Wonderland
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La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd

Alberto Mario Banti

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La cultura di massa da Walt Disney ai Pink Floyd

Alberto Mario Banti

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La storia della cultura di massa del Novecento è un campo sterminato. Fare di esso un unico racconto – attraversato dalle musiche, dal cinema, dalla televisione, dalla letteratura e dalle tendenze giovanili – e orientarlo leggendone le linee di tendenza fondamentali, è l'impresa colossale di Alberto Mario Banti. Saverio Esposito, "Alias - il manifesto"

Wonderland, la cultura mainstream, non è una realtà immaginaria; al contrario, è una realtà corposa e immensa nella quale viviamo. Un fine storico della cultura ci aiuta a esplorarla negli Stati Uniti, il paese dove gode da quasi un secolo di un'inesauribile e lussureggiante vitalità. Emilio Gentile, "Il Sole 24 Ore"

Cos'è Wonderland? È la cultura di massa americana: daI tre porcellini di Walt Disney a Via col vento, da Tarzan ai supereroi, da Frank Sinatra a John Wayne. Ma è anche la controcultura di massa, animata soprattutto dalla musica rock, Bob Dylan, i Beatles, i Pink Floyd, e poi il 'nuovo cinema' di Hollywood, da Easy Rider a Il laureato, fino alla nuova produzione teatrale di Broadway. La sua storia ci consente di comprendere le eredità che solcano ancora l'immaginario dell'Occidente contemporaneo.

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III.
Contronarrazioni in musica:
blues, hillbilly, folk

1. La «Anthology of American Folk Music»

Nel 1952 la Folkways Records, una piccola casa discografica newyorchese fondata nel 1948 da Moses Asch e Marian Distler, pubblica la Anthology of American Folk Music, una specie di monumento discografico al folk americano in sei LP, per un totale di 84 brani. La raccolta, curata da Harry Smith, comprende incisioni registrate tra il 1927 e il 1932 e affianca brani che al momento della loro pubblicazione originaria sono destinati a sezioni di pubblico completamente diverse. La Carter Family, per esempio, è una band composta da tre musicisti bianchi (un uomo e due donne), che negli anni precedenti alla seconda guerra mondiale si sono conquistati il titolo di star della hillbilly music (questa la definizione, inizialmente senz’altro spregiativa, della musica che dagli anni Quaranta è conosciuta come country, o country & western1). Insieme ai loro, la Anthology contiene i brani di numerosi altri musicisti hillbilly, tra cui, per esempio, Prince Albert Hunt o Eck Robertson, autori di musiche da ballo eseguite prevalentemente con il fiddle (violino). Ma non ci sono solo pezzi hillbilly o folk eseguiti da bianchi. La raccolta contiene anche canzoni di Blind Lemon Jefferson, di Mississippi John Hurt e di diversi altri musicisti blues afroamericani, da Charley Patton a Furry Lewis, da Sleepy John Estes a Blind Willie Johnson. Inoltre la Anthology fa spazio anche a brani gospel, eseguiti dal Rev. J.M. Gates o dal Rev. F.W. McGee, predicatori e musicisti afroamericani2.
Un’operazione come quella compiuta con la Anthology sarebbe impensabile prima della seconda guerra mondiale, giacché in quel periodo i segmenti del mercato musicale, a cui fanno riferimento i diversi stili documentati da Harry Smith, sono rigorosamente segregati. La musica hillbilly – cantata o strumentale – è eseguita esclusivamente da musicisti bianchi per un pubblico bianco. Viceversa la musica blues e quella gospel sono eseguite da musicisti neri per un pubblico nero. Tra anni Venti e anni Quaranta, interscambi di mercato, essenzialmente, non ce ne sono. Ci sono, però, molte e profonde influenze reciproche, giacché – indipendentemente dalle pratiche sociali e dalla struttura del mercato discografico – molti nessi legano i diversi stili documentati nella Anthology sia dal punto di vista musicale che dal punto di vista poetico.
Peraltro, la costellazione folk statunitense non si esaurisce con la musica hillbilly, blues o gospel, ma comprende almeno un’altra importante declinazione, ovvero il folk sindacale e di protesta. Il progetto originario di Harry Smith prevedeva tre ulteriori raccolte, da aggiungere alla Anthology, che avrebbero dovuto documentare gli sviluppi del folk americano dal 1890 fino agli anni Cinquanta3. Questa parte del lavoro, alla fine, non si è realizzata: e chissà se Smith avrebbe incluso in questi tre volumi supplementari anche le canzoni folk più militanti, per esempio quelle di Woody Guthrie o Huddie «Leadbelly» Ledbetter4. Nel caso la cosa si fosse verificata, non sarebbe stato strano vedere queste musiche al fianco di brani hillbilly, gospel e blues, perché la rete intertestuale del folk statunitense abbraccia anche aspetti fondamentali del canzoniere di protesta che si sviluppa dall’inizio del XX secolo sino agli anni del New Deal e della seconda guerra mondiale. Tutte queste diverse musiche sono infatti legate tra loro da prestiti, scambi, calchi che riguardano sia la forma musicale e poetica, sia i contenuti narrativi. Tali connessioni sono importanti poiché disegnano un orizzonte che non ha quasi niente in comune con i valori della cultura di massa mainstream, tanto da tracciare le coordinate di un sistema etico quasi integralmente «altro». Per esplorare questo reticolo contronarrativo dobbiamo però abbandonare il 1952 e la Anthology of American Folk Music per ritornare ai decenni precedenti alla seconda guerra mondiale, quando i variegati panorami espressivi di queste musiche emergono e si ritagliano un loro spazio all’interno della cultura di massa statunitense.

2. Da New Orleans a Chicago

Nel 1897 un consigliere comunale di New Orleans, Sidney Story, redige l’ordinanza che intende isolare un’area della città entro il perimetro disegnato da Iberville Street, Basin Street, St. Louis Street e North Robertson Street, per riservarla all’esercizio della prostituzione. Il 6 luglio di quell’anno il consiglio comunale approva e si forma così quella che viene popolarmente chiamata Storyville, il quartiere a luci rosse della città. Il quartiere, posto vicino alla stazione, ci mette poco a prosperare e a diventare una notevole attrazione cittadina: i visitatori possono trovare bordelli di livello e prezzi diversi, e in quelli migliori si può ascoltare una strana nuova musica, suonata anche altrove in città, ed eseguita inizialmente solo da musicisti neri, poi anche da bianchi. La vita del quartiere dura sino al 1917, quando il Secretary of Navy – una sorta di ministro della Marina – ne impone la chiusura, in ragione dei presunti effetti demoralizzanti che le attività del quartiere avrebbero avuto sulle truppe. Da allora in avanti molti dei musicisti che vi suonavano cercano lavoro altrove: da un lato si dirigono nelle città dove esistono grosse comunità afroamericane, che in genere mostrano di apprezzare quel tipo di musica (come Memphis o Kansas City); dall’altro seguono i flussi migratori che stanno portando molti afroamericani del Sud a Filadelfia, Detroit, New York (Harlem) e Chicago (South Side), dove spesso continuano a suonare in quartieri e locali malfamati5. Il 1917 è anche l’anno della prima incisione discografica di un gruppo che nel proprio nome esibisce il termine che finirà per designare stabilmente quel particolare genere musicale: in quell’anno la Original Dixieland Jass Band, un gruppo di musicisti bianchi, incide con la Victor due facciate di un disco a 78 giri, Dixieland Jass Band One-Step e Livery Stable Blues, che riscuote un grande (e – agli occhi dei discografici bianchi – inaspettato) successo presso il pubblico afroamericano6. «Jass» (poi ben presto jazz) è un verbo/sostantivo originariamente diffusosi a Chicago nel 1915 che vuole dire «scopare/scopata»7. Come spesso accade, anche in questo caso un termine dal significato volgare e un po’ dispregiativo si capovolge nel suo contrario, per diventare una sorta di positiva bandiera identitaria che finisce per indicare non solo il nuovo stile musicale, ma persino l’intera atmosfera socioculturale degli anni successivi alla Grande Guerra (è del 1922 Tales of the Jazz Age [Racconti dell’età del jazz], di Francis Scott Fitzgerald, che proietta il termine «jazz» ben al di là dei suoi confini musicali).
Molta della musica jazz sin dall’inizio mostra caratteristiche strutturali che la distanziano radicalmente dalla tradizione della musica occidentale a cui appartengono sia la più sofisticata musica classica, sia le produzioni di Tin Pan Alley, ovvero le canzoni pop che all’epoca sono di gran moda tra la maggior parte del pubblico bianco statunitense8. Nella tradizione occidentale, la musica è rigorosamente scritta; gli accenti ritmici e gli strumenti percussivi sono marginali o del tutto banditi; agli esecutori e agli ascoltatori è richiesta una rigida e distinta compostezza; e le musiche da ballo incoraggiano figurazioni standard ottenute attraverso una rigorosa disciplina dei movimenti corporei. Le musiche delle comunità afroamericane, invece, e tra queste il jazz, seguono criteri completamente diversi: nascono dall’improvvisazione e di conseguenza non hanno bisogno di notazioni musicali se non, eventualmente, per i riff, ovvero le cellule melodiche fondamentali che nel jazz introducono le sezioni improvvisate; possiedono scansioni e strumentazioni ritmiche che hanno un ruolo centrale nell’architettura complessiva del suono; si sviluppano spesso attraverso una dialettica antifonale affidata al dialogo tra gli strumenti o tra le voci (call and response); consentono una libera performatività corporea sia agli esecutori che agli ascoltatori e accompagnano danze che sono anch’esse più aperte all’improvvisazione e che si fondano su figurazioni corporee più fantasiose e libere da costrizioni rispetto a quelle proprie delle danze occidentali9.
La musica jazz, che possiede tutte queste caratteristiche, nel primo dopoguerra si diffonde soprattutto come musica strumentale da ballo, adatta a forme coreutiche nuove, come il charleston, che si impongono sia tra i giovani delle comunità afroamericane, sia...

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