per la prima volta, le spese alimentari non assorbono più la gran parte delle risorse disponibili e scendono ben al di sotto della metà (nel 1970 sono il 44 per cento del totale). Ma soprattutto la dieta cambia profondamente. In sostanza, salgono un po’ tutti i cibi, con significative eccezioni: scendono gli alimenti «poveri», come il risone, i legumi secchi (a favore di quelli freschi), il lardo e lo strutto (a favore di burro e olio), la carne ovina e caprina; salgono, anzi esplodono, i consumi di alimenti «ricchi», prima troppo costosi e riservati alle élite. Rispetto agli anni Trenta, raddoppiano tutti i prodotti caseari (latte e formaggio) e le uova; cresce il consumo di vino e ancor più quello di birra, ma soprattutto salgono tre prodotti simbolo: la carne bovina, lo zucchero e il caffè. Il consumatore medio del 1970 ha finalmente davanti a sé un’alimentazione ricca e variata. Lascia da parte i miseri ingredienti del passato, ma non per questo rinuncia ad alcuni alimenti che caratterizzano la tradizione culinaria italiana e consuma in un anno 173 chili di frumento e 47 chili di pomodori. Se sono abbastanza presenti sulla sua tavola legumi freschi e patate (rispettivamente, 10 e 45 chili), egli si butta decisamente sulla carne: 36 chili all’anno, di cui 25 bovina (erano 8-9 nel fascismo) e 11 suina, accompagnati da 11 chili di formaggio, 11 di uova e 67 litri di latte (poco pesce: 7 chili annui). Tutte cifre semplicemente impensabili fino a un paio di decenni prima. Ha poi scoperto la passione dei condimenti, tanto da usare abbondantemente olio (11 litri d’oliva e quasi altrettanti della novità degli oli di semi) e burro (2 chili). Il tutto accompagnato da 114 litri di vino, sempre la bevanda nazionale, poiché la birra arriva a un decimo. Ma soprattutto ha dato sfogo alla sua passione per il caffè e i dolci: la tazzina fa consumare 3 chili di caffè all’anno (non si raggiungeva il chilo nel fascismo e il mezzo chilo a inizio secolo) e lo zucchero arriva a 28 chili annui (quattro volte più che durante il regime, dieci volte più che nel primo Novecento) (Tab. 1). È un consumatore che apprezza una dieta ricca e variata, con molti alimenti dolci e calorici, e con un alto consumo di prodotti freschi. Insomma, una vera e propria trasposizione alimentare dell’abbondanza e dello sfrenato ottimismo degli anni del miracolo economico.
Ma cosa fa il nostro consumatore dei soldi restanti? La percentuale di spesa per il vestiario e le calzature resta intorno al 9 per cento, e un andamento simile hanno le spese per la casa, intorno al 12 per cento, del totale. In crescita troviamo invece gli «altri» consumi: i trasporti e le comunicazioni (10 per cento), i beni durevoli (6 per cento), le spese per igiene e salute (8 per cento) e altri beni e servizi (11 per cento). Ecco qui un altro scorcio della crescita. La triade dei consumi di base appare for...

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