Postdemocrazia
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Postdemocrazia

Colin Crouch, Cristiana Paternò

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Postdemocrazia

Colin Crouch, Cristiana Paternò

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Un libro sul destino della democrazia nella società attuale: non una situazione assolutamente disperata (ma poco ci manca), per la quale Crouch indica alcuni rimedi su cui meriterà riflettere. Eccezionalmente illuminante e suggestivo. Gianni Vattimo Una lettura attenta dellevoluzione del mondo politico, economico e sociale. Un ricostituente per esangui discussioni politiciste. Luigi La Spina, La StampaCrouch entra con precisione nel cuore dei più scottanti problemi della politica odierna. Michele Prospero, lUnità

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1. Perché «postdemocrazia»?

In questi primi anni del XXI secolo la democrazia sta vivendo una fase contrassegnata da paradossi notevoli. Da una parte si potrebbe dire che abbia raggiunto un punto culminante nella storia mondiale. Gli ultimi venticinque anni hanno visto, nell’ordine, dapprima la Penisola iberica, poi in forme più eclatanti l’ex impero sovietico, il Sudafrica, la Corea del Sud e altre regioni del Sudest asiatico, infine alcuni Paesi dell’America Latina, adottare almeno una forma fondamentale di elezioni più o meno libere e democratiche. Attualmente il numero degli Stati nazionali che hanno scelto sistemi democratici di questo tipo è maggiore che nel passato. Secondo i risultati di un progetto di ricerca sulla democrazia globale condotto da Philippe Schmitter, il numero dei Paesi dove si svolgono elezioni ragionevolmente libere è cresciuto dai 147 del 1988 (alla vigilia del crollo dell’Unione Sovietica) ai 164 del 1995 e ai 191 del 1999 (Schmitter, comunicazione privata, ottobre 2002). Se adottiamo una definizione più ristretta di libere elezioni, i risultati sono più ambigui: si registra un calo da 65 a 43 tra il 1988 e il 1995, quindi una crescita a 88 casi.
Contemporaneamente, tuttavia, nelle democrazie consolidate dell’Europa occidentale, del Giappone, degli Stati Uniti d’America e in altre regioni del mondo industrializzato in cui la democrazia è generalmente considerata come acquisita, e dove occorre impiegare indicatori meno grossolani del suo stato di salute, la situazione è meno ottimistica. Un recente rapporto della Commissione trilaterale – un organismo selezionato di studiosi europei, giapponesi e americani – giunge alla conclusione che non è tutto rose e fiori nella democrazia di quei Paesi (Pharr e Putnam, a cura di, 2000). Gli autori guardano alla questione innanzitutto in termini di diminuita capacità d’azione dei politici a causa della loro legittimità in calo progressivo a seguito della partecipazione sempre più scarsa alle elezioni. Avrebbero potuto ampliare la loro analisi prendendo in considerazione anche il problema del pubblico che trova sempre più difficile dare credito ai politici. Naturalmente, come i curatori sottolineano (Pharr, Putnam e Dalton, 2000), si può interpretare la crescente insoddisfazione della gente rispetto alla politica e ai politici come un segnale di salute della democrazia: ossia, un’opinione pubblica politicamente matura ed esigente ha aspettative maggiori dai suoi statisti rispetto alla generazione precedente, più rispettosa. Oppure si può argomentare che la gente non si occupa di politica perché è contenta dei risultati di base del governo e in ogni caso soddisfa la maggior parte dei suoi bisogni grazie al mercato. In seguito esamineremo questo argomento da vari punti di vista, ma anticipiamo qui una conclusione: l’errore fondamentale è ritenere che, poiché la maggior parte delle persone ha perso interesse per la politica, in qualche modo il potere politico tenda a svanire e nessuno lo voglia o ne faccia uso.
Qui intendo definire la questione in termini differenti, in termini dichiaratamente ideali, che servono ad innalzare il livello delle aspettative riguardo alla democrazia. I modelli ideali, mentre non possono quasi mai essere realizzati pienamente, hanno uno scopo pratico nello stabilire un discrimine. È sempre valido e molto utile considerare la nostra condotta in relazione a un ideale, così da poterla migliorare. È essenziale assumere questo atteggiamento verso la democrazia piuttosto che quello più comune, che consiste nel ridimensionare le definizioni dell’ideale in modo che si uniformino a ciò che possiamo raggiungere senza particolare fatica: difatti così si alimenta l’autocompiacimento e si annulla l’impegno a identificare le forme in cui la democrazia viene indebolita. Vengono in mente gli scritti dei politologi americani degli anni Cinquanta, che adattavano la loro definizione di democrazia in modo da farla corrispondere alla prassi vigente negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, piuttosto che accettare qualche difetto nei sistemi politici dei due Paesi (p. es. Almond e Verba, 1963) – un atteggiamento più consono alla ideologia della Guerra fredda che alla analisi scientifica. Un approccio simile domina il pensiero contemporaneo. Ancora una volta per influsso degli Stati Uniti, la democrazia è sempre più spesso definita come democrazia liberale: una forma storica contingente, non un concetto normativo stabilito una volta per tutte (vedi la trattazione critica di questo punto in Dahl, 1989; Schmitter, 2002). La democrazia liberale insiste sulla partecipazione elettorale come attività politica prevalente per la massa, lascia un largo margine di libertà alle attività delle lobby, con possibilità assai più ampie di coinvolgimento soprattutto a quelle economiche, e incoraggia una forma di governo che evita interferenze con l’economia capitalista. Si tratta di un modello elitario scarsamente interessato al coinvolgimento di larghi strati di cittadini o al ruolo delle organizzazioni al di fuori dall’ambito economico.
La democrazia prospera quando aumentano per le masse le opportunità di partecipare attivamente, non solo attraverso il voto ma con la discussione e attraverso organizzazioni autonome, alla definizione delle priorità della vita pubblica; quando le masse usufruiscono attivamente di queste opportunità; e quando le élite non sono in grado di controllare e sminuire la maniera in cui si discute di queste cose. È ambizioso pensare che un gran numero di persone partecipi con vivo interesse al dibattito politico vero e proprio e concorra a stabilire i programmi politici, anziché rispondere passivamente ai sondaggi elettorali, e che si impegni consapevolmente nel seguire gli avvenimenti e le questioni politiche. Questa nozione di democrazia è ben più esigente rispetto a quella di democrazia liberale.
L’accontentarsi delle richieste minimali della democrazia liberale produce un certo compiacimento rispetto all’affermarsi di ciò che io chiamo «postdemocrazia». In base a questo modello, anche se le elezioni continuano a svolgersi e condizionare i governi, il dibattito elettorale è uno spettacolo saldamente controllato, condotto da gruppi rivali di professionisti esperti nelle tecniche di persuasione e si esercita su un numero ristretto di questioni selezionate da questi gruppi. La massa dei cittadini svolge un ruolo passivo, acquiescente, persino apatico, limitandosi a reagire ai segnali che riceve. A parte lo spettacolo della lotta elettorale, la politica viene decisa in privato dall’interazione tra i governi eletti e le élite che rappresentano quasi esclusivamente interessi economici. Anche questo modello, come l’ideale opposto, più ambizioso, è di fatto un’esagerazione, ma nella politica contemporanea si possono ritrovare sufficienti elementi perché valga la pena chiedersi dove si collochi la nostra vita politica su una scala che va dal modello minimalista di democrazia a quello più ambizioso; e in particolare per stabilire in quale direzione sembri muoversi tra questi due poli. La mia tesi è che ci muoviamo sempre di più verso il polo postdemocratico e questo spiega il diffuso senso di disillusione e disappunto per il livello della partecipazione e per il rapporto tra la classe politica e la massa dei cittadini in molte, forse nella maggior parte, delle democrazie avanzate.
Se ho ragione su questo punto, i fattori che indicherò come cause di questa tendenza serviranno anche a spiegare un altro aspetto, che sta particolarmente a cuore ai socialdemocratici e a chi sostiene l’egualitarismo politico. Nelle condizioni in cui la postdemocrazia cede sempre maggior potere alle lobby economiche, è scarsa la speranza di dare priorità a forti politiche egualitarie che mirino alla redistribuzione del potere e della ricchezza o che mettano limiti agli interessi più potenti.
Inoltre, se la politica sta diventando postdemocratica in questo senso, allora la sinistra e il centro vivranno una trasformazione che sembra rovesciare molte delle conquiste ottenute nel corso del XX secolo. In quell’epoca la sinistra e il centro hanno lottato, in alcune fasi e in alcuni luoghi in forme graduali ed essenzialmente pacifiche, altrove e in altre fasi opponendosi a violenze e repressioni, affinché la voce della gente comune fosse presa in considerazione negli affari dello Stato. Queste voci sono destinate ad essere di nuovo strozzate, visto che i poteri economici continuano a sfruttare i loro strumenti per esercitare un’influenza, mentre quelli del demos appaiono indeboliti? Questo non comporta un ritorno puro e semplice alla situazione di inizio XX secolo, perché, pur muovendoci nella direzione opposta, siamo in un momento storico diverso e portiamo con noi l’eredità del nostro passato recente. La democrazia piuttosto che un percorso circolare ha compiuto una parabola il cui tracciato tocca due volte la stessa altezza, una in fase ascendente e l’altra in fase discendente, dopo aver superato il centro della figura. Questa immagine è rilevante per molto di ciò che dirò più avanti a proposito delle complesse caratteristiche della postdemocrazia.
Altrove (Crouch, 1999b) ho scritto sulla «parabola della politica dei lavoratori» concentrandomi sull’esperienza della classe operaia britannica. Mi riferivo a come, nel corso del XX secolo, quella classe sia passata attraverso vari stadi: inizialmente era una forza debole ed esclusa ma sempre più numerosa e insistente nel bussare alla porta della vita politica; poi ebbe un breve momento saliente nella fase di affermazione del welfare state, dei keynesiani al potere e delle relazioni istituzionalizzate fra le parti sociali; infine si è ridotta a un raggruppamento sempre più scarno e disorganizzato ai margini della vita politica, mentre i traguardi raggiunti a metà del secolo vengono smantellati. La parabola è più evidente in Gran Bretagna e forse anche in Australia: l’affermarsi del potere politico della classe operaia in questi Paesi è stato graduale e massiccio, il declino particolarmente repentino. In altri Paesi in cui l’affermazione è stata altrettanto graduale ed estesa – innanzitutto i Paesi scandinavi – il declino è stato meno accentuato. I lavoratori nordamericani hanno ottenuto conquiste meno rilevanti prima di un crollo ancor più profondo. Con qualche eccezione (p. es. Olanda e Svizzera), nella maggior parte dell’Europa occidentale e in Giappone la fase storica dell’ascesa è stata più turbolenta e segnata da violenze. I Paesi dell’Europa centrale e orientale hanno avuto un percorso diversissimo a causa delle distorsioni e deformazioni arrecate dal comunismo ai movimenti dei lavoratori.
Il declino della classe operaia è solo un aspetto, per quanto importante, della parabola democratica. Le due questioni, la crisi dell’egualitarismo e la banalizzazione della democrazia, non coincidono necessariamente. I sostenitori dell’egualitarismo potrebbero dire che per loro non conta quanto un governo manipoli la democrazia, a patto che esso redistribuisca in modo più equo la ricchezza e il potere nella società. Un democratico conservatore farebbe notare che alzando la qualità del dibattito politico non necessariamente si migliorano le politiche redistributive. Ma in un punto cruciale le due questioni coincidono ed è su questo punto che intendo concentrare l’attenzione. Le mie tesi fondamentali sono queste: mentre le forme della democrazia rimangono pienamente in vigore – e oggi in qualche misura sono anche rafforzate –, la politica e i governi cedono progressivamente terreno cadendo in mano alle élite privilegiate, come accadeva tipicamente prima dell’avvento della fase democratica; una conseguenza importante di questo processo è la perdita di attrattiva, sempre più accentuata, da parte di argomenti a favore dell’egualitarismo. Un’implicazione di questo assunto è che vedere i mali della democrazia solo come colpa dei mass media e dell’ascesa degli strizzacervelli o degli errori personali dei politici significa ignorare che si stanno verificando processi ben più profondi.

La fase democratica

Una società si avvicina probabilmente all’accezione piena di democrazia, per come la intendo io, negli anni immediatamente successivi alla sua affermazione o subito dopo una grave crisi del regime, quando l’entusiasmo per la partecipazione politica è massimo; quando molti gruppi e organizzazioni di base diverse si impegnano insieme a definire delle priorità politiche che corrispondano finalmente ai loro bisogni; quando gli interessi di potere che dominano nelle società non democratiche vengono presi in contropiede e messi sulla difensiva; e fintanto che il sistema politico non ha scoperto come gestire e manipolare i nuovi bisogni. I movimenti politici e i partiti popolari possono benissimo essere dominati da capi tutt’altro che democratici nel modo di fare; ma quantomeno sono soggetti alla vivace pressione di un movimento popolare, che a sua volta rappresenta in qualche modo le aspirazioni della base.
Nella maggior parte dei Paesi dell’Europa occidentale e in America settentrionale la fase democratica è iniziata attorno alla metà del XX secolo: poco prima della seconda guerra mondiale negli Stati Uniti e nei Paesi scandinavi; subito dopo in molti altri Paesi. A quell’epoca, non solo gli ultimi grandi movimenti di resistenza alla democrazia – fascismo e nazismo – erano stati sconfitti in una guerra globale, era anche il cambiamento politico a procedere di pari passo con un grande sviluppo economico che rese possibile realizzare numerosi obiettivi democratici. Per la prima volta nella storia del capitalismo, la salute generale dell’economia veniva vista in relazione alla prosperità della massa dei salariati. Questa convinzione venne chiaramente espressa nelle politiche economiche associate alla dottrina keynesiana, come pure nella logica del ciclo di produzione di massa e consumo di massa incarnato nei cosiddetti modi di produzione fordisti. Nelle società industriali che non divennero comuniste, venne raggiunto un certo compromesso sociale tra interessi d’impresa del capitalismo e classi lavoratrici. In cambio della sopravvivenza del sistema capitalistico e del generale acquietarsi della protesta contro le diseguaglianze da esso prodotte, gli interessi economici impararono ad accettare certi limiti nell’uso discrezionale del potere. La forza politica democratica concentrata a livello dello Stato nazionale fu in grado di garantire il rispetto di questi limiti, in quanto le aziende erano in gran parte subordinate all’autorità degli Stati nazionali.
Questo modello di sviluppo si è mostrato nella sua forma più pura nei Paesi scandinavi, nei Paesi Bassi e in Gran Bretagna. Altrove si notano differenze significative. Anche se gli Stati Uniti iniziarono il processo insieme ai primi con le grandi riforme del welfare negli anni Trenta, la diffusa debolezza del movimento dei lavoratori americano portò a un generale logoramento dei progressi iniziali nel welfare e nella politica delle relazioni industriali durante gli anni Cinquanta, benché gli Stati Uniti restassero in linea di massima keynesiani nell’approccio alle politiche economiche fino agli anni Ottanta. La democrazia approssimativa dell’economia americana, basata su produzione di massa e consumo di massa, aveva continuato a riprodursi. La Germania dell’Ovest, viceversa, non si imbarcò in una gestione keynesiana della domanda sino alla fine degli anni Sessanta, ma ebbe relazioni tra le parti sociali fortemente istituzionalizzate e, in pratica, un forte Stato sociale. In Francia e in Italia il processo fu meno chiaro. Si verificò un’ambigua combinazione tra concessioni alle richieste della classe operaia per rendere meno attraente il comunismo ed esclusione dai governi per i principali partiti dei lavoratori, poiché erano comunisti. La Spagna, il Portogallo e quasi sempre la Grecia non entrarono affatto nella fase democratica fino agli anni Settanta, quando vennero meno le condizioni che avevano prolungato il modello postbellico.
L’alto grado di impegno politico di massa dei primi anni del dopoguerra fu in parte conseguenza della ricostruzione postbellica, un compito collettivo estremamente importante e, in alcuni Paesi, anche un effetto residuo del carattere collettivo della vita in tempo di guerra. Questa situazione, in quanto tale, non avrebbe potuto durare a lungo: le élite appresero presto a manipolarla e a gestirla opportunamente. La gente era delusa, annoiata o presa dagli affari quotidiani. La crescente complessità delle questioni dopo il completamento delle riforme iniziali rese sempre più difficile tenersi informati, fare considerazioni intelligenti e persino capire da che parte si stava.
Gli anni postbellici si rivelarono piuttosto ambigui. In molti Paesi la forza inedita della politica democratica fu accompagnata da una recrudescenza del conservatorismo. La facile governabilità di molti popoli negli anni del dopoguerra rafforzò probabilmente nelle élite la convinzione di poter convivere con la democrazia e quindi contribuì ad affermare forme di democrazia che nei decenni precedenti sarebbero state impossibili. Il revival conservatore fu in parte provocato dal comportamento del regime sovietico, che rafforzò le forze anticomuniste negli Stati Uniti, in Francia, Germania, Italia e altrove; in parte dalla gratitudine popolare per il benessere diffuso dal capitalismo tra le masse, un benessere senza precedenti di cui godettero la maggior parte delle società occidentali negli anni Cinquanta da parte di generazioni che avevano sperimentato in precedenza la guerra, la disoccupazione di massa e, spesso, la dittatura. Gli osservatori politici degli anni Cinquanta non sono propensi a descriverli come un momento di forte impegno democratico di massa, parlano piuttosto di apatia, fine dell’ideologia e godimento apolitico del benessere.
Gli effetti di questi «fattori pacificanti» svanirono quando una nuova generazione, più sicura di sé, giunse a maturazione negli anni Sessanta esplodendo nel fenomeno generalmente noto come «il Sessantotto». Tra studenti, lavoratori e altri soggetti nacque una nuova esigenza di partecipazione e impegno nella gestione della vita pubblica e del lavoro. Nell’Europa occidentale, negli Stati Uniti e anche in alcune parti dell’Europa centrale la fase democratica di metà secolo viveva una «nuova stagione». Il crollo della soggezione politica provocato dall’avvento della democrazia di massa era stato dunque rinviato fino ad allora. Vi furono effetti durevoli sullo stile della politica e le modalità di relazione tra dirigenti e masse. Tuttavia nuove profonde ambiguità erano contenute anche in queste risposte, che stavano gradualmente creando il fenomeno della postdemocrazia. Le due crisi petrolifere degli anni Settanta misero fine alla crescita delle aspettative postsessantottine di una democrazia partecipativa scevra da conflitti e fondata sul benessere, e misero anche a repentaglio la capacità del sistema keynesiano di gestire l’inflazione. Allo stesso tempo, la nascita dell’economia dei servizi e il declino dell’industria manifatturiera come fonte di occupazione erano destinati a mettere in crisi il ruolo dei lavoratori manuali nel sostenere il ciclo di produzione/consumo e la democrazia di massa.
Gli effetti di queste vicende non furono uniformi nei vari Paesi occidentali. Le implicazioni di quest’ultimo fattore in particolare furono avvertite con molto ritardo in Germania, Austria, Giappone e, in qualche misura, in Italia, dove l’industria ha continuato a essere solida e a impiegare un crescente numero di addetti più a lungo che altrove. La situazione era notevolmente diversa in Spagna, Portogallo e Grecia, dove i lavoratori stavano appena iniziando a godere della partecipazione politica che i loro cugini settentrionali avevano sperimentato già da vari decenni. Questo fatto sfociò in un breve periodo in cui la socialdemocrazia sembrò prendersi una vacanza estiva: i Paesi scandinavi e baltici che ne erano stati a lungo la roccaforte si spostarono a destra, mentre la sinistra acquistò un ruolo significativo nei governi di molti Paesi mediterranei. Fu tuttavia un breve interludio. Anche se questi governi nel Sud dell’Europa fecero enormi passi avanti nell’estendere il welfare, prima di allora minimo, nei rispettivi Paesi (Maravall, 1997), la socialdemocrazia non riuscì a radicarsi in profondità. La classe operaia non acquistò la forza che aveva accumulato altrove, al culmine del sistema industriale.
Le cose andarono anche peggio in Italia, Spagna e Grecia, Paesi i cui governi furono coinvolti in scandali per corruzione politica. Alla fine degli anni Novanta è divenuto chiaro che la corruzione non era assolutamente limitata ai partiti di sinistra o ai Paesi meridionali, ma era un aspetto diffusissimo della vita politica (della Porta, 2000; della Porta e Mény, 1995; della Porta e Vannucci, 1999). In effetti, la corruzione è un indicatore evidente della scarsa salute ...

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