La strage dei cristiani
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La strage dei cristiani

Mardin, gli armeni e la fine di un mondo

Andrea Riccardi

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La strage dei cristiani

Mardin, gli armeni e la fine di un mondo

Andrea Riccardi

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Nella Turchia sudorientale c'è una delle più belle città del Medio-Oriente. È Mardin. Oggi la sua popolazione è in grande maggioranza musulmana, ma nel 1915, quando fu teatro degli avvenimenti evocati da Riccardi, i cristiani avevano nove chiese, tre conventi e formavano una sorta di catalogo vivente del Cristianesimo: armeni in buona parte, ma anche cattolici di rito latino, ortodossi, assiri, siriaci, caldei. Questo libro è innanzitutto un'opera di pietà storica per ricordare il destino subito allora dai cristiani d'Oriente, ma anche per gettare luce sulla sorte che in anni più recenti ha travolto i cristiani di questi luoghi. Sergio Romano, "Corriere della Sera"

Può apparire una storia lontana, in un contesto oscuro e largamente rimosso. Ma così non è. La storia di Mardin, mostrando le complessità di allora, proietta questioni irrisolte sul presente e ci interroga sulle dinamiche della violenza e dell'odio. Umberto Gentiloni, "La Stampa"

Andrea Riccardi dimostra che si può scrivere un libro di storia, rigoroso e robusto nelle fonti, che sia anche di strettissima attualità. Alcune pagine sembrano tratte dalle tristi cronache attuali, che dalle vicine terre mesopotamiche narrano delle imprese dello Stato Islamico. Lucio Caracciolo, "la Repubblica"

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Information

Year
2016
ISBN
9788858127230

II. Il regno del terrore9

Giorni «amari e diabolici»

Lo scoppio della prima guerra mondiale viene ricordato ancora come il «Seferberlik» (il battito del tamburo di mobilitazione per la guerra, con cui nell’impero ottomano fu annunciato l’ingresso nel conflitto). Le autorità cristiane di Mardin, in quell’occasione, manifestarono il loro patriottismo in vario modo, anche versando al municipio contributi per la guerra10. Ibrahim Kaspo racconta quei momenti, vissuti con intensità nonostante la sua giovane età (era nato nel 1899). Figlio di un avvocato impegnato nel municipio di Mardin, non fu arrestato perché ragazzo, mentre il padre e i due fratelli furono uccisi. Con la madre, due sorelle e due fratelli piccoli, il sedicenne Ibrahim fu deportato ad Aleppo, dove restò fino alla morte e dove scrisse i ricordi del 1915.
Erano tante le voci che all’inizio di quell’anno circolavano in città. I cristiani erano in allarme. In particolare, circolavano voci sull’alleanza tra armeni e russi, nemici della Turchia, seguite dalle notizie sulla resistenza armena di Van alle truppe ottomane nell’aprile 1915. C’era grande incertezza sull’accaduto, ma si percepiva una tensione verso i cristiani, rappresentati spesso come collaboratori dei nemici dell’impero.
Un segno inquietante si era avuto alla fine del mese di febbraio, con il licenziamento dei funzionari civili non musulmani, anche se il padre di Kaspo continuò a lavorare per il tesoro pubblico fino all’arresto. Sembrava che il governo non si fidasse più dei cristiani. In precedenza, erano state loro sequestrate le armi (spesso fucili da caccia o schioppi). Il possesso di armi da difesa era normale tra la popolazione, data la situazione d’incerto ordine pubblico in tante regioni dell’impero. Le perquisizioni erano avvenute spesso in maniera aggressiva, non limitandosi alle case private, ma toccando anche alcune chiese e tombe11. Si era trattato di espressioni della tipica arroganza del potere ottomano, nonostante le garanzie costituzionali, o di una lotta contro i cristiani? Difficile rispondere: l’opinione dei cristiani ondeggiava tra la speranza che la crisi potesse essere superata, come era accaduto altre volte, e il pessimismo davanti a segnali preoccupanti.
Molti episodi, tuttavia, denunciavano la diffidenza verso i cristiani, in particolare armeni. Era giunta a Mardin la notizia che i soldati armeni, arruolati nelle forze armate, erano stati disarmati e adibiti a lavori civili. Un segnale in controtendenza era stata, invece, la decorazione «El-Chahani» concessa dal sultano all’arcivescovo armeno-cattolico di Mardin, Ignace Maloyan. Proprio il 20 aprile (un giorno dopo lo scoppio della rivolta armena di Van), venne organizzata ufficialmente nel serraglio la cerimonia di consegna della decorazione, in cui Maloyan augurò lunga vita al sultano e vittoria al governo imperiale12. Dieci giorni dopo la cerimonia, furono perquisiti l’arcivescovado e la cattedrale degli armeno-cattolici. È significativo che Maloyan abbia scritto il testamento il 1° maggio, evidentemente consapevole della piega che le vicende stavano prendendo. Nel testo parlava di «naufragi minacciosi che stanno per inghiottire la nostra fragile e sfortunata vita», e ricordava i martiri «eroi innocenti» come modello di vita. Designava tre preti per sostituirlo in caso di allontanamento forzato e di «martirio». Rivendicava con forza la lealtà verso lo Stato ottomano: «Attesto davanti a Dio che non ho mai tradito in nessuna questione la Sublime Porta, ma al contrario le sono stato sempre sinceramente fedele come lo esigono d’altronde i doveri di arcivescovo cattolico. Vi esorto – diceva ai fedeli – dunque a seguire sempre lo stesso cammino».
Segnali preoccupanti erano giunti da Diyarbekir, dove il 25 marzo 1915 era stato nominato il nuovo valì, Rechid bey (arrivato sul posto il 28 marzo), in sostituzione di Hamid bey, che aveva contenuto i Giovani Turchi locali negli impeti anticristiani. Nel capoluogo del vilâyet, c’era un gruppo importante che da tempo spingeva per una politica contro i cristiani. Al suo interno spiccava il deputato locale Feyzi Pirinççizade, intimo dell’ideologo giovane turco Ziya Gökalp. Questo gruppo aveva ottenuto la rimozione di Hamid bey e la nomina del successore in accordo con i propri progetti13. Dopo le prime due settimane di aprile la caccia ai disertori aveva assunto un aspetto minaccioso verso i cristiani a Diyarbekir. Il 21 aprile erano cominciati gli arresti dei responsabili politici armeni, e l’11 maggio quelli dei principali personaggi della comunità armena14.
La pressione sui cristiani del capoluogo durava da qualche tempo. Vari mesi prima, nella notte tra il 18 e il 19 agosto 1914, un incendio al bazar aveva mandato in cenere tante botteghe cristiane: ancora oggi se ne parla come del «bazar bruciato»15. Quell’incendio manifestò la volontà del gruppo unionista (giovane turco) di distruggere la forza economica dei non musulmani. In una lettera al patriarca Zaven a Costantinopoli, Migirditch Tchelgadian, prelato armeno di Diyarbekir, raccontava l’incendio e l’indifferenza del sindaco Djemil Zadé Fouad bey e del capo della polizia Gevranizâde Memduh bey (un personaggio ricorrente nelle pagine di questa storia). Il prelato scriveva che il valì uscente Djelal bey gli aveva annunziato – nell’agosto 1914 – che gli sarebbe succeduto Rechid bey presentandoglielo con queste parole: «È un personaggio benevolo e allo stesso tempo un democratico... non ci sarà niente da temere dopo il suo arrivo». Rechid rimase a Diyarbekir solo qualche settimana di agosto per essere spostato a Bassora e sostituito da Hamid16. Sarebbe ritornato alla fine del marzo 1915.
Il primo segnale minaccioso a Mardin fu la vicenda di Hanna, un prete caldeo della famiglia Chouba, tra le più importanti e benestanti della città (suo padre era stato console onorario di Spagna). Il sacerdote, poco più che trentenne, lavorava nella vicina cittadina di Nisibi, l’attuale Nusaybin, dove c’erano circa trecento caldei. Aveva ospitato in casa sua un disertore caldeo. Rhétoré sostiene che questo genere di ospitalità fosse comune in quei tempi e che la polizia la tollerasse, anche perché veniva corrotta. Ma «i musulmani di quella città cercavano un’occasione propizia per nuocere alla famiglia Chouba che, secondo loro, aveva troppo successo negli affari». Una denuncia al valì Rechid provocò l’arresto di Hanna Chouba il 9 maggio. Fu condotto a Diyarbekir attraverso la natìa Mardin, dove trascorse la notte in prigione: «Quando attraversò le vie della città..., la plebaglia gli rivolse parole volgari lanciando fango e sputandogli in faccia»17. Hanna Chouba fu assassinato sulla via di Kharput. La sua famiglia avrebbe subìto la stessa sorte, poco tempo dopo. La fine del prete caldeo era un segnale chiaro. Eppure i cristiani speravano ancora che si trattasse di un fatto isolato.
Maloyan aveva, più degli altri, la coscienza del pericolo, anche se la recente decorazione poteva farlo sperare in una qualche protezione per la sua persona. Nel mese di maggio, un gruppo di armeni cattolici di Tell Armen, un borgo non lontano da Mardin, gli proposero di condurlo sulle montagne del Sinjar, controllate dagli yazidi (minoranza religiosa non musulmana), per nascondersi. Una proposta analoga era stata fatta al prelato anche da un musulmano della famiglia Çelebi. Maloyan rispose: «Abbiamo accettato l’abito ecclesiastico per essere alla testa dei nostri fedeli laddove sono... se lo si deve, fino alla morte»18. Restò tra la gente. Un testimone, Youssef Khazakat (bambino all’epoca dei fatti), aggiunge che alcuni notabili avevano proposto al vescovo di non attendere la deportazione ma di attaccare i turchi per difendersi. Maloyan ricordò loro che i «buoni cattolici» avevano diritto all’autodifesa ma non all’aggressione. Era la scelta di non combattere.
I cristiani con maggiori relazioni fuori Mardin si erano posti il problema di come difendersi, o almeno di come preservare le persone più esposte. Una cristiana mardiniota, Wardé Katmargi aveva un fratello prete, Gabriel. Un altro fratello, che viveva ad Aleppo (incaricato di rappresentare in questa città gli interessi commerciali della propria famiglia), aveva attirato l’attenzione di Wardé sui rischi che correva Gabriel: «Abbiamo parlato di questo – narra Wardé – a mons. Maloyan e a mio fratello prete che, in qualche modo, ci hanno rassicurato e ci hanno detto che avrebbero continuato tranquillamente il loro minis...

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