Prima lezione sulla giustizia penale
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Prima lezione sulla giustizia penale

Glauco Giostra

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Prima lezione sulla giustizia penale

Glauco Giostra

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Giudicare: un compito necessario e impossibile. Necessario perché una società non può lasciare senza conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza. Impossibile perché non possiamo mai avere la certezza di riuscire a conseguire la verità. Da questa contraddizione nasce l'esigenza di stabilire un itinerario conoscitivo, il 'processo', ritenuto il metodo meno imperfetto per pronunciare una decisione giusta, che siamo disposti ad accettare pro veritate.

Una preziosa riflessione sul processo penale che ne analizza l'irrinunciabile funzione sociale, le scelte epistemologiche qualificanti, gli snodi fondamentali, le distorsioni della sua rappresentazione mediatica.

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Information

Year
2020
ISBN
9788858140987

III.
Le strutture portanti
dell’attuale processo penale

1. Riflessi della scelta metodologica
sulla struttura del procedimento

L’opzione epistemologica del contraddittorio nella formazione della prova effettuata dal codice di procedura, prima, e ribadita dalla riforma costituzionale, poi, non poteva non riflettersi in modo penetrante sulle strutture processuali e sulle prerogative funzionali dei protagonisti del processo. Se, ad esempio, nel codice Rocco del 1930 la fase iniziale del procedimento penale era significativamente denominata ‘istruzione’ perché in effetti preparava quella del giudizio, consentendone anche una sostanziale traslazione dei risultati, nell’attuale codice di rito l’omologo stadio procedimentale prende il nome di ‘indagine preliminare’, ad indicarne la mera propedeuticità temporale e funzionale rispetto al giudizio, che – non meno significativamente – ha il suo “cuore pulsante” nell’istruzione dibattimentale. Se, ad esempio, nel codice previgente esisteva la figura del giudice istruttore, che teneva le redini dell’istruzione formale riservata alle indagini più complesse, nell’attuale è il p.m. ad avere il governo delle indagini e il giudice per le indagini preliminari, privo di qualsiasi potere inquirente, interviene soltanto su sollecitazione delle parti. Se, ad esempio, nel codice previgente il giudice istruttore doveva compiere gli atti «necessari per l’accertamento della verità» (art. 299 c.p.p. 1930), nell’attuale il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono le indagini «necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale» (art. 326 c.p.p.). Se allora, ad esempio, il difensore dell’imputato avvicinava una persona informata sui fatti per cercare di sapere quale ricordo ne avesse, rischiava una incriminazione per subornazione del teste, oggi operando in tal modo esercita un diritto.
Insomma, una volta fissato il principio del contraddittorio “poietico”, ciò che si acquisisce durante le indagini attraverso l’attività monologante dell’inquirente non ha alcun pregio probatorio, non concorre ad accertare nessuna verità, ma serve soltanto all’accusa per decidere se esercitare l’azione penale, e alla difesa per imbastire una strategia di resistenza. Nel sistema odierno tra la fase delle indagini e quella del giudizio si erge una diga (il c.d. principio di separazione delle fasi) ad impedire il riversamento delle risultanze investigative della prima nella seconda, salvo eccezionali “cateratte” normative, che esamineremo più avanti.
A tal punto il legislatore ha inteso chiarire che gli elementi di conoscenza rinvenuti nel corso delle indagini non sono assimilabili alle prove, che quando il mezzo di acquisizione dell’atto di indagine è strutturato come quello della prova (ad esempio: attività di riconoscimento da parte di un testimone oculare; interpello orale secondo lo schema “domanda-risposta”; esperimento tecnico-specialistico) si è fatto carico di contrassegnarli con nomi diversi. Così il riconoscimento effettuato durante le indagini viene denominato individuazione, quello operato in dibattimento, ricognizione; le informazioni assunte da persone che possono riferire circostanze utili, se assunte in dibattimento diventano testimonianze; gli accertamenti tecnici diventano perizie. Gli esempi tratti dall’onomastica processuale potrebbero continuare, ma qui ci interessa porre in evidenza l’attenzione riposta dal legislatore nel rimarcare, anche a livello nominalistico, il differente valore di atti strutturalmente simili: in linea generale, gli atti di indagine servono alle parti per le loro determinazioni, le prove servono al giudice per decidere.
Vedremo presto, mano a mano che il nostro “drone” scenderà sulle strutture del processo, come questa affermazione, pur corretta, abbisogni di più di una messa a punto. Ma, per quante siano le deroghe alla regola aurea della formazione dialettica della prova, è importante avere piena consapevolezza del suo significato e delle sue implicazioni. Importante, per disporre della più proficua chiave di lettura del sistema e per averne una prima intelligenza d’insieme. Importante, soprattutto a livello esegetico, poiché, secondo un fondamentale canone interpretativo, le disposizioni che hanno natura eccezionale non possono essere applicate, per analogia, a casi simili. Quando è chiamato ad acquisire al processo un atto formato senza contraddittorio, il giudice deve verificare che si versi in una delle deroghe costituzionalmente ammesse (art. 111 comma 5 Cost.) e, in caso di esito negativo, escludere quell’elemento dal paniere delle prove su cui fondare la propria decisione. Ove poi una norma prevedesse una deroga al di fuori dei casi ammessi dalla Costituzione, il giudice sarebbe tenuto a sollevare una questione di legittimità dinanzi alla Consulta.

2. L’itinerario e la toponomastica processuale

Nel suo modulo ordinario, il procedimento penale si articola in tre fasi: indagini preliminari, udienza preliminare e giudizio (che a sua volta può conoscere anche un grado di appello e un grado di cassazione). Al termine di ciascuna fase il rito si trova dinanzi ad un bivio: da una parte un provvedimento con formula conclusiva, che avrà una stabilità tanto maggiore quanto più si sarà andati avanti nel procedimento; dall’altra un provvedimento propulsivo che ne dispone la prosecuzione con ingresso nella fase successiva.
Prima di incamminarci per i complessi itinerari della giustizia penale, sia pure a grandi passi come si conviene a questa Prima lezione, è estremamente utile dotarsi di una mappa toponomastica. Conviene dunque attivare una sorta di “navigatore processuale” che ci consenta di abbracciare a colpo d’occhio le diverse vie che il procedimento può percorrere, apprendendone nomi, caratteristiche basilari, sbocchi.
Il procedimento penale prende avvio da una notizia di reato, cioè da un’informazione concernente l’accadimento di un fatto di cui si presume la rilevanza penale, non necessariamente attribuito ad una persona determinata. Il pubblico ministero e la polizia giudiziaria possono acquisire la notitia criminis di propria iniziativa (dalla lettura di un articolo di giornale o dalla percezione diretta di indizi) ovvero ricevere atti che la veicolano (si pensi alla denuncia o alla querela). Con l’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro prende avvio la fase delle indagini preliminari, che ovviamente può avere una durata molto variabile a seconda della complessità del caso, ma che comunque non può superare i termini previsti per legge o prorogati dal giudice per le indagini preliminari. Alla fine di questa fase si pone l’alternativa tra richiesta di archiviazione della notizia di reato oppure esercizio dell’azione penale. Questa seconda è opzione insindacabile del p.m., mentre il provvedimento di archiviazione deve essere chiesto ad un giudice, chiamato ad accertare che con simile scelta processualmente “abortiva” il pubblico ministero non si sottragga al suo obbligo costituzionale di esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.), nonostante la sussistenza dei presupposti.
Nel modulo processuale ordinario, la richiesta di rinvio a giudizio è l’atto con cui il pubblico ministero esercita l’azione penale, imputando un fatto ritenuto penalmente rilevante ad un soggetto determinato, che da indagato diviene appunto imputato. La richiesta di rinvio a giudizio incerniera la prima fase del procedimento, l’indagine preliminare, alla seconda fase del procedimento, l’udienza preliminare, con la quale, nella semantica del codice, prende avvio il processo in senso stretto, che si conclude sempre con una sentenza.
L’udienza preliminare è uno stadio processuale che fa da “cuscinetto” tra le indagini e il giudizio, funzionale alla verifica dell’effettiva utilità di questo. Può terminare con una sentenza di non luogo a procedere o con il decreto che dispone il giudizio. Questo provvedimento, che costituisce l’anello di congiunzione tra la seconda (udienza preliminare) e la terza fase (giudizio), contiene l’accusa definitiva su cui, salvo modifiche in dibattimento, deve pronunciarsi la sentenza di merito.
In sintesi, e per definire il possibile “compasso temporale” del procedimento penale: l’alfa è la notizia di reato, l’omega può essere il provvedimento di archiviazione (nel qual caso il procedimento non diviene processo), o la sentenza di non luogo a procedere (nel qual caso non si celebra il dibattimento) o la sentenza emessa a seguito del dibattimento, che dei tre è l’unico provvedimento suscettibile di passare in giudicato, una volta divenuta irrevocabile.
2.1. I procedimenti speciali. Quello brevemente tratteggiato è il modulo ordinario e, a rigore, dovrebbe essere anche l’unico: infatti, se ve ne fosse un altro in grado di consentire risparmi di tempo, di attività, di risorse strutturali ed umane, senza risultare meno affidabile dal punto di vista cognitivo, non vi sarebbe ragione per non adottarlo. Ineludibili esigenze di economia, però, hanno imposto al nostro ordinamento – come a molti altri – di prevedere procedure semplificate, perché altrimenti il sistema imploderebbe. Sono stati quindi disciplinati procedimenti speciali, cioè percorsi processuali che omettono o la seconda fase (l’udienza preliminare) o la terza (il dibattimento), o entrambe, naturalmente in presenza di presupposti (modesta gravità del presunto reato, evidenza probatoria, consenso delle parti, ecc.) che riducono plausibilmente al minimo le controindicazioni dell’amputazione prevista1. Possiamo limitarci, in questa sede, solo ad alcune essenziali notazioni.
Bypassano l’udienza preliminare, immettendo direttamente nel dibattimento, il giudizio direttissimo e il giudizio immediato, in genere praticabili in presenza di una evidenza probatoria della colpevolezza che depone per l’inutilità del filtro operato in tale udienza avverso le accuse infondate o vistosamente malferme2.
Sono procedimenti speciali che escludono la fase dibattimentale il giudizio abbreviato e quello di applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento), mentre è privo anche dell’udienza preliminare il procedimento per decreto penale di condanna. La rilevante particolarità di questa seconda famiglia di riti speciali è costituita dal fatto che con essi si perviene ad una pronuncia di merito sulla base degli atti di indagine, vale a dire senza disporre di prove in senso proprio. La rotta di collisione con il principio costituzionale che, come sappiamo, pretende che gli elementi di convincimento per giudicare siano formati in contraddittorio, si ritiene evitata per il fatto che l’accesso a questi riti è subordinato alla richiesta o al consenso dell’imputato, espresso anche nella forma della non opposizione. Come si ricorderà, il consenso dell’imputato rappresenta una delle deroghe costituzionalmente ammesse alla formazione dialettica della prova.
Tuttavia, non sfugge la differente significatività, sotto il profilo epistemologico, del prestare esplicito consenso all’utilizzo con valore probatorio di un atto di indagine formato dalla controparte rispetto alla richiesta o all’accettazione implicita di essere giudicato sull’intero compendio delle risultanze investigative senza poter discernere tra di esse. Nel primo caso, il fatto che una parte acconsenta all’uso di un atto formato dall’avversario assicura indirettamente che il contraddittorio risulti, rispetto a quel determinato atto di indagine, uno strumento cognitivamente inutile; nell’altro, l’adesione ad uno schema processuale che comporta l’accettazione ad essere giudicati sulla base di atti formati unilateralmente non implica, o almeno quasi mai implica, una prognosi di inutilità della formazione in contraddittorio di tutte le prove, assumendo più il sapore di una permuta: l’accettazione di una procedura meno garant...

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