Voltaire contro Shakespeare
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Voltaire contro Shakespeare

Mara Fazio

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Voltaire contro Shakespeare

Mara Fazio

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La storia del rapporto tra Voltaire e l'ingombrante eredità di Shakespeare che, con il suo genio, pose fine alla tradizione del mondo classico e all'egemonia culturale francese, annunciò il Romanticismo e aprì alla modernità. Un capitolo affascinante della storia della cultura europea.

Voltaire è stato il primo grande intellettuale in senso moderno: l'autore più letto, criticato, discusso ed emulato del suo secolo. Grande ammiratore degli inglesi, della loro libertà di pensiero e delle loro istituzioni, giovane esule, tra il 1724 e il 1728, nei teatri di Londra scoprì Shakespeare, allora in Francia del tutto sconosciuto, e contribuì alla diffusione della sua fama in tutta Europa. Solo pochi decenni dopo però – in concomitanza con la guerra dei Sette anni (1756-1763) vinta dagli inglesi – il successo del poeta inglese in Europa crebbe a dismisura, mettendo in crisi la tragedia, il ruolo della Francia nel mondo e, quindi, lo stesso Voltaire, la cui cultura significava regole, norme, principi e, soprattutto, buon gusto. Shakespeare, invece, che trascendeva i limiti aristocratici, metteva in scena non eroi ma uomini moderni, con un linguaggio ora ricercato ora triviale, unendo tragico e comico, alto e basso, divenne emblema del genio. Pur riconosciuto come il teorico della tolleranza, Voltaire vide vacillare il suo mondo e attaccò il poeta inglese, che considerava un barbaro e il cui sorprendente successo gli parve, a un secolo e mezzo dalla morte, uno scandalo intollerabile. Ma sapeva, dal punto di vista letterario e teatrale, di essere ormai uno sconfitto.

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Information

Year
2020
ISBN
9788858141663

III.
Shakespeare risorto diventa un rivale
(1760-1778)

1. La guerra dei Sette anni, gli inglesi celebrano Shakespeare, Voltaire difende il gusto e la Francia

Sul piano politico il 1759 è un anno orribile per la Francia che in America e in India viene sconfitta dagli inglesi, sempre più padroni dei mari. Il 18 ottobre viene presa Québec. Voltaire, che come tutti i philosophes era contrario alla guerra e alla politica di Luigi XV e aveva sempre considerato sterile e inutile la colonizzazione del Canada, «un paese coperto di nevi otto mesi l’anno, abitato da barbari, orsi e castori», dà provocatoriamente una festa a Ferney e scrive a Mme du Deffand:
Abbiamo avuto l’intelligenza di stabilirci in Canada, in mezzo alle nevi, tra orsi e castori, dopo che gli Inglesi hanno popolato con le loro fiorenti colonie quattrocento leghe dei più bei paesi della terra e, come se non bastasse, veniamo cacciati anche dal nostro Canada. Di tanto in tanto costruiamo ancora qualche vascello per gli Inglesi, ma li costruiamo male e quando si degnano di catturarli, si lamentano che diamo loro dei cattivi velieri1.
In Inghilterra intanto, contemporaneamente alle vittorie militari, risorge la coscienza della propria forza e l’amore per la propria cultura. Poiché si pensava che la lingua inglese giunta al suo apogeo fosse entrata in declino a causa della costante contaminazione con gallicismi, nel 1755 l’intellettuale inglese Samuel Johnson aveva pubblicato A Dictionary of the English Language, noto anche semplicemente come Johnson’s Dictionary2. Lo aveva composto da solo nel giro di nove anni. Fissava la lingua, che fu poi riconosciuta come «buon inglese», e le regole ortografiche, spesso trascurate anche dai gentiluomini. L’influsso del Dizionario è stato travolgente. Nella seconda metà del XVIII secolo ogni famiglia inglese istruita ha avuto, o ha potuto almeno consultare, il grande libro. Se ne è consolidato l’uso in così breve tempo che bastava chiedere «il Dizionario» per vedersi subito recapitare quello di Johnson e nessun altro. «Si chiedeva il Dizionario con la stessa naturalezza che si usava per chiedere la Bibbia»3. La sua influenza non si è limitata alla sola area anglosassone, il dizionario è servito anche come modello per i lessicografi stranieri. Sfidando l’Académie Française, che aveva avuto a disposizione quarant’anni e quaranta studiosi per completare il Dictionnaire de l’Académie Française, Johnson afferma: «Ecco la proporzione. Vediamo, quaranta per quaranta fa milleseicento. Allora come tre sta a milleseicento, così un Inglese sta ad un Francese»4. Nella sua monumentale biografia di Johnson, considerata un capolavoro della cultura inglese, Boswell scrive trent’anni dopo: «Il mondo contemplò con stupore una così stupenda opera realizzata da un uomo solo, mentre in altre nazioni si era pensato che tali imprese erano possibili solo per accademie al completo»5. Samuel Johnson, da tutti chiamato il Dottor Johnson, diventa allora una celebrità6.
Mentre l’Inghilterra si sentiva sempre più forte, i successi inglesi e l’andamento della guerra alimentavano l’insicurezza francese anche di chi, come Voltaire, era pacifista. Se l’Inghilterra era in ascesa in tutti i campi, la Francia era politicamente e militarmente in decadenza. L’unica cosa che le restava, l’unica traccia della sua antica gloria erano, secondo Voltaire, la cultura e la lingua, e andavano strenuamente difese:
Quello che fa il grande merito della Francia, il suo solo merito, la sua unica superiorità, è un piccolo numero di geni sublimi o amabili, che fanno sì che si parli francese a Vienna, a Stoccolma e a Mosca. I vostri ministri, i vostri intendenti, i vostri alti funzionari non hanno niente a che fare con questa gloria7.
La nazione è stata varie volte più infelice di adesso, ma non è mai stata così mediocre8.
Il 16 gennaio del 1760, in una lettera a George Keate – giovane amico inglese dalla «vita piacevolmente oziosa di dilettante colto»9, che aveva conosciuto a Ginevra e con cui intesseva una fitta corrispondenza – Voltaire riafferma la sua ammirazione per gli inglesi, «popolo di guerrieri e di filosofi», ma ribadisce il consueto giudizio su Shakespeare:
Io sono vostro amico, è vero, perché siete un uomo senza pregiudizi, un uomo di tutti i paesi. Se non avessi scelto come luogo del mio ritiro il libero cantone di Ginevra vivrei certamente nel libero regno d’Inghilterra perché, benché io non ami le mostruose irregolarità di Shakespeare pur ammirando nelle sue pièce qualche tratto vivo e perfetto, sono sicuro che non esiste nessuno al mondo che veneri più di voi i vostri buoni filosofi, la folla dei vostri autori e da trent’anni io sono il discepolo della vostra maniera di pensare. La vostra nazione è nello stesso tempo un popolo di guerrieri e di filosofi. Voi siete attualmente all’apice della gloria in ciò che concerne gli affari pubblici; ma io non so se avete preservato la reputazione di cui godeva la vostra isola in ciò che concerne la letteratura quando vivevano Addison, Congreve, Pope, Swift. Tuttavia non potete essere così in basso come siamo noi. La povera Francia non ha al momento né marina, né denaro, né reputazione, né ingegno. Siamo a secco di tutto10.
Il 16 aprile del 1760, in una seconda lettera a Keate, Voltaire insiste sulla irrappresentabilità di Shakespeare:
Non voglio litigare con voi a causa di Shakespeare; sono d’accordo con voi, la natura ha fatto molto per lui; gli ha dato tutti i suoi diamanti, ma il suo secolo non permise che fossero levigati. Cosa m’importa che un autore tragico abbia del genio se nessuna delle sue pièce può essere rappresentata in alcun paese del mondo? [...] Nessuno sente più di me i bei passi che si trovano qua e là in Shakespeare; ma vi dirò con Pope che non bastano un naso e un mento per fare un bel viso, ci vuole un insieme regolare... Io non potrei sopportare la mescolanza di tragico e di ridicolo, mi sembrerebbe mostruoso.
La lettera si conclude però amabilmente, con una visione tollerante e relativista:
D’altronde, io non vi dò il mio punto di vista in quanto è buono, ma in quanto è mio; io vi espongo il mio gusto, come Dio me lo ha dato; siamo tutti a tavola, ognuno mangia e beve quel che gli piace; io non litigherò col mio vicino se a lui piace il bue e a me il montone11.
Voltaire temeva che l’eccessivo riconoscimento di Shakespeare ne avrebbe fatto un modello universale che avrebbe corrotto e imbarbarito anche il teatro francese, come mostrava l’episodio della Clairon in Tancrède.
Che dite della Clairon che voleva un patibolo sulla scena? Amico mio, bisogna vincere gli Inglesi, non imitare la loro barbara scena. Studiamo la loro filosofia, calpestiamo come loro gli infami pregiudizi, cacciamo i gesuiti e i lupi, evitiamo di combattere stupidamente la gravità e i vaccini, apprendiamo a coltivare la terra, ma guardiamoci bene dall’imitare il loro selvaggio teatro12.
In ambito estetico Voltaire era ossessionato dall’assenza di gusto quanto in ambito religioso lo ripugnava la superstizione. Annota nel Traité sur la tolérance: «La superstizione sta alla religione come l’astrologia all’astronomia, è la figlia molto folle di una madre molto saggia. Queste due figlie hanno a lungo soggiogato la terra»13. Come la purezza divina dell’Essere Supremo si opponeva alla superstizione, ai sentimenti e alle pratiche della devozione popolare, l’estetica doveva mirare alla purezza e alla perfezione delle norme classiche. Ogni tradimento di questo incrollabile principio suscitava la sua ira. E poiché il gusto era una prerogativa legata alla monarchia e alla tradizione francese, adesso la difesa del gusto da aristocratica diventa nazionale, acquista una valenza patriottica. Quando cominciano ad arrivare le notizie delle sconfitte militari in America e in India, Voltaire abbandona l’ambivalenza e i toni tolleranti su Shakespeare, per buttarsi in una polemica destinata a diventare guerra che sarebbe dura...

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Fazio, M. (2020) Voltaire contro Shakespeare. [edition unavailable]. Editori Laterza. Available at: https://www.perlego.com/book/3461538/voltaire-contro-shakespeare-pdf (Accessed: 15 October 2022).

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