Debre Libanos 1937
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Debre Libanos 1937

Il più grave crimine di guerra dell'Italia

Paolo Borruso

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Il più grave crimine di guerra dell'Italia

Paolo Borruso

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Tra il 20 e il 29 maggio 1937 ebbe luogo, in Etiopia, il più grave eccidio di cristiani mai avvenuto nel continente africano: nel villaggio monastico di Debre Libanos, il più celebre e popolare santuario del cristianesimo etiopico, furono uccisi circa 2000 tra monaci e pellegrini, ritenuti 'conniventi' con l'attentato subito, il 19 febbraio, dal viceré Rodolfo Graziani. Fu un massacro pianificato e attuato con un'accurata strategia per causare il massimo numero di vittime, oltrepassando di gran lunga le logiche di un'operazione strettamente militare. Esso rappresentò l'apice di un'azione repressiva ad ampio raggio, tesa a stroncare la resistenza etiopica e a colpire, in particolare, il cuore della tradizione cristiana per il suo storico legame con il potere imperiale del negus. All'eccidio, attuato in luoghi isolati e lontani dalla vista, seguirono i danni collaterali, come il trafugamento di beni sacri, mai ritrovati, e le deportazioni di centinaia di 'sopravvissuti' in campi di concentramento o in località italiane, mentre la Chiesa etiopica subiva il totale asservimento al regime coloniale. L'accanimento con cui fu condotta l'esecuzione trovò terreno in una propaganda (sia politica che 'religiosa') che andò oltre l'esaltazione della conquista, fino al disprezzo che cominciò a circolare negli ambienti coloniali fascisti ed ecclesiastici nei confronti dei cristiani e del clero etiopici, con pesanti giudizi sulla loro fama di 'eretici', scismatici. Venne a mancare, insomma, un argine ad azioni che andarono oltre l'obiettivo della sottomissione, legittimate da una politica sempre più orientata in senso razzista. I responsabili di quel tragico evento non furono mai processati e non ne è rimasta traccia nella memoria storica italiana. A distanza di ottant'anni, la vicenda riappare con contorni precisi e inequivocabili che esigono di essere conosciuti in tutte le loro implicazioni storiche.

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Information

Year
2020
ISBN
9788858141083

I.
L’Etiopia sotto assedio

1. La propaganda del disprezzo

La guerra di aggressione all’Etiopia fu preceduta da un’imponente strategia di ricerca del consenso sia sul piano diplomatico sia su quello dell’opinione pubblica. Il casus belli riguardò l’incidente frontaliero presso i pozzi di Ual Ual, al confine tra Etiopia e Somalia italiana, area rivendicata dall’Etiopia da almeno un decennio, dove il 5 dicembre 1934 uno scontro a fuoco fra truppe italiane ed etiopiche diede a Mussolini il pretesto per un’aggressione in grande stile, motivandola come risposta ad una «provocazione» inaccettabile1. Alla fine del mese, Mussolini avviò una mobilitazione militare senza precedenti nelle colonie confinanti della Somalia e dell’Eritrea, consegnando ai suoi collaboratori un promemoria dattiloscritto, dal titolo Direttive e piano d’azione per risolvere la questione italo-abissina, in cui motivava l’aggressione con l’esigenza di risolvere definitivamente un «problema storico», riscattando finalmente quella vergogna nazionale subita con la sconfitta di Adua del 18962. La guerra si andò prefigurando con caratteri moderni e dimensioni molto più larghe e massicce delle tradizionali guerre coloniali e anche di quelle previste dal piano De Bono del 19323. In pochi mesi, gli effettivi militari trasferiti in Africa orientale raggiunsero all’incirca il mezzo milione di uomini (una cifra equiparata o superata solo dai francesi nella guerra d’Algeria del 1954-1962 e dagli americani in quella del Vietnam del 1965-1973), mentre i materiali, compresi gli animali da soma e da combattimento, e gli armamenti bellici si attestarono attorno ai tre milioni di tonnellate4.
La volontà di conquista, tuttavia, andava a toccare i delicati equilibri internazionali sorti dalla Grande Guerra, poiché infrangeva le norme statutarie della Società delle Nazioni, che proibivano il ricorso al conflitto tra Stati membri, com’erano l’Italia e l’Etiopia. Occorreva dunque fare i conti con le cancellerie europee, in primis quelle di maggior peso come Parigi e Londra, per assicurarsene l’approvazione o, almeno, la neutralità. Infine la congiuntura internazionale favorì l’appoggio dell’Inghilterra e della Francia, le quali, benché per ragioni diverse, lasciarono al duce libertà d’azione5.
Soprattutto, si trattò di una guerra – secondo gli auspici del duce – a tutti gli effetti «nazionale», i cui obiettivi convergevano sulla sconfitta definitiva dell’avversario e sulla sua sottomissione. A questo scopo, occorreva renderla «popolare», fornendo agli italiani motivazioni convincenti attraverso una macchina propagandistica mai azionata prima, favorita dai nuovi mezzi che la tecnica aveva messo a punto. Benché già sperimentato parzialmente in occasione della prima guerra d’Africa del 1896, e in modo più massiccio con la conquista della Libia del 1911 e la Grande Guerra del 1915-1918, l’elemento propaganda fu fondamentale per convogliare gli italiani attorno a quella che Mussolini intendeva presentare come una «guerra nazionale» per «vendicare» l’onta di Adua6.
A partire dal ’34, tutte le istituzioni e gli enti del regime si impegnarono nella campagna di propagazione per affermare le prospettive di una conquista giusta e necessaria. A distinguersi in questa strategia fu, in particolare, l’Ufficio stampa del capo del governo, diretto da Galeazzo Ciano, la cui azione fu tanto consistente da acquisire funzioni istituzionali più definite, divenendo nel giugno ’35 ministero per la Stampa e la Propaganda e, nel maggio ’37, ministero della Cultura popolare (Minculpop).
Attraverso gli strumenti della propaganda – principalmente la stampa, ma particolarmente incisive furono anche la radio e i cinegiornali LUCE –, i risvolti dolorosi e tragici del conflitto, con le sue violenze e le sue perdite di vite umane, trovarono una sublimazione «epica», che riuscì a creare un sentimento di entusiasmo collettivo e di forte appartenenza nazionale. Temi dominanti della propaganda furono la missione civilizzatrice nei confronti di un’Etiopia barbara e schiavista e l’espansione della civiltà cristiana7. Soprattutto, le rappresentazioni riprendevano vecchi stereo­tipi e retaggi propri dell’esperienza coloniale, non solo italiana: l’Africa esotica e misteriosa, gli africani ingenui bambini o crudeli selvaggi, la donna africana in attesa del bianco civilizzatore, e non ultimo il missionario cattolico. A differenza del colonialismo in età liberale, il fascismo impresse a tali percezioni un orientamento fortemente razzista, in cui netto era il contrasto tra un colonizzatore idealizzato e i colonizzati vinti, ritratti con sembianze animalesche. A ciò il regime aggiunse un’esaltazione nazionalistica e una simbologia, che fecero presa in molti settori della società italiana, attorno al culto personalistico del duce e all’idea di un destino imperiale dell’Italia. Benché dal ’25 il regime si fosse impegnato per organizzare «una nazione per la guerra», con la formazione di una coscienza militarizzata degli italiani attraverso una rete di centri e comitati, dal ’34 le energie propagandistiche si intensificarono e si concentrarono sul tema del binomio «cittadino-soldato». Le disposizioni del sottosegretario dell’Ufficio stampa e propaganda Galeazzo Ciano mirarono, a partire dal gennaio ’35, a colpire i quotidiani non ancora allineati alle direttive del regime, imponendo di rappresentare l’Abissinia come un paese di straccioni, arretrato e barbaro8.
In questa crescente campagna finì per innestarsi anche la propaganda cattolica. All’Etiopia, sin dai primi decenni dell’Ottocento, si era rivolta l’attenzione del mondo missionario. Qui si era speso l’impegno di Giustino de Jacobis, Giuseppe Sapeto, Guglielmo Massaja, perseguendo l’idea di portarvi il cattolicesimo e riscattarla dall’«eresia» in cui era caduta con la separazione calcedonese del 451 d.C., in vista di un «ritorno» all’unità con la Chiesa di Roma9. La nascita di comunità cattoliche ispirate al modello latino tra popolazioni non cristianizzate (Bogos, Mensa, Galla) aveva suscitato non di rado una percezione ostile fra i cristiani etiopici. Nonostante queste difficoltà, l’azione missionaria aveva teso, lungo l’Ottocento e i primi decenni del Novecento, ad intrattenere relazioni di fiducia con la corte imperiale. Fu la guerra d’Etiopia ad imprimere un drastico cambiamento di opinioni e di approcci. L’incalzante propaganda messa in campo dal regime influì fortemente su molti ambienti del cattolicesimo italiano, circuendoli in un clima di esaltazione nazional-patriottica. La storiografia più recente, a questo proposito, ha messo in luce un panorama complesso di toni e motivazioni, non appiattito tout court sulla legittimità della guerra, ma certo facilmente manipolabile dalla propaganda del regime.
Il caso più noto fu quello dell’omelia tenuta nel duomo di Milano dal cardinal Schuster il 28 ottobre 1935, in occasione dell’anniversario della marcia su Roma, la quale si concludeva con un forte richiamo alla «missione nazionale e cattolica» che animava la guerra appena iniziata:
Cooperiamo pertanto con Dio in questa missione nazionale e cattolica di bene; soprattutto in questo momento in cui, sui campi d’Etiopia, il vessillo d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza le catene degli schiavi, spiana le strade ai Missionari del Vangelo! [...] Pace ai caduti che però spirarono al compimento del dovere, nella Fede e nella grazia di Gesù Cristo. Pace e protezione all’esercito valoroso, che in obbedienza intrepida al comando della Patria, a prezzo di sangue apre le porte di Etiopia alla Fede Cattolica e alla civiltà romana10.
Benché l’impianto dell’omelia avesse radice in una visione spirituale, tesa a «cristianizzare» il fascismo per la restaurazione di un regime di cattolicità, le sue esortazioni per la «redenzione dell’Etiopia dalla schiavitù e dall’eresia» e, soprattutto, quella conclusiva per la «perpetua missione dell’Italia Cattolica e di quella Roma dantesca onde Cristo è Romano» innestavano il mito di Roma «città sacra», terreno di convergenza tra espansione missionaria e prospettiva imperiale11. La sua autorevolezza sulla scena pubblica italiana, ampiamente utilizzata dalla propaganda fascista, suscitò vivaci reazioni di preoccupazione e anche di dissenso nel mondo cattolico francese, olandese e americano. Lo stesso Pio XI – che, con l’enciclica Rerum Ecclesiae del 1926, si era speso per svincolare il rilancio missionario dall’espansionismo delle potenze coloniali – parve ritenere eccessive le espressioni del cardinale, dopo aver disapprovato con un noto discorso del 27 agosto 1935 alle infermiere cattoliche il profilarsi di una guerra in Etiopia12. Riprendendo la svolta di Benedetto XV in merito all’autonomia dell’impegno missionario dall’espansione coloniale, Pio XI avvertì la necessità di nuovi approcci con il mondo extraeuropeo, distanti dalle visioni razziste legate all’esperienza coloniale. In questa prospettiva, negli anni Venti intensificò la sua attenzione nei confronti dell’Etiopia cristiana: convinto che l’antica «separazione» della Chiesa etiopica dovesse risolversi con un atto di riunificazione con Roma, Pio XI aveva ...

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