L'ammazzabambini
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L'ammazzabambini

Legge e scienza in un processo di fine Ottocento

Patrizia Guarnieri

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Legge e scienza in un processo di fine Ottocento

Patrizia Guarnieri

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A dare l'allarme era stata una ragazzina. Aveva sentito le grida ed era corsa subito a chiamare aiuto. Fu così che, in un paese del Valdarno nel 1875, Amerigo venne salvato e l'assassino preso. In due anni erano misteriosamente scomparsi quattro bambini. Era stato lui, Carlino Grandi, 24 anni, nell'aspetto e nel comportamento quasi un concentrato di quelle stigmate che, secondo le teorie proclamate proprio allora da Lombroso, rivelano la natura dell'individuo criminale.

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Information

Year
2015
ISBN
9788858121306

III. Il processo

Yorick e i processi celebri

Come raccontare un processo? Non di quelli politici o per reati comuni di poco conto: un processo per delitto di sangue. Storie truculente, crimini efferati, quasi contro natura: ecco cosa voleva sentire la gente.
Tanto meglio se l’assassino apparteneva agli insospettabili: una persona dabbene, magari, o comunque uno che sarebbe parso incapace di commettere violenza contro vittime deboli e innocenti. Anche i racconti di briganti piacevano parecchio; per tutt’altro motivo, perché il protagonista era sì violento, ma solo coi prepotenti, e in fondo coraggioso, ammirevole per le sue gesta avventurose. Sulle imprese criminali e banditesche stava crescendo oramai, nel secondo Ottocento, un genere letterario di successo. Una moda francese, ma che facilmente era attecchita anche da noi, trovando terreno favorevole nelle credenze popolari e nella tradizione dei cantastorie.
In Toscana, a Firenze, c’era chi andava facendo fortuna, a stampare pubblicazioni del genere; opuscoletti a basso costo, di poche pagine e qualche illustrazione che andavano a ruba dai venditori ambulanti. Prendendo lo spunto dalla cronaca nera, Adriano Salani li faceva comporre in gran furia, secondo il gusto popolare; che poi era il suo, quello del tipografo di via San Niccolò: un fiorentino figlio di ortolani, che a scuola era stato fino alla prima elementare e il mestiere aveva appreso da ragazzetto, prima presso il Niccolai poi da Le Monnier e via via, finché nel 1862, a ventott’anni, s’era messo in proprio. Ci sapeva fare, anche nello scegliersi gli autori, di non bello stile spesso, ma allenati a confezionare, per il lettore e la lettrice ingenui, pagine ad effetto; stessa ricetta, soliti ingredienti1.
Pietro Francesco Leopoldo Coccoluto Ferrigni, però, non poteva certo confondersi con i letterati da quattro soldi. Nella sua attività di scrittore e conferenziere instancabile, dotto senza essere noioso, sempre vantò un attaccamento al carattere popolare toscano – in specie al gusto della canzonatura –, ma col qualunquismo di chi al popolo guardava sempre dall’alto della propria posizione sociale, fermo a convinzioni, moderatissime, «monarchiche e ministeriali».
Nel raccontare processi, più volte gli era capitato di cimentarsi, come giornalista, con il pungente pseudonimo di Yorick figlio di Yorick. Tanto più che era un avvocato, e di giurisprudenza aveva seguito gli studi in tutte le università granducali, a Firenze, Siena, Pisa, dove s’era iscritto nel 1851, quando era un quindicenne prodigio2. Nei suoi resoconti dal tribunale, perciò, i lettori trovavano non soltanto la vivacità letteraria e lo spirito sagace per i quali era noto, bensì anche la cognizione tipica di chi parlava di un mondo conoscendolo dall’interno. E si può ben immaginare come il suo amico d’infanzia Celestino Bianchi, direttore de «La Nazione», volentieri gli affidasse la consuetamente grigia cronaca giudiziaria, qualora si profilassero dei dibattimenti interessanti.
Due erano, nel dicembre 1876 a Firenze, i processi in corso che Ferrigni fu incaricato di seguire per il quotidiano cittadino. La causa di diffamazione a querela di Giovanni Nicotera, contro Sebastiano Visconti gerente responsabile della «Gazzetta d’Italia», nonché la causa di omicidio continuato e tentato contro Callisto Grandi. Nel tribunale civile e correzionale si discuteva quindi di un barone oltre che ministro dell’interno in carica, e dell’insinuazione che egli fosse stato una spia dei Borboni, anziché l’eroico liberale caduto loro prigioniero. Si trattava di un processo chiaramente politico, appena inaugurato il governo Depretis, dopo la cosiddetta rivoluzione parlamentare e il crollo della Destra, cui erano state fatali la questione ferroviaria e l’opposizione del gruppo moderato toscano con Peruzzi, sindaco di Firenze.
Nella sala di assise, invece, si giudicava un carradore, di paese, miserabile, protagonista di una storia orrenda che sembrava non appartenesse a nessun luogo, a nessun tempo precisi. Si rievocavano vicende che avevano sconvolto l’esistenza, come sempre la stessa, di gente comune, di un borgo a poche miglia dall’ex capitale del Regno, eppure lontano.
A uscire dall’aula del tribunale ed entrare nell’altra dell’assise – come appunto veniva facendo Pietro Ferrigni per obblighi professionali –, sembrava di passare attraverso mondi distantissimi, reciprocamente incuranti. Da quello ufficiale della politica, importante per le sorti e la storia nazionali, a quello oscuro del vive­re quotidiano dove i grandi avvenimenti del paese non lasciavano traccia, dove contavano piuttosto i bisogni e le abitudini di una piccola comunità e degli individui, i loro valori e i ­pregiudizi.
Ad assistere al processo Nicotera, comunque, non c’era nessuno o quasi. Deserto lo spazio in sala riservato al pubblico, eccetto che per qualche giornalista, semi vuoto persino il banco della difesa: mentre si recitavano deposizioni magnificanti l’alto patriottismo del ministro, «ad uno ad uno gli avvocati raccattano i fogli, e vanno a fare una giratina», annotò Yorick sul suo taccuino. In San Pancrazio, invece, «tutti i corridoi, tutti gli ambulatorii, tutte le scale, sono pieni zeppi»: sempre una folla immensa; ogni giorno come il primo, per l’intera durata del giudizio, prima ancora che una seduta iniziasse, verso le nove e mezzo, fin dopo che era terminata, all’imbrunire.
Dalle soporifere udienze su Nicotera, lo stesso Ferrigni, quantunque impegnato nella vita politica, cercava di venirsene via al più presto, e di trotto: per precipitarsi al dibattimento contro l’uccisore dei fanciulli, per osservare come procedessero i lavori. E cosa facesse l’imputato; e cosa dicessero i giudici, avvocati, periti; quali reazioni animassero l’eterogeneo pubblico; quali commenti circolassero nella ‘sala dei passi perduti’. Riuscì a farne così una brillante cronaca, che quotidianamente tenne oltremodo desta l’attenzione dei lettori, contagiandoli più o meno con la propria curiosità3.
Come spiegare i motivi di tanto interesse? Che erano svariati a seconda dei diversi spettatori e lettori. Perché mai, per esempio, tutte quelle signore e signorine col cappellino non si perdevano una sola udienza? L’avvocato Ferrigni avrebbe preferito che fossero rimaste a casa come faceva sua moglie. Specialmente le più giovani; meglio sarebbe stato che studiassero il pianoforte – così scrisse –, anziché frequentare le sale dell’assise. A cercarvi cosa, poi, egli non riusciva, nella sua virile deplorazione, proprio a capire.
Era l’esplosione del gusto sensazionalista, di cui si dimostrarono avide soprattutto le consumatrici femminili; come intese benissimo una allora signorina di Voghera, abitante proprio a Firenze e che a Firenze, fino dal 1877, pubblicò molti suoi romanzi dall’editore Salani, avendone egli scoperta la vena inestinguibile4. La cronaca nera e giudiziaria forniva un ampio repertorio per soddisfare, alimentandolo, il bisogno collettivo «del fantastico, del meraviglioso, dell’inverosimile»: qualcosa che sembrava una vera e propria «mania nella donna del popolo». E chissà se Carolina Invernizio – fanatica di cappellini piumati e di vicende criminali – assistette mai al processo contro il carradore dell’Incisa, in comune col quale ella aveva l’anno di nascita.
Se non lei, comunque, alcune sue future lettrici erano certo là, fra le signore che seguirono il dibattimento e che comprensibilmente ebbero molte emozioni: si commossero a scorgere le povere madri delle vittime; sobbalzarono al levarsi di grida minacciose tra il pubblico; rabbrividirono a sentir rievocare, in dettaglio, le scene dei delitti; ma soprattutto fecero a gara fra loro per riempire di coccoli il bimbo scampato per miracolo (e per lestezza) alle grinfie dell’assassino.
Amerigo si ritrovava, adesso, «amorosamente serrato fra le braccia delle più eleganti e nobili signore fiorentine, colmato di carezze, di dolci e di baci, invitato a pranzo tutti i giorni, e rimandato a casa la sera colle tasche piene di zuccherini e di foglietti... consorziali». A tante e tali attenzioni non era abituato, poverino, e Yorick dovette ritenere che lo stessero proprio viziando. Ma le «belle donnine hanno sempre ragione»: schierandosi naturalmente a protettrici della vittima e trattandosi questa di un fanciullo, era comprensibile che la pietà loro si tramutasse in una specie di sentimento materno; di contro all’orrore che a chiunque doveva ispirare il carnefice di creature innocenti.
Fino ad un certo punto però. Giacché, e chi poteva negarlo?, certi ragazzini cresciuti per strada erano un po’ troppo vivaci, per così dire. Ne avevano già parlato anche sui giornali; dei monelli, maleducati dai genitori, che per divertimento infierivano crudelmente su esseri infelici perché deformi o mancamentati. Come era toccato appunto al Grandi; questo lo si sapeva per certo. E che egli avesse avuto dei motivi, per disperarsi a compiere l’esecrando gesto, non erano pochi a crederlo; senza con ciò giustificarlo, naturalmente, né condividere quella proposta che a lui era piaciuta tanto, di innalzare un monumento alla vittima dei monelli sbeffeggiatori.
L’accusato, inoltre, bisognava ammetterlo, non aveva l’aria truce di un criminale; e neppure l’aspetto troppo per bene che in certi assassini pareva fatto apposta, come una maschera, per nasconderne la vera natura. Lui, invece, sembrava un ragazzo, conclusero le guardie del carcere che a veder delinquenti erano ben abituate; vari testimoni ripeterono lo stesso; Yorick lo fece capire. Un poveraccio, in ogni caso; uno che si dava tante arie però non capiva bene neppure quando i giudici gli si rivolgevano. Non si rendeva conto in quali guai si trovasse.
In fondo dunque, la causa conto l’uccisore dei bambini non conteneva quelli che nel sensazionalismo dei processi celebri costituivano gli ingredienti principali: passioni scabrose, lucidità mefistofelica, vincoli personalissimi che finivano nel sangue. I protagonisti non esibivano abbastanza, all’opinione pubblica, le fisionomie stereotipate di carnefice e vittime; non apparivano perfettamente inquadrabili in ruoli e destini antitetici che consentissero, a quanti si appassionavano alle terribili vicende, di ritrovarvisi, di abbandonarsi ad opposte emozioni, al male e al bene. Finché poi la ragione del tribunale non avesse riportato i buoni sentimenti, naturali, riposti in ogni cuore, a combaciare con la giustizia.
A scatenare la curiosità, allora, era anzitutto la persona stessa di Carlo Grandi. In San Pancrazio la gente si strizzava «in un canto per delle ore intiere, pur di buscarsi un posticino donde si vegga alla meglio la faccia pallida e bieca dell’imputato». Come fosse brutto in modo straordinario, anzi deforme, i quotidiani l’avevano già descritto; caratteristiche fisiche di quel genere volevano pur dir qualcosa. Per esempio: poca barba e niun colore, sotto il ciel non vi à peggiore. E chi non lo sapeva? Erano proverbi, modi di dire; ma non solo. Anche gli scienziati, alla fine, da quei difetti del corpo riconoscevano qualcosa su carattere, sentimenti, intelligenza di una persona. O almeno stabilivano se uno era normale, oppure no.
Si diceva fosse anche scemo. Così al suo paese; e da grullo infatti lo trattavano i ragazzi. Sapeva leggere e scrivere, sì ma, se anche avesse letto tutti quei libri come andava vantando, non era mica prova che fosse a posto di cervello. Il «primo grado di pazzia è tenersi savio», come dice il proverbio. Ma pazzo non era. O forse sì? Bisognava intendersi su cosa voleva dire ‘pazzo’. Pericoloso lo era di sicuro. Nessuno s’aspettava che potesse reagire così, a dei dispetti di bambini. Ma di tipi come lui ce n’erano tanti, in giro. E chi non ne conosceva? Stavano spesso a giuggiolarsi coi ragazzi, perché uomini fatti non erano neppure a trent’anni. Bisognava stare attenti. Ma come si faceva a riconoscerli?
Questo lo avrebbero spiegato gli studiosi: era annunciato. I dottori, scienziati anzi, che sarebbero stati presenti in assise fin dal primo giorno. Erano loro, al processo, gli altri personaggi d’attrazione. E difatti, all’udienza in cui la parola spettava ai periti della difesa, si vide accorrere un pubblico ancor più numeroso, se possibile, e certo assai speciale,
di studiosi delle s...

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